Jones | Il treno notturno | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 644 Seiten

Jones Il treno notturno


1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-3389-259-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 644 Seiten

ISBN: 978-88-3389-259-7
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A pochi anni dalla sua scomparsa, Thom Jones torna in libreria con un'antologia nella quale, accanto ai migliori racconti delle sue tre raccolte (Il pugile a riposo, Sonny Liston era mio amico e Ondata di freddo), vengono proposti sette inediti assoluti che rappresentano forse il vertice della sua arte. Una galleria di personaggi ora adorabili, ora sgradevoli, ma comunque difficili da dimenticare, ci scorre davanti: reduci del Vietnam, pugili dilettanti, medici devoti al loro mestiere, sfaccendati e truffatori, copywriter, aspiranti presidi, ubriaconi e ipocondriaci, sognatori, anziani e adolescenti che si scontrano con le durezze e le stramberie della vita. Con visioni spietate che ricordano i terrificanti ritratti di Francis Bacon, Jones ci trascina dentro un mondo unico, sospeso tra l'abiezione e la trascendenza, le tenebre e la luce, e dosando perfettamente umorismo e pathos ci racconta la rabbiosa resistenza di chi, anche di fronte al peggio, non rinuncia mai al proprio sogno di riscatto.

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Il pugile a riposo


Ehi Baby fu beccato che scriveva una lettera alla sua ragazza mentre avrebbe dovuto prendere appunti sulle specifiche del fucile M-14. Eravamo seduti nel caldo soffocante di una capanna di lamiera durante le prime settimane del campo di addestramento, nell’agosto del 1966, al Centro reclute dei marine a San Diego. Il sergente Wright strappò la lettera dalle mani di Ehi Baby e quella stessa sera, nell’angolo della sua baracca dove si tenevano le riunioni, lesse la lettera alle reclute del plotone 263 con la voce carica di sarcasmo. «», cominciò, e a mano a mano che proseguiva nella lettura della lettera si fece montare sempre più l’indignazione e il disgusto. Era una lettera a , disse alla fine, mentre quello che importava davvero, l’argomento in discussione, la questione della massima rilevanza, non era e le sue mutandine bollenti, ma piuttosto la velocità alla bocca dell’M-14.

A Ehi Baby la lettera costò cento flessioni sul pavimento di cemento della stanza, ma il vero premio che si aggiudicò quella sera fu che divenne noto per l’eternità fra le reclute del plotone 263 come Ehi Baby – oltre a essere un coglionazzo, un frocio, una merdaccia, un verme, e altri simili appellativi standard. Come se non bastasse, poco dopo quest’episodio Ehi Baby ricevette il benservito dalla sua ragazza di Chicago, della quale io, il sergente Wright e settantotto altri marine appena arruolati avevamo avuto modo di farci un’idea.

Ehi Baby non rimase a lungo nei marine. Il motivo fu che cominciò a prendersela con il mio compagno, Jorgeson. Jorgeson era il mio migliore amico ed Ehi Baby iniziò a chiamarlo Jorgettina, a dargli il tormento e a comandarlo a bacchetta. Aveva preso di mira Jorgeson perché ogni volta che ci insegnavano qualche manovra o tattica di combattimento Jorgeson diceva sottovoce: «Ma rischi di , se provi a fare una cosa del genere», o «Se fai una cosa del genere ti giochi il culo». Jorgeson dava l’impressione di non pensare che amare la bandiera americana e difendere gli ideali democratici nel Sudest asiatico fosse poi così importante. Mi disse che quello che voleva davvero fare era prendersi un loft da artista a New York, nella zona di SoHo, portare in testa un berretto, mangiare baguette mezze rancide ripiene di salsiccia di fegato, bere Tocai, fumare erba, dipingere quadri e ascoltare le canzoni tristi e lamentose della cantante francese Edith Piaf, altrimenti detta «Passerotto».

Dopo la prima mezz’ora di campo di addestramento anche la maggior parte delle altre reclute voleva tornarsene a casa, ma loro nutrivano sogni di tavole da surf, Chevrolet Corvette e belle biondone. Jorgeson voleva essere un beat e andarsene in giro con Jack Kerouac e Neal Cassady, tracannare bicchierini di whisky ambrato bruciabudella e ascoltare Charles Mingus che suonava cool jazz sul suo contrabbasso. Voleva praticare il buddismo zen, consultare l’I-Ching, mangiare cuscus e studiare tavole astrologiche. Tutto questo per me era territorio straniero. Ero cresciuto ad Aurora, nell’Illinois, e non avevo mai sentito parlare di queste cose. Jorgeson aveva la lingua affilata e faceva commenti così sprezzanti che non sapevo bene quanto dovevo prendere sul serio quei discorsi, ma il suo senso dell’umorismo mi piaceva ed ero convinto che avesse la sensibilità dell’artista. La sua non era una vaga aspirazione. Ero davvero convinto che sarebbe potuto diventare un pittore di quadri. In quel momento lui non ci stava mettendo l’anima, nello sforzo di diventare un marine. Non ci credeva davvero, a differenza di me.

