E-Book, Italienisch, 240 Seiten
Reihe: Amazzoni
Jatta L'apolide
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-6243-583-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 240 Seiten
Reihe: Amazzoni
ISBN: 978-88-6243-583-3
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
È nata a Roma nel 1960. Laureata alla Sapienza in Storia dell'Europa orientale, e alla Sorbonne in Letteratura francese, ha vissuto all'estero per diversi anni lavorando come traduttrice,interprete, giornalista e organizzatrice di eventi. Ha due figli, vive attualmente a Roma. Foglie sparse è il suo primo romanzo.
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I
La luce dell’alba è fioca a febbraio, l’aria è gonfia d’acqua gelata, odora di sale, di alghe bagnate. I marinai si affrettano sui ponti della nave ancorata in rada maledicendo la tempesta di neve: ha lasciato ovunque uno strato di ghiaccio sottile che, oltre a entrargli nelle ossa, impedisce loro di compiere anche i gesti più semplici. Olga Pavlovna Olsufieva li intravede nella semioscurità agitarsi da prua a poppa come formiche, scivolare, rialzarsi, lanciare e tirare gomene spesse come i suoi polsi. Li sente imprecare in inglese dalla banchina del porticciolo georgiano sul Mar Nero dove quella mattina attende, con il resto della famiglia, di salire a bordo del cacciatorpediniere Druid. Poi sposta lo sguardo sulla scialuppa: si muove a fatica verso di loro tra la nebbia e i blocchi di ghiaccio che galleggiano tra le onde, come cadaveri.
– Alea iacta est, ancora pochi minuti e il dado sarà tratto – sussurra girandosi verso il marito. Le sta accanto tenendo in braccio l’ultimogenito addormentato, Aleksej, Alëša, cinque anni da qualche mese.
– Dove hai messo i passaporti? – gli chiede poi inquieta.
– Ce li hai tu, nella cintura – risponde lui accennando un sorriso stanco.
– Me li hai dati tutti, vero?
– Certo, stai tranquilla.
Olga fa un gesto nervoso con la mano per rimettere in ordine una ciocca di capelli, sfuggita dal cappello di pelliccia consunto. Ha guance rosse come le bandiere che i comunisti sventolano in quei giorni per le strade dell’impero russo allo sbando; occhi gonfi, piccoli e nerissimi che a un tratto si riempiono di lacrime.
Abbassa lo sguardo sulle figlie, per controllare che nessuna manchi all’appello: le njanje, le fedelissime bambinaie, ne tengono per mano due a testa. Keta stringe quelle di Assia di dodici anni e Mašik di undici, mentre Alina si occupa di Daria e Olly, di nove e sei anni.
Ci sono tutte.
Ogni cosa la turba ormai, ma a spaventarla di più è l’idea di perdere, nella fuga, pezzi di famiglia, quasi fossero tasselli di un puzzle, il nuovo gioco dei bambini, che passano ore a ricomporre immagini scomposte in tante minuscole tessere di legno a incastro. Basta che ne manchi una per rovinare tutto.
Il suo incubo ricorrente.
Per un attimo, il ricordo della maggiore che scappa giù dal carro l’attraversa, violento come una coltellata. Aveva cercato di trattenerla, ma lei le era sgusciata tra le mani come un’anguilla e poi si era messa a correre all’impazzata per l’immensa steppa caucasica, mentre i proiettili le fischiavano sopra alla testa lasciando piccole nuvolette di fumo nell’aria. Fuggiva piangendo per i campi ricoperti di azalee selvatiche color rosso fuoco, tenendo stretta al collo la sua bambola di porcellana, appena decapitata da un’improvvisa reazione dei cavalli ai bombardamenti.
Da allora Olga non riesce a smettere di seguire i figli con gli occhi, cercarli, volerli sempre accanto.
Tutti e cinque.
Pallida e magra, Assia nel frattempo ha lasciato la stretta di njanja Keta e le si è avvicinata. Se ne sta accanto a lei, in piedi come tutti, e intirizzita osserva il mare con occhi verdi spaventati.
– Ci stanno venendo a prendere? – chiede, la voce gonfia di speranza.
– Sì, piccola mia, manca poco ormai.
Olga sospira, poi rivolge lo sguardo di nuovo verso le altre figlie. Per una volta sono tranquille e mute: il freddo, la paura e la sveglia notturna hanno avuto la meglio sulla loro esuberanza. Mai come in quel momento avverte la sensazione di essere una chioccia con i propri pulcini intorno, pronta a proteggerli da ogni insidia.
Il rumore dei remi della scialuppa è costante, quattro marinai li alzano e abbassano ritmicamente tuffandoli nell’acqua. Dopo qualche secondo riprende ansiosa a scrutare il mare di fronte a sé, osservando i primi raggi di sole sorgere all’orizzonte, guarda di nuovo la nave da guerra nella baia, la scorge a intermittenza tra le onde, quasi fosse un miraggio. Invece è tutto vero, la marina britannica ha ascoltato la loro richiesta di aiuto ed è pronta a imbarcarli. Lei però non riesce a gioirne, ancora non crede possibile che stiano per salvarsi.
In tanti hanno provato.
In pochissimi sono riusciti.
Un sorriso, più simile a una smorfia, le spunta sulle labbra. Poi, il panico la sovrasta, l’esitazione monta, il dubbio l’assale, provocandole un dolore sordo al centro del petto.
Tornerà mai in patria?
