Han | Topologia della violenza | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 180 Seiten

Reihe: Figure

Han Topologia della violenza


1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-7452-804-2
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 180 Seiten

Reihe: Figure

ISBN: 978-88-7452-804-2
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Il punto di partenza dell'analisi che Byung-Chul Han sviluppa in questo saggio è la natura proteiforme della violenza: cambia aspetto, si adatta alla logica e alle modalità del contesto socio-politico in cui si sviluppa e, soprattutto, agisce anche laddove sembra essere sparita. L'esame parte dalla violenza nelle sue manifestazioni macrofisiche: quella del sangue e del sacrificio, del sovrano sul sottoposto, quella senza sangue delle camere a gas, quella del linguaggio offensivo. In questo senso essa è espressione di un 'eccesso di negatività': è infatti possibile esclusivamente dove c'è antitesi, tensione bipolare tra un Ego e un Alter, un Interno e un Esterno. Nell'epoca odierna, con la progressiva 'positivizzazione della società' ? ovvero lo smantellamento della negatività e della contrapposizione e l'appiattimento delle differenze ? anche la violenza sembra svanire, almeno nelle sue forme tangibili, corporee. Ma quello a cui assistiamo, sostiene il filosofo, è in realtà un suo trasferimento sul piano psichico, all'interno del soggetto. È, quella odierna, una violenza microfisica, un pericoloso 'eccesso di positività' che si manifesta 'in termini di sovrapprestazione, sovrapproduzione e sovracomunicazione, iperattenzione e iperattività', fondendosi e confondendosi con la sua controparte: la libertà. Nella società della prestazione il soggetto, formalmente libero, è vittima di se stesso e delle pulsioni che ha introiettato. 'La storia della violenza giunge a compimento in questa coincidenza tra carnefice e vittima, tra signore e servo, tra libertà e violenza'.

Byung-Chul Han è uno dei filosofi contemporanei piú interessanti e piú seguiti a livello internazionale. Ha pubblicato con nottetempo La società della stanchezza (2012, 2020), Eros in agonia (2013, 2019), La società della trasparenza (2014), Nello sciame (2015, 2023), Psicopolitica (2016, 2024), L'espulsione dell'Altro (2017, 2024), Filosofia del buddhismo zen (2018, 2022), La salvezza del bello (2019, 2025), Che cos'è il potere? (2019), Topologia della violenza (2020, 2025), La scomparsa dei riti (2021), Sano intrattenimento (2021), Elogio della terra (2022), Perché oggi non è possibile una rivoluzione (2022), Iperculturalità (2023), Vita contemplativa (2023) e Del vuoto (2024).
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1. Topologia della violenza


I greci chiamavano la tortura ??????. ??a??ai?? significa “necessario” o “inevitabile”. La tortura viene quindi percepita e accettata come un destino o una legge di natura (?????). Ci si trova dinanzi a una società che avalla la violenza fisica come mezzo per raggiungere un fine. È una società del sangue, opposta alla società moderna intesa come società dell’anima. Qui i conflitti vengono risolti direttamente mediante l’impiego della violenza, vale a dire tutto d’un colpo. Cosí facendo la violenza esteriore allevia l’anima in quanto interiorizza la sofferenza e l’anima non sprofonda in uno straziante dialogo interiore. Con l’epoca moderna, la violenza appare invece in una forma psichizzata, psicologizzata, interiorizzata, assume cioè forme interne alla psiche. Le energie distruttive non vengono subito scaricate in chiave affettiva, bensí elaborate psichicamente.

La mitologia greca è disseminata di sangue e corpi fatti a pezzi. Agli occhi degli dèi la violenza è un mezzo ovvio, naturale, per raggiungere i propri obiettivi e imporre il proprio volere. Borea, dio del vento del nord, giustifica cosí le sue azioni violente:

[…] Sicché il dio fu a lungo privato dell’amata Oritia, fino a che preferí pregare piuttosto che usare la forza. Ma, quando niente si concludeva con le buone maniere, rabbuffatosi per l’ira, che è propria e troppo di casa per quel vento, “Ben mi sta!” disse, “Perché mai ho messo da parte le mie armi, la furia e la violenza e l’ira e le minacce, avanzando invece preghiere, che è sconveniente per me usare? A me si adatta la violenza”1.

