Larsson | Bisogno di libertà | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 240 Seiten

Larsson Bisogno di libertà


1. Auflage 2012
ISBN: 978-88-7091-328-6
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 240 Seiten

ISBN: 978-88-7091-328-6
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



'Non si nasce liberi, lo si diventa, e non basta né desiderarlo, né sognarlo, né avere la sensazione di esserlo, per diventarlo realmente: essere liberi è una conquista continua, e precaria, che dura tutta una vita. Ed è la sua vita che Bjorn Larsson sceglie questa volta di raccontarci ad exemplum, il suo apprendistato di quella libertà che è poi il tema di fondo di tutti i suoi romanzi e il filo rosso che unisce i suoi multiformi personaggi, che siano il pirata Long John Silver, MacDuff; Inga o il capitano Marcel. Se già nella 'Saggezza del mare' ci ha rivelato quanto un'esistenza nomade e vagabonda a bordo di una barca, lontana dafle convenzioni e dal superfluo, possa essere un antidoto alla schiavitù della routine e dei condizionamenti, qui Larsson si spinge ancora più in là e più a fondo nella sua riflessione. Dal bambino che non piange la morte del padre, al ragazzo che marina la scuola per seguire un suo percorso di studi, al giovane che preferisce la prigione alla cieca disciplina del servizio militare, allo scrittore combattuto tra il vivere e lo scrivere, attraverso i continui viaggi tra terra e mare, amicizie vere e amori che mettono a repentaglio la sua viscerale indipendenza, ci offre il suo vissuto, non per darci di sé un ritratto ideale, anzi con un'onestà e un rigore che sono già di per sé una lezione di libertà intellettuale, ma per passarci quanto la vita gli ha insegnato sul cammino.

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VITA E MORTE

Nella notte tra il 27 e il 28 agosto 1961 fui svegliato da un grido di disperazione. Avevo sette anni e mezzo e dormivo con mia sorella, più piccola di me di tre anni. Subito dopo quel grido spaventoso, mia madre è entrata in camera nostra. Ci ha detto che nostro padre era sicuramente morto e che bisognava accettare l’idea di non rivederlo mai più. Era annegato, con altri cinque adulti e due ragazzi, in un naufragio. Ha aggiunto che potevamo piangere. Cosa significassero esattamente quelle parole, “potete piangere”, non lo saprò mai. Mia madre le ha sicuramente dimenticate e io non ricordo bene il resto di quella notte. Quel che però ricordo con abbacinante chiarezza, come fosse ieri, è che cercavo di piangere senza riuscirci. E con altrettanta chiarezza ricordo quel che pensavo: che dovevo piangere, era quello che ci si aspettava da me. Dovevo piangere perché dovevo essere triste. E mi sentivo in colpa perché non ero veramente triste. Non per cattiva volontà. Mi si creda sulla parola: ci ho provato, veramente, intensamente provato. Niente da fare. Più cercavo in me qualche motivo che avrebbe potuto – e dovuto – alimentare le mie lacrime, più capivo che non ero triste di sapere che mio padre era morto. Ero, e peso bene le mie parole, come le ho pesate tutta la vita, piuttosto sollevato. E questo mi rendeva, lo capivo bene, diverso. Sapevo perfettamente che non era né naturale né normale che non piangessi. Mia sorella, benché fosse più piccola di me e non capisse bene quel che ci succedeva intorno, con tutta la famiglia di mio padre riunita in salotto disperata, giustamente piangeva. Io, niente. Mi sforzavo di essere triste. E se ero triste, perché poi lo ero, era perché mi rendevo conto che non riuscivo a esserlo come avrei dovuto. Eh sì. Non che fossi insensibile. Al contrario, ero in preda a sentimenti contraddittori che non riuscivo a districare. Ne mancava però uno fondamentale: il dolore e la disperazione di sapere che mio padre non c’era più.

Non ricordo bene il mattino dopo. Avevamo dormito? In ogni caso, andare a scuola era fuori questione. La morte di cinque adulti, tra cui vari padri di famiglia, e due ragazzi era, per una cittadina di tremila abitanti in cui tutti più o meno si conoscevano, una catastrofe, finita del resto in prima pagina anche sui quotidiani nazionali. Ho il vago ricordo di una specie di vuoto, come se il tempo si fosse fermato. Sapevo che stavano scandagliando il lago per trovare i corpi che non erano ancora riaffiorati, tra cui quello di mio padre. Solo, e senza dire niente a mia madre, mi sono avventurato sulla riva del lago da dove partivano le piccole imbarcazioni guidate da gente locale. Non so perché volessi a tutti i costi vedere con i miei occhi. Lì ho incontrato Ville, un caro amico di mio padre, che aveva l’aria distrutta. Mi ha consolato con estrema gentilezza e mi ha riportato a casa. Pensava che fossi andato sul posto per una disperata speranza. Non più degli altri, neppure lui aveva capito chi ero e che cosa mi succedeva, o meglio non mi succedeva, dentro.

