E-Book, Italienisch, 144 Seiten
Reihe: Figure
Han Del vuoto
1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-138-3
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Sulla cultura e filosofia dell'Estremo Oriente
E-Book, Italienisch, 144 Seiten
Reihe: Figure
ISBN: 979-12-5480-138-3
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
L'Occidente affronta l'Estraneo in modo spesso aggressivo, violento: la tendenza a escluderlo o ad assorbirlo preclude così qualsiasi apertura, qualsiasi affabilità nei confronti dell'Altro, e qualsiasi possibilità di un'evoluzione intesa come divenire altro da sé. Ciò dipende, secondo Byung-Chul Han, dallo schema dicotomico alla base della visione occidentale del mondo, dal costante bisogno di individuare un soggetto contrapposto a un oggetto, e dalla centralità di concetti quali essenza, sostanza, verità, stabilità. Incontriamo questo modello nelle teorie dei grandi pensatori europei - da Parmenide e Platone fino a Leibniz, Hegel, Nietzsche e Heidegger -, ma anche nel linguaggio, nella letteratura, nelle arti e in ogni aspetto della quotidianità. Le filosofie, le pratiche e le consuetudini diffuse in Asia orientale appaiono mosse da un'istanza profondamente diversa: al posto dell'essere, troviamo semplicemente una via; e l'assenza, il vuoto, sostituisce l'essenza. Fiorisce una cultura dell'immanenza, tesa all'apertura piuttosto che alla chiusura, all'in-differenza anziché all'analisi, all'accettazione dell'è-così e non all'agire funzionale. Il saggio in Estremo Oriente si accorda al qui e ora, si immerge nell'armonia del Tutto, nella realtà intesa come un flusso. In questo libro Han arriva al fondo segreto di quella società occidentale contemporanea che costituisce il bersaglio principale della sua critica.
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Chiuso e aperto
Gli spazi dell’ab-essenza
Elias Canetti1
In Estremo Oriente si esperisce anche visivamente come le cose fluiscano le une nelle altre, molto più che in Occidente. Nelle strette vie dello shopping non è sempre chiaro dove finisce un negozio e dove ne comincia un altro, spesso si sovrappongono: nei mercati coreani si vedono, accanto alle pentole, dei calamari secchi; rossetti e noccioline sono indistinguibili; le gonne vengono appese sopra le torte di riso. L’intrico di pali della luce, tubature e vivaci insegne pubblicitarie, così tipico delle grandi città del Giappone, non permette una netta distinzione degli spazi, e le vecchie case in legno nei vicoli giapponesi () sembrano spuntare una dentro l’altra – non è facile capire dove termina un’abitazione e dove comincia quella accanto. Questa spazialità dell’in-differenza ricorda il motto zen: “La neve giace sulle pannocchie del canneto lungo la sponda; è difficile distinguere dove comincia e finisce cosa”2. È difficile, cioè, distinguere tra il bianco delle infiorescenze e quello della neve che le copre. L’essenza è differenza. Ciò impedisce quindi transizioni fluide. L’ab-essenza è in-differenza, opera in chiave fluidificante e sconfinante. Quel paesaggio fluviale innevato è un . Nulla s’impone. Nulla si separa. Tutto pare ritirarsi in un’in-differenza.
In Occidente vi sono di rado transizioni fluide. La massiccia presenza di confini e delimitazioni genera un senso di ristrettezza. Malgrado l’assembramento di esseri umani e abitazioni, una grande città dell’Estremo Oriente sembra piuttosto un luogo del vuoto e dell’assenza.
Paesaggio sospeso.
Già lo sguardo opera in chiave svuotante. Le transizioni fluide producono luoghi dell’assenza e del vuoto. L’essenza chiude ed esclude. L’ab-essenza, di contro, rende lo spazio più permeabile e, così facendo, lo amplia. Uno spazio fa spazio per altro spazio, si apre a nuovi spazi, e non si arriva mai a una chiusura definitiva3. Lo spazio del vuoto, lo spazio deinteriorizzato, consiste di passaggi e interstizi. Così, nel bel mezzo del groviglio delle grandi città dell’Estremo Oriente, vi è un gradevole vuoto, un’autentica .
L’in-differenza favorisce anche un’intensa compresenza del diverso. Essa genera un massimo di tenuta con un minimo di nessi organici e organizzati. L’assemblaggio sintetico cede il passo a un continuum della vicinanza, ove le cose si legano senza creare un’unità. Esse non sono di una totalità organica. Ecco perché hanno un’aria . L’essere membri di qualcosa non indica un ; non c’è bisogno di un tra le cose per riconciliarle o agevolare la comunicazione. Esse non hanno nulla a che le une con le altre: si svuotano, piuttosto, in una vicinanza in-differente.
Città senza soglie.