Inoltre, l’antica Grecia era una cultura del fervore. Le intense passioni che la caratterizzano assumono forme violente. Il cinghiale che uccide con le zanne il bel giovanetto Adone incarna la violenza insita in una cultura del fervore e della passione. Dopo la morte di Adone si dice che il cinghiale avesse tuttavia sostenuto che non volesse ferirlo, bensí coccolarlo con le sue “zanne erotizzate” (???t????? ?d??ta?). La cultura delle passioni e delle pulsioni collasserà per via di tale paradosso.

In tempi premoderni la violenza è onnipresente, soprattutto quotidiana e visibile. Essa è una componente essenziale della prassi e della comunicazione sociale. Motivo per cui non viene solo praticata, ma anche appositamente mostrata. Il sovrano manifesta il proprio potere (Macht) mediante la violenza assassina, mediante il sangue. Il teatro degli orrori che ha luogo negli spazi pubblici inscena il suo potere e la sua gloria. La violenza e la sua messinscena teatrale sono parte essenziale della pratica del potere e del dominio.

Nell’antica Roma, i munera erano i servizi resi alla collettività. Un munus è anche il regalo che ci si aspetta da qualcuno che ricopre un incarico pubblico. Uno dei munera è il munus gladiatorium. La lotta tra gladiatori è solo una parte di questo munus gladiatorium2. Molto piú tremende delle lotte tra gladiatori sono le esecuzioni previste a mezzodí. Oltre alla damnatio ad gladium (morte con la spada) e alla damnatio ad flammas (morte col fuoco) c’è anche la damnatio ad bestias. I criminali vengono buttati in pasto ai leoni affamati e finiscono sbranati vivi. Il munus gladiatorium non è un mero divertimento per le masse teso a soddisfarne gli istinti aggressivi: vi è insita piú che altro una valenza politica. Nel teatro degli orrori, il potere del sovrano si mette in scena come potere della spada, e cosí il munus gladiatorium diventa parte integrante del culto imperiale. La pomposa messinscena dell’uccisione violenta manifesta il potere e il dominio del sovrano, che si serve della valenza simbolica del sangue. La violenza fisica funge da insegna del potere. Qui la violenza non si nasconde, è visibile e manifesta, non ha alcuna vergogna. Non è né muta né nuda, bensí eloquente e significante. Sia nella cultura arcaica, sia in quella antica, la messinscena della violenza è parte integrante, anzi fulcro, della comunicazione sociale.

In epoca moderna la violenza corporea viene sempre piú delegittimata non solo in ambito politico, ma anche su quasi tutti i piani sociali. Viene a mancarle, per cosí dire, ogni palcoscenico. Ora le esecuzioni avvengono in luoghi a cui il pubblico generalista non ha accesso. La violenza assassina non viene piú messa in mostra. Espressione di questo cambiamento topologico è anche il campo di concentramento, che non è piú teatro della violenza assassina, in quanto non è piú situato nel centro di una città, bensí alla sua periferia. Il teatro della violenza sanguinaria che contraddistingue la società della sovranità cede il passo a una camera a gas priva di sangue, sottratta a qualsiasi sguardo pubblico. Invece di mettersi in scena pomposamente, la violenza si nasconde in preda alla vergogna. Si continua a esercitarla, ma non viene piú messa in scena pubblicamente. Non si mette in mostra di proposito, le manca qualsiasi strumento linguistico o simbolico, non annuncia alcunché. Si espleta nei termini di una distruzione muta, senza lingua. Il Muselmann è la vittima di una violenza che già si vergogna, già percepita come un crimine – e negata. Una volta delegittimata, la violenza assassina del sovrano abbandona lo spazio pubblico in quanto luogo. Il lager è un luogo di scarto (Ab-Ort). In questo si differenzia anche dalla prigione, che rientra ancora nel concetto di luogo.

