E-Book, Italienisch, 661 Seiten
Reihe: Indi
Jaffe Il lavoro non ti ama
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-3389-384-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
O di come la devozione per il nostro lavoro ci rende esausti, sfruttati e soli
E-Book, Italienisch, 661 Seiten
Reihe: Indi
ISBN: 978-88-3389-384-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
è una giornalista indipendente che si occupa dei meccanismi del potere, dal posto di lavoro alle strade. I suoi pezzi sono apparsi su The New York Times, The Nation, The Guardian, Washington Post, The New Republic, The Atlantic e altri. Editorialista del The Progressive and New Labour Forum, conduce il podcast Belabored della rivista Dissent.
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BENVENUTI NELLA SETTIMANA LAVORATIVA
INTRODUZIONE
Amo il mio lavoro.
Tecnicamente, non ho un lavoro fisso. È così da qualche anno, dall’ultimo contratto full-time di un anno che mi aveva fatto una rivista. Da allora mi guadagno da vivere come giornalista freelance, con alterne fortune. Viaggio, butto giù articoli, a volte mi chiamano per parlare, e soprattutto scrivo. Incontro gente interessante e ho la possibilità di raccontare le loro storie e, per il momento, riesco a camparci.
C’è anche da dire che guadagno più o meno quindicimila dollari all’anno in meno rispetto a una donna della mia età e con il mio livello di istruzione.1
Sono la testimonial perfetta del lavoro nell’attuale sistema economico. Sono flessibile, sempre pronta a lavorare con il portatile in qualsiasi bar degli Stati Uniti o, se capita, in giro per il mondo. Non ho un datore di lavoro che mi paga l’assicurazione sanitaria, per non parlare dei contributi o di ferie, queste sconosciute. Non ho alcun distintivo della vita adulta da sfoggiare: nessuna famiglia, niente casa di proprietà; siamo solo io e il mio cane. (In compenso però non ho neanche un capo.)
Ma questo libro non parla di me. Parla dei milioni di persone in tutto il mondo che condividono alcune se non la maggior parte delle mie condizioni di lavoro, anche quando riescono a rimediare il caro vecchio full-time di una volta. Tante prerogative di quello che la gente chiamava «posto fisso» ormai sono un ricordo, si sono volatilizzate: come migliaia di articoli e di libri non smettono di raccontarci, siamo tutti esausti, in burnout, sommersi di lavoro, sottopagati, e impossibilitati a conciliare il lavoro con la vita privata (ammesso che una vita privata ce l’abbiamo).
Allo stesso tempo ci viene ripetuto che è proprio per il lavoro che passano la nostra realizzazione, le nostre soddisfazioni, il nostro orizzonte di senso, la nostra stessa felicità. Dovremmo lavorare per il piacere di lavorare, invece di lamentarci del fatto che grazie a noi altre persone si stanno arricchendo mentre ci facciamo in quattro per pagare l’affitto e a malapena riusciamo a vedere gli amici.
Come molte invenzioni del tardo capitalismo, il monito «fai quello che ami e non lavorerai un giorno in vita tua», che imperversa in migliaia di post ispirazionali sui social media, ha assunto l’autorità della saggezza popolare e una validità retroattiva (immagino che i nostri antenati andare a caccia di mammuth). Alla faccia di «neanche un giorno», la realtà è che non abbiamo mai lavorato tanto come adesso. Attanagliati da stress, ansia e solitudine, ciò che ci viene richiesto è una disponibilità praticamente illimitata e senza orari. La storia del lavoro fatto per amore è, in parole povere, una truffa.2
Ed è anche una truffa piuttosto recente. Un tempo si presumeva che – per usare un eufemismo – lavorare era una merda e se fosse stato umanamente possibile la gente se lo sarebbe volentieri evitato. Dai tempi del sistema feudale fino a trenta-quaranta anni fa, la classe dominante tendeva a campare di rendita. Nell’antica Grecia schiavi e – lavoratori manuali, artigiani specializzati e mercanti – facevano tutto il lavoro affinché la classe agiata potesse godersi il tempo libero e partecipare alla vita della pòlis. Se avete letto un romanzo di Jane Austen chiedendovi come facesse quella gente a vivere dal momento che a quanto pare non faceva niente (a parte arrovellarsi su chi sposare), la risposta è che il lavoro, secondo i ricchi, era roba riservata ad altri.3
La svolta si è verificata a partire dagli anni Settanta e Ottanta. I padroni adesso lavoravano e, anzi, si vantavano di non fare altro dalla mattina alla sera. Il vero cambiamento però non era avvenuto nelle vite dei milionari ma nelle nostre, quando ci hanno convinto che il lavoro in sé fosse qualcosa da amare. Crederci è fondamentale, perché se ci ricordassimo qual era lo scopo originario del lavoro – pagare le bollette – potremmo iniziare a chiederci perché lavoriamo così tanto per così poco.4
