E-Book, Italienisch, 496 Seiten
Reihe: Sírin
Il'f / Petrov / Bonacorsi Le 12 sedie
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-6243-703-5
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 496 Seiten
Reihe: Sírin
ISBN: 978-88-6243-703-5
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Entrambi originari di Odessa, Il'ja Il'f e Evgenij Petrov - pseudonimi di Iechiel-Lejb A. Fajnzil'berg (1897-1937) e di Evgenij P. Kataev (1903-1942) - erano autori delle più importanti riviste satiriche del tempo quando si incontrarono a Mosca e decisero di scrivere a quattro mani. Dalla loro collaborazione nacquero, oltre a numerosi racconti, i romanzi 'Le 12 sedie' (1928), 'Il vitello d'oro' (1931), seguito del precedente, e 'L'America a un piano' (1936).
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CAPITOLO II
LA DIPARTITA DI MADAME PETUCHOVA
Klavdija Ivanovna giaceva supina, un braccio sotto la testa. In capo una cuffia di un intenso color albicocca, del tipo in voga nel 1911, quando le signore vestivano abiti stile “chantecler”2 e cominciavano appena a imparare i passi del ballo argentino detto tango. Il volto di Klavdija Ivanovna era solenne, ma privo di espressione. Gli occhi fissi al soffitto.
“Klavdija Ivanovna!” la chiamò Vorob’janinov.
La suocera mosse veloce le labbra ma, al posto degli squillanti suoni familiari al suo orecchio, Ippolit Matveevic udì un gemito lieve, sottile e così pietoso che ebbe una stretta al cuore, e all’improvviso gli sgorgò una lacrima scintillante che rotolò giù lungo la guancia come mercurio.
“Klavdija Ivanovna,” ripeté Vorob’janinov “cosa le succede?”
Ma di nuovo non ottenne risposta. La vecchia chiuse gli occhi e si girò appena su un fianco.
L’agronoma entrò nella stanza senza far rumore e lo condusse fuori per mano, come un bambino accompagnato a lavarsi.
“Si è assopita. Il dottore ha detto di non disturbarla. Lei, mio caro, faccia un piacere: passi in farmacia. Qui c’è la ricetta, e chieda anche quanto costa una borsa per il ghiaccio.”
Ippolit Matveevic obbedì senza fiatare a madame Kuznecova, riconoscendone l’indiscussa superiorità in simili faccende.
La farmacia non era proprio a due passi. Con la ricetta stretta in pugno come uno scolaretto, Ippolit Matveevic si precipitò in strada. Era ormai quasi buio. Sullo sfondo del sole morente, si intravedeva l’esile sagoma del mastro di onoranze funebri Bezencuk che, appoggiato al portone di abete, spizzicava pane e cipolla. Accanto a lui erano accovacciate le tre Ninfe, che mangiavano da un pentolino di ghisa della polenta di grano saraceno leccando i cucchiai. Alla vista di Ippolit Matveevic, gli impresari scattarono sull’attenti come soldati. Bezencuk si strinse nelle spalle indispettito e, tendendo il braccio in direzione dei rivali, brontolò:
“Stanno sempre tra i piedi, porca malora!”
Nel centro di piazza Staropanskaja, accanto al busto del poeta Žukovskij, con incisa sul basamento l’iscrizione “La poesia è una divinità nei sacri sogni della terra”3, erano in corso animate conversazioni, suscitate dalla notizia della grave malattia di Klavdija Ivanovna. L’opinione generale era in sostanza che “toccherà a tutti” e che “Dio dà e Dio toglie”.
L’acconciatore Pierre e Constantin, che si faceva tranquillamente chiamare con il comunissimo nome di Andrej Ivanovic, ancora una volta non perse l’occasione di sfoggiare il suo sapere in campo medico, attinto dalla rivista moscovita “Ogonëk”, che teneva d’abitudine sul tavolino della sua bottega per dilettare i cittadini venuti a radersi.
“La scienza moderna” diceva Andrej Ivanovic “ha fatto passi da gigante. Prendiamo per esempio un cliente con un brufolo sul mento. Prima finiva con un’infezione, ma adesso a Mosca – non so se è vero o no – pare che a ogni cliente spetti un pennellino sterilizzato.”
L’uditorio trasse un lungo sospiro.
“Forse esageri un tantino, Andrej!...”
“Dove si è mai visto un pennellino per ciascuno? Cosa non ti inventa questo!...”
Anche Prusis, ex proletario del lavoro intellettuale, oggi gestore di uno spaccio, si stava innervosendo:
“Mi perdoni, Andrej Ivanovic, a Mosca, secondo l’ultimo censimento, vivono più di due milioni di persone. Dunque occorrerebbero più di due milioni di pennellini? Piuttosto originale.”
La discussione si stava infiammando, e lo sa il diavolo come sarebbe andata a finire se in fondo a via Osypnaja non fosse comparso di gran carriera Ippolit Matveevic.
“Ancora di corsa in farmacia. Vuol dire che si mette male.”
“Ci lascia, la vecchia. Non per niente Bezencuk gira per la città come un invasato.”
“Ma il dottore che dice?”
“Il dottore? E quelli delle assicurazioni sociali me li chiama dottori? Spediscono al Creatore pure chi sta bene!”
Pierre e Constantin, che da un pezzo tentava di fare una dichiarazione di carattere medico, si guardò intorno diffidente e se ne uscì dicendo:
“Ora tutto dipende dall’emoglobina.”