La cultura occidentale sfoggia una certa determinazione per la compattezza e la chiusura, ed è interessante vedere come questa determinazione non si rispecchi solo nella figura metafisica della sostanza, ma anche nell’architettura tipica in Occidente. Così, l’anima monadica di Leibniz, priva di finestre, trova il proprio equivalente in quella forma basilare dell’architettura romantica che Hegel descrive come “la casa ”4. Il Bello si compie sì nell’arte classica, ma secondo Hegel l’arte romantica, essendo un’arte dell’interiorità, lo esprime con maggior chiarezza rispetto a quella antica. Al contrario della bellezza classica che si limita a rilucere esteriormente, un’opera romantica reca uno splendore interno, uno splendore dell’interiorità. E tale interiorità romantica si esprime appunto nella “casa ”, in una “recinzione totale”5 in cui l’esterno viene del tutto eliminato. A detta di Hegel, la religione cristiana è una religione dell’interiorità, ed è per questo che trova il proprio equivalente più esteriore nella casa di Dio, che è :
Come infatti lo spirito cristiano si raccoglie nell’interiorità, così l’edificio diviene il luogo, da tutti i lati in sé delimitato, per la riunione della comunità cristiana ed il suo raccoglimento interno. È il raccoglimento dell’animo in sé che si rinchiude parzialmente6.
Già il portale della casa di Dio introduce a questa interiorizzazione, poiché si restringe verso l’interno. Tale “restringimento prospettico” annuncia che “l’esterno deve raccogliersi, divenire sottile, sparire”7. I colonnati, mezzi dentro e mezzi fuori, vengono spostati all’interno dell’edificio e in tal modo formano un fuori interiorizzato, . Nemmeno la luce naturale può entrare di soppiatto direttamente nello spazio interno, poiché disturberebbe il raccoglimento. Così, “la luce del sole viene trattenuta o traspare solo attenuata attraverso le vetrate dipinte delle finestre, che sono necessarie per separare completamente dall’esterno”8. La luce esterna, naturale, viene trattenuta. Il fuori va respinto a ogni costo nel nome dell’interiorità, in quanto esso distrae, pregiudica il raccoglimento. Solo una luce puramente interiore, divina, spirituale può colmare la casa di Dio chiusa e compatta. Le finestre non sono allora delle aperture, poiché servono a una “netta separazione dall’esterno”. Come sottolinea Hegel, esse sono “solo a metà trasparenti”9. Il freno che pongono alla luce conferisce allo spazio una determinata interiorità. Ecco perché i loro vetri non sono , bensì dipinti, cioè di significati. Le pitture su vetro che spesso rappresentano la storia della salvezza impregnano la luce di una che finisce per intensificare ulteriormente la pienezza dello spazio.
Il tempio buddhista non è una casa . Lo sarebbe invece il tempio greco che, con i suoi passaggi e i suoi atri a cielo aperto, rappresenta il divino, del vento divino10. Questa apertura è però al contempo un’. Il tempio buddhista non è né del tutto chiuso, né del tutto aperto. A caratterizzare la sua resa spaziale non è né l’interiorità, né l’esposizione. I suoi spazi sono più che altro : lo spazio del vuoto salvaguarda l’in-differenza di aperto e chiuso, di dentro e fuori.
Dove inizia l’interno?
Il padiglione del tempio buddhista quasi non ha pareti. Lateralmente, è circondato da svariate porte in carta di riso, un materiale che fa passare la luce. La funzione di questa carta non consiste, come nelle cattedrali, nel far trasparire la luce “solo scurita”, in modo da non pregiudicare l’interiorità dello spazio. Al contrario delle vetrate dipinte, la carta di riso non serve a “separare nettamente dall’esterno”11. Per via del tetto basso, la luce raggiunge comunque la porta solo in forma indebolita, come un riverbero di ab-splendore (). È già contraddistinta da un’. Come una spugna di luce, ecco che la carta bianco-opaca assorbe delicatamente la luce già debole di suo e la fa, per così dire, ristagnare. Emerge perciò una , che non . Inoltre, il tetto basso le toglie qualsiasi verticalità: al contrario delle cattedrali, infatti, la luce non cade – e la carta le sottrae ogni movimento, ogni direzione. Si crea così una vasca verticale di luce ferma. Questa luce particolare è, per usare un’espressione taoista, “priva di direzione”: non illumina né irradia nulla. Tale luce indeterminata, stagnante, divenuta in-differente, non sottolinea la presenza delle cose. Le immerge semmai in un’assenza. Del resto, il bianco è il colore dell’in-differenza. La carta bianca e vuota si oppone alle vetrate colorate e dipinte. I colori rafforzano la presenza. La luce bianca e opaca opera come la neve lungo la sponda del fiume, che crea un paesaggio dell’assenza e dell’in-differenza. Questa luce dell’in-differenza, questa intra-luce, immerge ogni cosa in un’atmosfera di vuoto e di assenza.
La luce silenziosamente arrestata dalle porte scorrevoli bianche e opache differenzia l’apertura architettonica dell’Estremo Oriente anche dalla incontrollata, quindi di nuovo sgarbata, della moderna architettura col vetro, nella quale la luce precipita quasi aggressiva all’interno. Tale architettura non richiama certo l’apertura dell’Estremo Oriente, bensì la metafisica della luce di Platone e Plotino. La caverna buia platonica e la luce accecante del sole rientrano nella medesima topografia dell’essere. La spazialità dell’Estremo Oriente si eleva invece...