La questione se il lavoro dovesse essere o meno un’attività piacevole è stata a lungo materia di speculazione. Nell’Ottocento, l’artista e scrittore socialista William Morris sosteneva che valesse la pena lavorare in virtù di tre speranze: «la speranza del riposo, la speranza nel prodotto, la speranza del piacere del lavoro in sé». Morris riconosceva che il piacere di lavorare potesse risultare estraneo ai suoi lettori, ma sosteneva che le disuguaglianze generate dal capitalismo facevano sì che alcuni vivessero a spese di altri, i quali erano quindi condannati a una «fatica inutile». L’industria moderna aveva sottratto anche quel minimo di indipendenza e potere che gli artigiani avevano in passato, riducendoli a salariati intercambiabili e robotizzati. A nessuno importava che al proletariato piacesse il proprio lavoro: tanto non aveva scelta.5
Ma anche quei proletari facevano di tutto per affrancarsi dal lavoro. Originariamente le rivendicazioni dei movimenti operai erano volte a le ore di lavoro: prima dodici, poi undici, dieci, otto, fino alla conquista del giorno libero. Lo sciopero, la loro migliore arma, è dopotutto un rifiuto del lavoro, e per un certo periodo è stato usato con efficacia per riportare alcune vittorie sul fronte delle ore di lavoro e dei salari. La risposta dei capitalisti fu elargire qualche concessione per mantenere l’afflusso dei profitti, mettendo a punto allo stesso tempo nuove strategie – al di là dell’uso della forza – per tenere in riga i lavoratori.6
Il contentino che alla fine fu concesso alla classe operaia passa sotto il nome di compromesso fordista, da Henry Ford e la sua Ford Motor Company. I lavoratori avrebbero accordato al padrone una larga ma comunque sostenibile parte del proprio tempo – di norma otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana – in cambio di un salario decente, dell’assistenza sanitaria (negli Stati Uniti fornita dall’azienda, in altri paesi dallo Stato) ed eventualmente di ferie pagate e di una pensione. Era la «speranza del riposo» di cui parlava Morris (e, se non la speranza di un pieno controllo sul prodotto del proprio lavoro, almeno la prospettiva di una paga adeguata) a dare agli operai la possibilità di mantenere se stessi e magari una famiglia e godersi il tempo libero lontano dalla catena di montaggio.7
Tutto ciò è difficile da immaginare adesso che ci ritagliamo del tempo per leggere un libro tra le mail di lavoro o nell’attesa snervante che ci chiamino per offrirci qualcosa, ma non è il caso di romanticizzare i bei tempi andati: parliamo di lavori insieme noiosi e sfibranti che spesso lasciavano i lavoratori troppo stanchi per godersi il meritato tempo libero. Eppure, dalla fine della Grande Depressione agli anni Sessanta, quel compromesso diede vita a una breve parentesi di stabilità di cui ancora oggi abbiamo nostalgia.
Come ogni compromesso, anche quello fordista lasciava entrambe le parti vagamente insoddisfatte, e si basava sulla tensione tra gli scioperi dei lavoratori da una parte e i tentativi dei padroni di sabotarli dall’altra. Il padronato comunque se lo faceva andare più o meno bene, almeno finché le vacche erano grasse e si potevano redistribuire i profitti con il cuore relativamente leggero. Con la crisi degli anni Settanta tuttavia i termini dell’accordo non furono più così convenienti. «Negli anni Settanta il dinamismo che il sistema aveva mostrato nei primi decenni del dopoguerra si era ormai esaurito, logorato da molteplici istanze politiche e dalla sclerosi istituzionale», spiega l’economista James Meadway. La soluzione trovata dal capitale fu spremere ancora di più i lavoratori. Le aziende chiusero le fabbriche nei paesi con salari alti delocalizzandole in posti dove il costo del lavoro era irrisorio rispetto a quello negli Usa o nel Regno Unito. Le ore di lavoro cominciarono ad aumentare e i salari a contrarsi, sempre più famiglie avevano bisogno di due entrate, e se due genitori lavoravano non c’era più tempo per occuparsi della casa.8
Durante la campagna presidenziale del 2016, l’emorragia di posti di lavoro nel manifatturiero statunitense è stato uno dei cavalli di battaglia del «Make America Great Again» trumpiano. Nel 2017, con Trump ormai alla Casa Bianca, sono andata in visita allo stabilimento della Carrier a Indianapolis. La sorte della fabbrica, che l’anno prima sembrava destinata a chiudere i battenti, era stato un punto nodale della campagna elettorale di Trump, che prometteva di restituire agli americani dei buoni posti di lavoro. Vinte le elezioni, Trump è tornato alla Carrier per annunciare la «missione compiuta» e raccontare ai lavoratori che era riuscito a stringere un accordo per tenere aperti i cancelli della fabbrica. Lo stabilimento della Rexnord appena dietro l’angolo però stava chiudendo: lì gli operai non avevano ricevuto la visita del presidente e il loro posto di lavoro era scomparso. Stessa cosa a Lordstown, in Ohio, dove nel marzo del 2019 avrebbe chiuso la fabbrica della General Motors.
Tutti gli operai che ho incontrato in Indiana e in Ohio volevano che la fabbrica restasse aperta, ma nessuno di loro mi ha parlato del proprio lavoro in termini entusiastici. Non avevano scelto di lavorare lì per inseguire la realizzazione personale ma semplicemente per lo stipendio, i weekend liberi, e la prospettiva di comprarsi casa. Quando ho chiesto cosa gli mancasse del loro lavoro, nessuno mi ha risposto il mestiere in sé, piuttosto mi hanno parlato dei colleghi che ormai erano di famiglia, delle birre a fine turno al...