E non aggiunse altro.
Tacquero anche gli astanti, ognuno riflettendo tra sé sul misterioso potere dell’emoglobina.
Quando la luna fu alta nel cielo e la sua luce verde menta illuminò il minibusto di Žukovskij, sulla schiena bronzea del poeta si poté leggere in modo chiaro una parolaccia vergata a grosse lettere con il gesso. La scritta era apparsa per la prima volta il 15 giugno 1897, la notte successiva all’inaugurazione, e per quanto la polizia, divenuta in seguito milizia, si adoperasse, il motto osceno puntualmente ricompariva.
Nelle casette di legno con le imposte esterne già cantavano i samovar. Era l’ora della cena. I cittadini non stettero più lì a gingillarsi, ognuno andò per la sua strada. Si alzò il vento...
Nel mentre Klavdija Ivanovna era in punto di morte. Ora chiedeva di bere, ora diceva che doveva alzarsi per andare a ritirare le ghette da cerimonia di Ippolit Matveevic portate a riparare, un momento si lamentava della polvere, che a dir suo non la faceva respirare, quello dopo chiedeva di accendere tutte le luci.
Ippolit Matveevic, già stremato dall’ansia, camminava avanti e indietro per la stanza. Gli ronzavano in testa certe spiacevoli preoccupazioni di natura economica. Pensava che gli sarebbe toccato chiedere un anticipo alla cassa di mutuo soccorso, andare a chiamare di corsa un prete e rispondere alle lettere di condoglianze dei parenti. Per distrarsi un po’, uscì sul pianerottolo dell’ingresso. Nella luce verde della luna si stagliava Bezencuk, mastro di onoranze funebri.
“Allora, cosa ordina, signor Vorob’janinov?” domandò Bezencuk, stringendo il cappello al petto.
“Si vedrà” rispose lugubre Ippolit Matveevic.
“Le Ninfe, porca malora... le pare merce quella?” iniziò ad agitarsi Bezencuk.
“Vattene al diavolo! Mi hai seccato!”
“Non per nulla. Volevo solo chiedere per le nappe e il broccato, porca malora, come li vuole? Di prima scelta? Oppure?”
“Niente nappe né broccato. Una semplice cassa di pino. Chiaro?”
Bezencuk si portò un dito alle labbra, intendendo con ciò che aveva compreso perfettamente, poi si girò e, mantenendo l’equilibrio con l’aiuto del cappello, ma comunque barcollando, se ne tornò a casa. Solo allora Ippolit Matveevic si rese conto che il mastro di onoranze funebri era ubriaco fradicio.
Ippolit Matveevic provò di nuovo un insolito disgusto. Non riusciva a figurarsi come sarebbe stato rientrare in una casa vuota e sudicia. Con la morte della suocera gli pareva sarebbero venute meno quelle piccole comodità e abitudini acquisite a fatica dopo che la rivoluzione gli aveva strappato le sue grandi comodità e le sue lussuose abitudini. “Se mi sposassi?” pensò Ippolit Matveevic. “Ma con chi? Con la nipote del comandante della polizia? Con Varvara Stepanovna, la sorella di Prusis? E se invece prendessi una domestica? No, non se ne parla! Mi trascinerebbe per tribunali. Oltretutto mi costerebbe una fortuna.”
D’un tratto agli occhi di Ippolit Matveevic l’esistenza si tinse di nero. E pieno di sdegno e di disgusto per la propria vita, rientrò in casa.
Klavdija Ivanovna non vaneggiava più. Sostenuta dai cuscini, guardò entrare Ippolit Matveevic con aria visibilmente lucida, e a lui parve perfino severa.
“Ippolit,” bisbigliò in modo distinto “si sieda accanto a me. Devo raccontarle...”
Ippolit Matveevic si sedette di malavoglia, fissando lo smagrito viso baffuto della suocera. Si sforzò di sorridere e dire qualcosa che fosse di conforto. Ma gli uscì un sorriso assurdo e parole di conforto non ne trovò. Dalla gola gli scaturì solo un goffo pigolio.
“Ippolit,” ripeté la suocera “ricorda i mobili del nostro salotto?”
“Quali?” chiese Ippolit Matveevic con la sollecitudine che si usa solo con le persone molto malate.
“Quelli... con la fodera di calicò inglese a fiorellini...”
“Ah, ma in casa mia?”
“Sì, a Stargorod...”
“Certo, ricordo benissimo... Divano, due poltrone, una dozzina di sedie e un tavolino rotondo a sei gambe. Mobili eccellenti, opera del mastro ebanista Gambs4... Come mai le tornano in mente?”
Ma Klavdija Ivanovna non riuscì a rispondere. Il suo viso pian piano si coprì di chiazze rosse. Chissà perché, anche a Ippolit Matveevic si mozzò il fiato. Rivide come fosse allora il salotto della sua villa, la disposizione simmetrica dei mobili in noce con le gambe ricurve, il pavimento tirato a cera, l’antico pianoforte marrone e alle pareti le cornicette nere ovali con i dagherrotipi dei parenti d’alto rango.
A quel punto Klavdija Ivanovna con voce fredda e legnosa disse:
“Ho cucito i miei brillanti nell’imbottitura di una sedia.”
Ippolit Matveevic guardò la vecchia di traverso.
“Quali brillanti?” chiese meccanicamente, ma...