E-Book, Italienisch, 288 Seiten
Reihe: add saggistica
Lasta La più bella
1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-6783-283-5
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
La Costituzione tradita. Gli italiani che resistono
E-Book, Italienisch, 288 Seiten
Reihe: add saggistica
ISBN: 978-88-6783-283-5
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Abbiamo la Costituzione più bella del mondo ci dicono nelle cerimonie di Stato e nei dibattiti tv, ma alcuni suoi articoli restano, ancora oggi, lettera morta. Dobbiamo fare i conti con la penuria di case popolari, con il taglio agli assegni di cura dei malati gravi, ma anche con i crac delle banche e le truffe ai risparmiatori, con le astuzie degli evasori fiscali e con la tassazione che spreme sempre gli stessi, fino ad arrivare alle morti dei lavoratori senza diritti nelle serre del nord. Eppure c'è un'Italia che resiste. Alessio Lasta, giornalista e inviato di 'Piazzapulita', La7, si mette in viaggio e incontra donne e uomini che si rimboccano le maniche e lottano per veder riconosciuti i loro diritti. Ogni storia si chiude con un articolo della Carta disatteso e racconta la strada che ancora c'è da fare. È la piccola storia che chiede il conto alla grande Storia. Vite di resistenti che con coraggio affrontano attese e solitudine, che non si arrendono di fronte alle mancate risposte, che non cedono al vittimismo. Che sanno che la Costituzione richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Questo reportage sul campo diventa una specie di manifesto perché la nostra Costituzione diventi realmente 'la più bella'.
Autoren/Hrsg.
Weitere Infos & Material
Che il mondo possa essere migliore di com’è
Aggrappati alle nostre convinzioni, schiacciati tra quello che siamo e che vorremmo essere, come su una pietra di paragone che disossa le nostre miserie, dobbiamo aver deciso, un giorno chissà quale, che ci andavamo bene così come eravamo diventati. Un Paese dall’anima negletta, un caravanserraglio di opposti, dove chi meno vale più si fa valere. Dell’arroganza poi si è detto, negli anni, anche troppo.
Ci infiamma l’io. Ci atterrisce il noi. Il loro, invece, non ha più alcun diritto di tribuna.
Deve essere andata più o meno così. L’Italia uscita dalla Costituzione del ’48, sintesi delicata di equilibri ancora instabili, ma mirabile nell’individuare pesi e contrappesi della nostra fragile democrazia, dobbiamo essercela sentita troppo stretta addosso, per poterci stare ancora bene dentro.
Se avessimo della sincerità residua dovremmo ammettere che oggi siamo un pallido riverbero di quel Paese che i padri avevano disegnato per noi.
Eppure ci hanno consegnato alla Storia come un popolo di creativi, di artisti e di inventori, di solidali fratelli d’Italia, figli, come pur siamo, della pietà cristiana di Francesco d’Assisi, come della ragione di Galileo e Leonardo e, salendo più su ancora, della spinta del Rinascimento, l’ultimo grande regalo fatto dal nostro Paese al mondo.
Oggi invece, nelle brume del pensiero in cui ci hanno precipitato questi tempi, siamo diventati una grande ruota degli esposti.
Abbandoniamo i malati ai loro destini e alle forze resilienti delle loro famiglie.
Lasciamo che non sia affar nostro la morte di un migrante minorenne, perché alla coscienza abbiamo sostituito il codice.
Chiamiamo speculatori i truffati dalle banche, pensionati, contadini e piccoli artigiani che hanno perso tutto, sacrificati da uno Stato che doveva vigilare e non l’ha fatto.
Chiudiamo gli occhi sulle morti dei lavoratori in nero nelle serre delle nostre campagne e ci piace molto il peperone a cinquanta centesimi al chilo.
Respingiamo nei ghetti un uomo che ama un altro uomo o una donna che ama un’altra donna e ci vendichiamo sui social pubblicando le foto intime della nostra o del nostro ex.
Sfregiamo la nostra terra, avvelenandone le acque, poi compriamo la borraccia di alluminio per lavarci le coscienze.
Questo libro l’ho pensato una sera di marzo di qualche anno fa, dopo un reportage che avevo realizzato a Taranto e che trovate tra le dieci storie che ho scelto di raccontarvi. Ero in albergo, disteso sul letto, come quando si è affrontata una prova importante: spossato. Perché il dolore che avevo vissuto e il senso di frustrazione che avevo provato raccontando la storia di Carla, malata di SLA cui non arriva l’assegno di cura, e di suo marito Biagio, che si mette la sveglia ogni due ore, di notte, per paura che il respiratore della moglie si fermi, avevano suscitato in me una sola domanda: dov’è finita la Costituzione, da queste parti? Perché permettiamo che un essere umano viva con questa sofferenza e debba sopperire, con sforzi disumani, a quello che i padri costituenti avevano messo nero su bianco come diritti riconosciuti? In quell’istante ho squadernato con la memoria le moltissime storie che in questi vent’anni di giornalismo ho raccontato. E loro sono emerse, con tragica vividezza. Qui ne trovate alcune. Le potete leggere anche partendo dal fondo. Oppure potete cominciare dall’inizio. O da un capitolo a caso, al centro del libro, se volete.
Ciascuna di loro è una parte per il tutto, «pezzi di vetro, coraggio, vita, bene, male, cuori, fede, sorriso», come direbbe De Gregori: «ognuno porta la sua croce, ognuno inciampa sul suo cammino».
Eppure questi frammenti raccontano una storia d’insieme, che tocca tutte le piaghe del nostro Paese, sulle quali il più delle volte siamo più propensi a buttare alcol etilico anziché tintura di iodio. E non è un caso se queste stesse storie mi abbiano quasi chiesto – in tutta la loro tragica evidenza – di riportare a galla due parole su cui ho poi costruito l’intelaiatura di questo racconto corale: giustizia e popolo.
Ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, ha desiderato che per sé vi fosse un Campo dei Miracoli. Forse perché è l’unico luogo dove possiamo illuderci che questi avvengano, frustrati come siamo dalla mancanza di giustizia. La stessa che colpisce il Pinocchio di Collodi, derubato dalla Volpe e dal Gatto di quattro monete, per finire nella galera dove «uno scimmione della razza dei Gorilla», il giudice, lo sbatte seppur incolpevole.
La bella versione cinematografica di Matteo Garrone, nel mettere in scena l’episodio di Pinocchio di fronte al giudice, fa ancora di più e fa emergere il significato profondo di quanto Collodi, superando la censura dell’epoca, ci aveva voluto dire: gli innocenti stanno dentro e i colpevoli stanno fuori.
«Dunque sei stato derubato? Sei innocente? Sì. Mettetelo in prigione! Come in prigione? Ma io sono innocente! Sei innocente e vai in prigione! Perché? In questo Paese gli innocenti vanno in prigione. Ma anche io ho qualcosa da dire, sono colpevole anche io, anche io sono un ladro. Cos’hai rubato? Ho rubato un maiale. Un po’ pochino. Anche una gallina. Ora che mi ricordo ho rubato anche un gioiello. Un gioiello? Allora sì, bravo, bravo, bravo. Liberatelo!»
Giustizia è una delle parole che ho ascoltato più spesso dalle persone che ho incontrato. Non è una parola di poco conto, ancor più per chi non ce l’ha e sente di meritarla. In fondo, tutte le vicende di questo libro difettano di giustizia che, ironia della sorte, «è amministrata in nome del popolo», come dice l’articolo 101 della Carta. Viene da chiedersi, allora, quante volte in nome del popolo si sia perpetrata un’ingiustizia e in quanta considerazione sia tenuto oggi questo popolo di cui tutti parlano.
Nella repubblica delle élites contro il popolo l’appartenenza è infatti puro tifo. Nello stadio Italia, se vuoi esistere, devi tifare. Gli ultimi anni li abbiamo passati a dire che il popolo ci faceva schifo, che chi lo aizzava era un populista, degrado semantico di un concetto che in origine aveva tutt’altro significato. Popolo e populismo erano parole di sinistra prima che la sinistra vi divorziasse quasi definitivamente, a vantaggio della destra antisistema, abilissima nel tradurre in azione politica istanze per lungo tempo trascurate e altrettanto scaltra nel sostituire il concetto di «popolo» con quello di «gente» prima, di «gentismo» poi. La deriva è riassunta bene in uno dei passaggi della solida sceneggiatura del film Hammamet, di Gianni Amelio: «Ormai popolo non è più in uso. Si preferisce piuttosto la parola gente, che allude a individui anonimi, senza distinzione storica».
Nella repubblica dell’hashtag, quale l’abbiamo fatta diventare, una massa di tifosi in servizio permanente non partecipa, ma parteggia. La distorsione delle curve è una coazione a ripetere, una mise en place preordinata che ci fa esistere per il solo fatto di esserci, non certo per quello che abbiamo da dire, finendo dunque per diventare anche noi, gruppi di pressione buoni all’una o all’altra tifoseria. Perdiamo così di vista la realtà. Quanto servirebbe, invece, una presa di distanza, un teatro epico, per dirla con Brecht, dove lo spettatore, ossia noi, non cede mai all’immedesimazione e non indulge mai all’istinto della curva delle idee. Mentre l’attore, ossia la politica, mantiene sempre una distanza critica rispetto alla messa in scena, consentendoci così di distinguere tra curva dei tifosi e realtà. E concedendo alla realtà di trovare soluzioni alle istanze della curva, almeno fino al prossimo #iostocon.
Le cose, come sempre, sono più complesse di quello che appaiono.
Ho scelto come titolo La più bella per la bellezza, oserei perfino dire la seduzione, di un testo come quello della nostra Carta, che ha riunito in sé la quintessenza delle anime che uscivano dall’esperienza della guerra e che avevano davanti un Paese tutto da ricostruire.
E pluribus unum. Da una polifonia di suoni, un’armonia d’orchestra. L’anima cattolica, insieme a quella marxista e liberale, le tre principali dell’Assemblea Costituente eletta nel 1946, riuscirono nell’impresa di fare ciascuna un passo indietro, senza per questo mai apparire laterali.
Sotto questo punto di vista mi piace ricordare un passaggio del «Discorso alla città» che monsignor Mario Delpini, arcivescovo di Milano, ha tenuto il 6 dicembre 2018 nella basilica di Sant’Ambrogio.
«La Carta costituzionale, in quella prima parte dove formula princìpi e valori fondamentali, non può essere ridotta a un documento da commemorare, né a un evento tanto ideale quanto irripetibile, ma deve continuare a svolgere il compito di riconoscere e garantire “i diritti inviolabili dell’uomo” […]. Queste acquisizioni irrinunciabili sono frutto – come è doveroso ricordare – di tenace dialogo e confronto fra tradizioni di pensiero diverse e tuttavia appassionate del primato del bene comune […]. Il testo della Costituzione ci ricorda innanzitutto un metodo di lavoro, che vale anche per noi: le differenze si siedono allo stesso tavolo per costruire insieme il proprio futuro.»
La più bella è dunque la nostra Costituzione. Ma potrebbe anche essere l’Italia, almeno quell’Italia che la Carta aveva disegnato. La più bella ci ripetono da settant’anni a scuola, nelle cerimonie di Stato, nei dibattiti televisivi. Ed è così. Tuttavia non ci raccontano mai quanto quegli articoli, pur nella...