Mi sono chiesto tante volte perché non riuscivo a piangere mio padre, perché ero sollevato dalla sua morte. Mia zia, sorella di papà – quella che mi aveva svegliato col suo grido di assoluta disperazione – gli voleva un gran bene. Ed è una persona fondamentalmente buona e che stimo molto. Non doveva quindi essere così cattivo da non meritare di essere pianto, soprattutto da suo figlio. Certo i padri di quei tempi non erano molto presenti nella vita dei figli, né fisicamente vicini. Le carezze paterne erano rare. Ma non è una ragione sufficiente. Tutti i bambini erano nella stessa situazione. C’era dell’altro. La Svezia, come la Russia, la Finlandia, la Norvegia, la Scozia e qualche altra nazione, appartenevano – e più o meno appartengono – a quei paesi in cui l’alcol scorre a fiumi. Da noi, a quei tempi, bere non era bere, era sbronzarsi una volta alla settimana, spesso con conseguenze disastrose, perché l’acquavite, a differenza, in realtà relativa, del vino e della birra, non perdona. Avevo dunque assistito a scenate familiari, a litigi, a volte per via dell’alcol già bevuto, altre per l’alcol che mia madre voleva impedire a mio padre di bere. Se ricordo bene, erano litigi violenti, anche se senza violenza fisica e sicuramente non così frequenti. Ma ogni volta che scoppiava una lite, io uscivo, andavo per i campi o in riva al lago, aspettando, sperando, che finisse. E anche in questo ho il vago ricordo di essermi sentito in colpa. Avevo la confusa sensazione che avrei dovuto restare, intervenire, prendere le parti, di mia madre ovviamente, che aveva perfettamente ragione di opporsi al bisogno di alcol di mio padre, tanto più che non avevamo molti soldi. Ed è questo, credo, la mancanza di soldi che è stata l’origine, se non addirittura la causa, dell’irrimediabile frattura che si è creata tra me e mio padre da quando avevo cinque anni. Anche questo lo ricordo con una precisione spaventosa.

Era un venerdì e mio padre voleva dei soldi per comprarsi la consueta bottiglia d’acquavite per il sabato sera. Non so se mia madre si fosse rifiutata di darglieli o se non ce n’erano più in casa. Fatto sta che mio padre ha preso un martello e ha rotto il mio salvadanaio per comprarsi la sua bottiglia. Ma senza chiedermi il permesso, senza neanche guardarmi, senza mai domandarmi scusa!

Sono quasi sicuro che è stato quel giorno che ho perso la fiducia in mio padre e preso le mie distanze affettive. Perché questo lo sapevo fare: andarmene, nascondermi, chiudermi in me stesso per proteggermi. Un freudiano vi riconoscerebbe senza dubbio un comportamento esemplare. Ma in realtà andava oltre, perché io non ne soffrivo realmente. Anzi aveva un effetto liberatorio. Non volevo soffrire a causa della stupidità o della cattiveria degli altri. Ero pronto ad assumermi le conseguenze delle mie azioni, ma non di quelle degli altri, fossero pure i miei genitori.

Tuttavia, né il tradimento di mio padre per il salvadanaio, né i litigi, né altri motivi di contrasto bastano a spiegare perché non ero veramente triste quando mio padre è morto. Altri padri bevevano e si comportavano in modo ancora più imperdonabile verso moglie e figli. Altri hanno vissuto l’inferno senza reagire come me. Al contrario, tutti gli psicologi affermano la stessa cosa: i bambini restano comunque solidali con i genitori, anche se questi li trascurano o li maltrattano, anche se subiscono gli alea dell’alcolismo e dell’abuso di droghe. Io no. Io, appunto, rifiutavo di subire. Perché? Non lo so e non cercherò di spiegarlo, perché non ci riuscirei.

Qualche giorno dopo il funerale – durante il quale io e mia sorella siamo rimasti con una zia fuori dalla chiesa, probabilmente per una mal riposta compassione – sono tornato a scuola. Il giorno dopo, credo, avevo un tale bisogno di parlare con qualcuno di quel che avevo provato, o non provato, che mi sono confidato con il mio migliore amico, un compagno di classe. Non ricordo esattamente quel che gli ho detto, ma gli ho confessato di sentirmi più sollevato che triste per la morte di mio padre.

Lo stesso giorno, lo stesso pomeriggio ero a casa della nonna, quando mia madre è arrivata piangendo. Mi ha chiesto se avevo davvero detto che ero sollevato per la morte di mio padre, se avevo davvero dichiarato qualcosa del genere, ovvero una simile mostruosità.

Ovviamente ho negato. Che altro potevo fare? No, non l’avevo mai detto. Mia madre mi ha creduto, senza dubbio perché non credermi sarebbe stato insopportabile. Anche questo avevo capito all’istante: non potevo dire la verità per non ferire la mamma e la nonna, madre di mio padre.

Non ho mai provato rancore verso il mio amico e compagno di classe, che probabilmente aveva trovato così strano quel che avevo detto, da doverlo raccontare subito a sua madre o a un altro adulto. Quel che non potevo perdonare, e che non ho mai perdonato neanche in seguito, è che degli adulti avessero fatto circolare tra loro la voce che il figlio non rimpiangeva suo padre e soprattutto che un adulto avesse fatto in modo che la voce arrivasse alle orecchie di mia madre. Non ho mai potuto venire a patti con una tale stupida cattiveria, o stupidità cattiva. Dopotutto avevo solo sette anni e mezzo!

Da quel giorno, da quel pomeriggio a casa della nonna, la mia vita è cambiata per sempre. Cosa ne ho tratto? Ho imparato a non dare mai fiducia a nessuno e a non giudicare nessuno prima di conoscerlo, a non fidarmi delle apparenze,...



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