Inspira a fondo l’aria impregnata di ghiaccio sperando di calmarsi. Ma niente. Il fiato le manca mentre la fitta rimane lì, a ricordarle che si trova a un passo dal punto di non ritorno.
Trema, non riesce a impedirselo.
In quel momento c’è un solo posto in cui trovarsi, quello, eppure, una forza potente la spinge ad allontanarsene. Perché?
Dopo qualche secondo riprende a respirare con regolarità.
Ha capito.
È lì che finisce la partita.
Ripercorre gli avvenimenti degli ultimi mesi stringendosi nel logoro cappotto di montone per proteggersi dal vento che s’insinua dentro di lei infilandosi subdolo tra le pieghe delle vesti impolverate, rotola gelido nella biancheria lisa, le scivola sino ai piedi superando l’ostacolo delle calze di lana rattoppate, per arrivare fino ai geloni che la tormentano da tempo.
Lei, in passato sempre così elegante, le mise parigine all’ultimo grido, il corsetto ben stretto sul busto per metterle in risalto il vitino di vespa, non è più impeccabile come un tempo.
D’altronde, cos’è più come un tempo?
I disordini scoppiati durante la guerra hanno provocato morte, distruzione e terrore nello sconfinato paese. Molti, lei compresa, in un primo momento avevano sperato che le cose si aggiustassero nel giro di poche settimane e si erano allontanati dalle città in attesa della vittoria dei bianchi, le truppe volontarie dello zar, e del ritorno al vecchio regime, così com’era già successo dopo l’insurrezione del 1905.
Invece, nella primavera del 1917 la monarchia era stata rovesciata e la Russia sconvolta dai conflitti tra i partiti politici e dalla crescente disgregazione militare ed economica, fino a quando, la notte tra il 24 e il 25 ottobre di quello stesso terribile anno, i bolscevichi, guidati da Lenin e Trockij, avevano intrapreso un’azione armata contro il governo provvisorio di Kerenskij per assumere tutto il potere in nome dei Soviet.
Nel frattempo, i soldati rientrati dalla guerra che divampava in tutta Europa e i contadini affamati, a cui era stata promessa la terra dei padroni, si erano uniti ai lavoratori nelle fabbriche delle città e non era stato più possibile arginare la valanga che si era abbattuta sulla vecchia classe dirigente. Per milioni di abitanti, compresi gli Olsufiev, l’unica soluzione era stata la fuga.
Il pensiero di Olga va ai membri della famiglia imperiale. Lo zar non era riuscito a fuggire, nessuno era stato risparmiato, neppure le quattro giovani figlie, né tantomeno l’unico maschio, l’ultimo, lo zarevic, l’erede al trono che portava lo stesso nome di suo figlio: Aleksej.
Lo zar Nicola II e i suoi figli seduti sul tetto di una serra durante il loro esilio a Tobol’sk (dal settembre 1917 all’aprile 1918).
Passano i minuti, il desiderio di accendersi una sigaretta è fortissimo, ma si trattiene. Alle signore non è consentito fumare per strada, figuriamoci sulla banchina di un porto. E poi, ha bisogno di avere le mani libere per afferrare tutto ciò che ora giace accanto a loro e dovranno portare a bordo. Ogni bagaglio è di vitale importanza per lei; alcuni contengono biancheria, abiti caldi che serviranno durante il viaggio e i piccoli oggetti di cui ogni figlio non può fare a meno: bambole, quaderni da disegno, spartiti musicali, medicine. Un altro lettere, cartoline, fotografie, telegrammi. L’ultimo titoli, contratti di affitto, atti di proprietà, buoni del tesoro: tutti documenti ormai privi di valore ma da cui non riesce a separarsi.
Niente scarpe nei bauli: quei pezzi di tappeto che indossano, cuciti alla meglio a misere suole di cartone, sono le uniche calzature che possiedono. Lo stesso per i soprabiti: uno a testa è tutto ciò che gli rimane.
Anche i gioielli e l’argenteria, che era riuscita a portare con sé fuggendo da Mosca, sono spariti da tempo: alcuni confiscati dai bolscevichi, altri venduti per pochi spiccioli via via che ne avevano avuto bisogno o se ne era presentata l’occasione; gli ultimi erano serviti a pagare il soggiorno nella locanda di fronte al mare dove si erano nascosti nei quattro mesi appena trascorsi.
Non hanno più un soldo.
Hanno perso tutto, compresi i diamanti che era riuscita a salvare dalle tante requisizioni subite in quei due anni di fuga. Li avevano murati sotto una finestra, nella dacia del paesino di Kislovodsk, arroccato tra le montagne del Caucaso, dove si erano rifugiati all’inizio dell’insurrezione e non aveva avuto il tempo di recuperali quando erano dovuti partire, all’improvviso, sotto le bombe nemiche. All’ultimo momento, aveva deciso di tenere con sé la lunga collana di perle regalo del padre in occasione delle nozze, ma i brillanti erano ormai perduti. Un giorno, forse, sarebbe tornata a riprenderli e chissà se li avrebbe ritrovati.
Ora ha cose più importanti a cui pensare.
Sta lasciando la sua patria colpita da una follia collettiva che, per quanto si sforzi, non riesce ad accettare. Una patria, la Russia, che quelli come lei non li vuole più: li caccia, li umilia, li disprezza, li uccide. Da quella maledetta notte di fine ottobre del 1917 ogni cosa è cambiata per sempre, la rivoluzione ha...




