Larsson | La saggezza del mare | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 240 Seiten

Larsson La saggezza del mare


1. Auflage 2012
ISBN: 978-88-7091-330-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 240 Seiten

ISBN: 978-88-7091-330-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



L'angoscia di una traversata con vento forza 8, con la barca che precipita nell'incavo delle onde fino a non vedere più il sole basso sull'orizzonte; il sollievo e la gioia dell'arrivo in porto, festeggiato con un buon bicchiere di whisky o con la prima baguette del fornaio appena aperto; l'emozione dell'alba, quando il bozzolo scuro della notte si dissolve all'arrivo della prima luce del giorno; la magia di una baia solitaria dove gli unici esseri viventi sono le foche che giocano attorno alla barca e i gabbiani che riempiono il cielo dei loro gridi acuti.

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Del viaggiare

Era l’inizio dell’autunno, a Kinsale, sulla costa meridionale dell’Irlanda. Io e il Rustica ci eravamo fermati a svernare dopo tre mesi di navigazione in acque celtiche, da Loch Skipport sull’isola di South Uist a nord fino a Baltimore a sud. Era stato un periodo indimenticabile, uno di quelli che si possono richiamare alla memoria nel minimo dettaglio fino alla fine dei propri giorni.

Helle, la mia compagna di vita e di navigazione, era tornata in Danimarca per qualche mese, per lavorare e rimpinguare le casse di bordo. Questa circostanza aveva suscitato non solo la meraviglia ma anche l’ammirazione dei numerosi diportisti che avevo incontrato durante la mia navigazione solitaria da Dublino a Kinsale. Più di uno si era mostrato incredulo davanti a una simile fortuna. Uno si era addirittura messo a gridare alla moglie giù in cabina: “L’hai sentita questa? Ha mandato a casa la moglie a lavorare per poter continuare a navigare!”

In attesa del ritorno di Helle era venuto a trovarmi il mio caro amico Torben. Torben non è un marinaio, ma possiede la maggior parte delle altre qualità che rendono un’amicizia come la sua inestimabile. Oltre a essere una delle persone più colte che abbia mai conosciuto.

Tra gli scrittori che stima di più, Samuel Beckett occupa un posto particolare. Conosce le sue opere a menadito e può citarne interi brani a memoria. Ha notato, per esempio, che nel romanzo Molloy a un certo punto si dice che il protagonista “si sedette sulla panchina esattamente come Walter”.

“Solo che questo Walter”, mi ha spiegato Torben, “non appare da nessun’altra parte, se non in quel vuoto sulla panchina.”

È evidente che bisogna avere una conoscenza molto approfondita dell’opera di un autore per arrivare a scoprire i suoi vuoti.

Torben si aspettava molto dal suo viaggio in Irlanda. Sperava di trovare qualche risonanza nascosta nell’opera di Beckett. Perché, benché si fosse autoesiliato, deluso dal suo paese allora bigotto e meschino, Torben era convinto che l’Irlanda avesse lasciato in lui tracce profonde; così profonde che nessuno straniero poteva identificarle immediatamente a una semplice lettura dei testi.

Torben e io facevamo lunghe passeggiate sugli altopiani che circondano Kinsale. Di solito sceglievamo come meta un paesino dove eravamo certi di trovare un pub dove bere una pinta di ale piuttosto annacquata e mangiare un sandwich. Un giorno stavamo andando a Ballinspittle per vedere la famosa Madonna che ha fama di muoversi, quando è nell’umore – o meglio nello spirito – giusto (non è escluso che il primo ad averla vista oscillare fosse un irlandese di ritorno dal pub!). Qualche anno prima quella vivace Madonna con l’argento vivo in corpo aveva indotto decine di migliaia di irlandesi a recarsi in pellegrinaggio in quell’insignificante località infossata nel fondovalle. Ancora oggi ci sono altoparlanti appesi ai lati del suo piedistallo di pietra.

Non lontano da Kinsale, sulla riva meridionale del Bandon, verso ovest, sembra che tutto il paesaggio si sollevi. Dopo una lunga salita si arriva su un altopiano dal quale si domina da un lato il blu intenso dell’Atlantico e dall’altro il verde vivo dei pascoli d’Irlanda a perdita d’occhio.

Torben e io seguivamo dunque il sentiero senza incontrare anima viva, tra i prati e le vacche intente a ruminare. L’unica cosa a cui bisognava fare attenzione era dove mettevamo i piedi, perché il terreno era disseminato di grossi mucchi di sterco di vacca.

All’improvviso Torben si è bloccato a metà di un passo.

“Adesso capisco!” ha esclamato.

“Cosa?”

“Perché c’è così tanta merda di vacca nei libri di Beckett!”

Si era chiesto spesso perché Beckett parlasse in continuazione della consistenza e dell’odore della merda di vacca. Ora aveva la spiegazione. Beckett aveva percorso sentieri come quelli. Aveva respirato la stessa aria che respiravamo noi. Come noi, era rimasto sospeso tra cielo e terra, con una vista incomparabile e un’aria cristallina, ma appestata dall’odore di sterco di vacca fresco.