La fine della società premoderna della sovranità come società del sangue sottopone la violenza a un cambiamento topologico. Essa non rientra piú nella comunicazione politica e sociale, ma si ritira in spazi subcomunicativi, sottocutanei, capillari, intraspirituali. Si sposta dall’invisibile al visibile, dal diretto al discreto, dal fisico allo psichico, dal marziale al mediale e dal frontale al virale. I suoi modi di operare non agiscono ora mediante il confronto, ma con la contaminazione, non con attacchi palesi, bensí attraverso contagi nascosti. Questo cambiamento strutturale della violenza influenza sempre piú le sue manifestazioni odierne. Il terrorismo tiene insieme le proprie forze distruttive non in chiave frontale, bensí diffusa e virale, al fine di operare nell’invisibilità. E cosí anche la cyberguerra, la forma bellica del ventunesimo secolo, opera in maniera virale. La viralità sottrae alla violenza qualsiasi visibilità e apertura. Il criminale stesso si rende invisibile. I virus digitali che contagiano piú che attaccare non lasciano quasi alcuna traccia capace di ricondurre ai responsabili. Eppure, questa violenza virale è una violenza della negatività: in essa continua a essere inscritta la bipolarità vittima/carnefice, bene/male, amico/nemico.

L’interiorizzazione psichica è uno degli slittamenti topologici clou della violenza nell’epoca moderna. La violenza ha luogo nella forma di un conflitto psichico interiore. Le tensioni distruttive vengono mantenute all’interno invece di scaricarsi verso l’esterno. Il fronte si colloca ora non fuori, bensí dentro l’Io:

La civiltà domina dunque il pericoloso desiderio di aggressione dell’individuo infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da una istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata3.

Freud individua nella coscienza quest’istanza di controllo insita nella psiche. È un luogo d’inversione della violenza: “Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno”4. L’aggressione contro gli altri si ribalta nell’aggressione contro se stessi. Piú ci si astiene dal rivolgere l’aggressione verso gli altri, piú la coscienza diventa severa e imperiosa5.

Anche la tecnica di dominio sfrutta l’interiorizzazione della violenza. Essa fa sí che il soggetto d’obbedienza interiorizzi l’istanza dominante rendendola parte di sé e in tal modo il dominio viene esercitato con un dispendio di forze molto minore. Anche la violenza simbolica è una violenza che si serve dell’automatismo della consuetudine. S’inscrive nelle cose ovvie, nei modelli percettivi e comportamentali. La violenza viene per cosí dire naturalizzata. Senza alcun dispendio di violenza fisica o marziale viene mantenuto intatto il rapporto di dominio preesistente. Anche la tecnica disciplinare si serve dell’interiorizzazione psichica delle coercizioni: mediante attacchi discreti, raffinati, essa penetra nel sistema nervoso, nelle fibre muscolari del soggetto e lo sottomette a imperativi e costrizioni orto- e neuropedici. La massiccia violenza della decapitazione, che imperversa nella società del dominio, cede il passo alla violenza di una deformazione graduale e sottocutanea.

Il soggetto di prestazione della tarda modernità non è subordinato a nessuno. Non è nemmeno un soggetto in cui si possa rintracciare una forma di sottomissione (subject to, sujet à, soggetto a). Esso si positivizza, si libera diventando un progetto. Ma il passaggio da soggetto a progetto non fa scomparire la violenza: al posto della costrizione esterna emerge un’autocoercizione che si spaccia per libertà. Questo sviluppo è strettamente legato ai rapporti di produzione capitalistici. A partire da un certo livello di produzione, l’autosfruttamento è molto piú efficiente ed efficace di uno sfruttamento che parte...



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