Qualche settimana dopo che Ehi Baby cominciò a dare fastidio a Jorgeson, il sergente Wright ci fece il suo discorso migliore: «Voi state per andare in guerra, e non sarà un bello spettacolo...», eccetera eccetera, «e se i musi gialli buttano giù uno dei vostri compagni, un altro marine, voi rischierete la vita e andrete a riprenderlo e lo tirerete fuori dai guai. E non perché ve l’ho detto io. No! Andrete a salvare quel marine perché siete marine, siete membri del miglior corpo combattente del mondo, e quell’uomo ferito è un marine, ed è vostro . È vostro fratello! Una volta nei marine, siete marine , e non tradirete mai un altro marine». Eccetera eccetera. «Si può togliere un marine dall’esercito ma non si può togliere l’esercito da un marine». Eccetera eccetera. All’epoca mi sembrò un gran bel discorso e mi toccò profondamente. Il sergente Wright non era una mammoletta. Era un tipo quadrato, ed era bravissimo a dare il tempo per la marcia. Cazzo, quando ripenso a come dava la cadenza mi viene un nodo alla gola. A parte Jorgeson, credo che tutte le reclute del plotone 263 fossero fiere del sergente Wright. Aveva le palle, era un marine vero. Uno in gamba.

Durante l’addestramento molte reclute lasciarono il plotone originario. Alcuni non riuscirono a passare le prove di abilità fisica e furono mandati a un campo speciale per le femminucce. Questo era un difetto particolarmente vergognoso, la cosa più umiliante dopo il pisciare a letto. Altri prendevano la polmonite o un mal di gola acuto, o gli si infettavano le vesciche ai piedi o roba del genere, e così perdevano tempo. Altri venivano scartati al poligono di tiro. Uno si rompeva una gamba, a un altro veniva l’esaurimento nervoso (e anche questo era deplorevole). C’era gente che mollava a destra e a manca. Quando una recluta correggeva i propri difetti, quali che fossero, o quando si ristabiliva, veniva inserita in un altro plotone che era nella fase dell’addestramento di base in cui si trovava lui quando l’aveva interrotto. Il plotone 263 raccoglieva decine di reclute in questo modo. Se tutto andava liscio, comunque, te la cavavi in dodici settimane. Non è tantissimo, ma sembrava tantissimo. Per tutto quel tempo non vedevi una donna. Non vedevi un giornale o un televisore. Non mangiavi un dolcetto. E un’altra rogna era il fatto che avevi sempre qualcuno sopra di te che teneva d’occhio ogni mossa che facevi. Per fare «cacca, doccia e barba» avevi solo dieci minuti, e prima di completare tutta la faccenda dovevi pure vedertela con le file e così via. Al bagno ci facevano andare così di rado che un sacco di tempo che sarebbe stato altrimenti tranquillo e indolore lo passavo con le lacrime agli occhi per l’angoscia che prima o poi mi sarei pisciato nei pantaloni. All’ora del rancio a mangiare, e ci trovavamo di fronte enormi sfiatatoi che sputavano fuori un puzzo nauseante di grasso rancido e surriscaldato. Eppure entravamo nella mensa con una fame da lupi, divoravamo giganteschi vassoi di cibo in pochi minuti e tornavamo in formazione compatta alla zona della nostra compagnia, cercando di ricacciare giù la bile bollente di un pasto troppo abbondante per essere consumato così in fretta. Guai se uno perdeva il controllo e vomitava.

Se nelle ore precedenti era andato tutto bene il sergente Wright ci permetteva di fumare una sigaretta dopo ogni pasto. Seguendo il saggio esempio di Jorgeson ero passato dalle Camel alle Pall Mall: erano molto più lunghe, ti davano una bella botta; e quando aprivamo il nostro Zippo con la cromatura lucida, le accendevamo e facevamo i primi tiri, condividevamo il piacere sublime che può dare il tabacco se usato raramente e con giudizio. Quelli erano sempre i momenti migliori della giornata, brevi attimi di sollievo dalla repressione tirannica dell’addestramento. Quando ormai ci avvicinavamo alla fine del corso Jorgeson prese gusto a fare un giochetto. Mi diceva (con riccioli di fragrante fumo azzurro che gli uscivano dalle narici): «Se uno ti dicesse: “Ti do diecimila dollari per rifare tutto questo daccapo”, tu che gli diresti?» «Manco morto!» E lui continuava ad alzare la posta fino a farmi offrire da John Beresford Tipton, quello che presentava , un assegno da un milione di dollari. «Per nessuna cifra al mondo», dicevo io.

Mentre sopportavano in silenzio pressioni di ogni tipo, le reclute stavano anche diventando «belle toste»: cominciavano a crederci. Cominciavano a considerarsi dei marine. Se uno superava tutto questo, si dicevano, non avrebbe ceduto in combattimento. Perciò mi ricordo che avevo le lacrime agli occhi quando il sergente Wright ci fece la sua tirata sul fatto che un marine avrebbe sfidato un nido di mitragliatrici per salvare un compagno, si sarebbe tuffato su una granata, avrebbe fatto qualunque cosa... eppure mi vergognai quando Jorgeson mi beccò che me le asciugavo. Tutte le reclute avevano gli occhi lucidi tranne Jorgeson. I suoi occhi erano di un blu cobalto chiarissimo. Erano così fuori dal comune che da quegli occhi lo riconoscevi in mezzo a una folla. Avevano una bellezza insolita e un potere straordinario. A parte un viso abbastanza carino, Jorgeson era piccolo di statura e sarebbe passato inosservato, se non fosse stato per quegli occhi. Ad ogni modo, quando mi beccò a commuovermi mi lanciò un’occhiata che mi penetrò fino al midollo. Era lo sguardo glaciale del più assoluto disprezzo, e mi fece dubitare di me stesso. Dissi: «E dai! Com’è possibile che non te ne frega niente? Perdio!»

«Non sono come te», disse. «Ma me ne frega eccome, più di quanto potresti mai immaginare. Non te l’ho mai detto prima, ma io sono Kal-El, nato sul pianeta Krypton e spedito sulla Terra a bordo di un missile quando ero ancora un neonato, un attimo prima che il mio mondo esplodesse. Nascosto sotto le spoglie di un marine dai modi gentili ho deciso di usare miei...



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