Torben e io ne abbiamo discusso, e mi sono reso conto che non avremmo mai fatto quella scoperta se non fossimo andati a piedi. Neanche in bicicletta è detto che quelle impressioni avrebbero avuto il tempo di penetrare in noi. In macchina, naturalmente, era escluso. Se è vero che viaggiare consiste nel fare esperienze, e non nel lasciarsi trasportare, il valore del viaggio è inversamente proporzionale alla sua velocità.

Era una sera a Tréguier, la vecchia città vescovile completamente costruita in granito di Bretagna, all’ombra della sua enorme cattedrale. Helle e io eravamo seduti nella cabina del Rustica davanti a una bottiglia di buon vino. Stavamo rievocando i comuni ricordi della traversata da Copenaghen alla Scozia, all’Irlanda, alla Cornovaglia, e ora alla Bretagna, dove ci saremmo fermati per l’inverno. Senza nemmeno aver bisogno di aprire il diario di bordo, eravamo in grado di raccontare ogni giorno di viaggio, di rievocare i colori del mare, la forza del vento, il nostro grado di stanchezza al primo turno del mattino, il peschereccio che abbiamo incrociato in mezzo al Mare del Nord, con un pescatore seduto a fumare la sua pipa al riparo della tuga, come se prendesse il sole sulla panchina di un parco. E ancora la calma dell’isola di Canna, la corrente che ribolliva nello stretto di Corrywreckan, l’inquietudine di quella notte in cui, all’ancora sotto le alte montagne di Rhum, abbiamo iniziato a rollare violentemente sotto marosi sorti all’improvviso da una direzione inaspettata, l’enorme foca che faceva capriole nel porto di Ardglass, le onde corte e scoscese davanti a Cap Fréhel, quando abbiamo incrociato Le Renard, la copia della famosa nave corsara di Surcouf recentemente ricostruita a Saint-Malo… Insomma, ricordavamo tutto con una chiarezza e una nitidezza particolari.

Qualche giorno dopo mi è capitato di osservare una vecchia carta della Bretagna. L’avevo dai tempi in cui avevo fatto un viaggio in bicicletta lungo la sua costa settentrionale. C’era segnato l’itinerario che avevo seguito. Immaginate il mio stupore quando mi sono reso conto che avevo attraversato anche Tréguier, dove ci trovavamo in quel momento. Non ne avevo nessun ricordo, benché Tréguier, con la sua immensa cattedrale, non sia una cittadina qualunque. Cercai di richiamare alla memoria le varie tappe del viaggio in bicicletta, senza ritrovare altro che briciole: una spiaggia, un albergo, un sorriso, un bacio, l’amoreggiare in cima a una scogliera e un cane scheletrico che qualcuno aveva abbandonato al suo destino in un campeggio. Straziante. Il cane si rifiutava di lasciare il campeggio perché era lì che aveva visto il suo padrone per l’ultima volta.

Invece ricordavo con grande precisione la lunga escursione da Dieppe a Fécamp che avevo fatto qualche anno prima, lungo le falesie della Normandia occidentale.

Viaggiare, avevamo stabilito io e Torben, significa fare esperienze. Ma per fare esperienze c’è una sola velocità, quella dell’essere umano, non quella dei mezzi di trasporto. Andare a vela è un modo molto lento di viaggiare, se non lo si fa su quei mostri di velocità a fondo piatto, progettati e costruiti per le regate. Con il Rustica nel migliore dei casi viaggiamo a cinque nodi, equivalenti a nove chilometri all’ora, appena più veloci di una camminata di buon passo. Non c’è quindi da stupirsi che ci vogliano un paio d’anni per fare il giro del mondo, più o meno come se lo si facesse a piedi. Per attraversare il Mare del Nord a vela, da Thyborøn nello Jutland a Fraserburgh sulla costa orientale della Scozia, ci abbiamo messo due giorni, due notti e diciassette ore. Per coprire a piedi la stessa distanza, seicentodieci chilometri, come per esempio da Malmö a Stoccolma, ci sarebbe forse voluta un’altra giornata, a condizione di poter camminare ventiquattr’ore su ventiquattro. In bicicletta sarebbe stato molto più veloce. Un buon dilettante ci avrebbe messo un giorno e mezzo, un professionista una quindicina di ore.

Credo che la maggior parte dei velisti sarà d’accordo con me sul fatto che la vela abbia una capacità tutta particolare di far vivere esperienze e lasciare impressioni forti e durature. Viaggiare a vela vuol dire ricordare. Si ha semplicemente il tempo di ricordare quel che passa sul cammino.

Dall’Irlanda sono tornato a casa in aereo nel giro di due ore. Di quel cosiddetto viaggio non ricordo assolutamente niente. Volare è un trasporto merci, anche quando si tratta di esseri umani. L’unica cosa che si desidera (almeno per quanto mi riguarda) è che finisca il più in fretta possibile. Poco importa che vi servano...



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