E-Book, Italienisch, 192 Seiten
Reihe: add saggistica
Guetta I sovranisti
1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-6783-241-5
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Dall'Austria all'Ungheria, dalla Polonia all'Italia, nuovi nazionalismi al potere in Europa
E-Book, Italienisch, 192 Seiten
Reihe: add saggistica
ISBN: 978-88-6783-241-5
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Bernard Guetta è un giornalista francese esperto di geopolitica, ha una rubrica quotidiana a radio France Inter. Ha lavorato molti anni per «Le Monde», è stato redattore capo di «L'Expansion» e «Le Nouvel Observateur». È editorialista di «La Repubblica», «L'Express», «Libération», «Gazeta Wyborcza», «Internazionale» e «l'Espresso».
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Prologo
Da dove cominciare? Dall’Algeria? Mi tenta. Dalla Gran Bretagna? Meglio aspettare e vedere. Forse dall’Iran? In ogni caso, dovrei andarci prima che negli Stati Uniti ma… là, adesso? E poi, ecco la risposta: l’Europa di estrema destra, da Vienna a Roma passando per Budapest e Varsavia.
Ho esitato a lungo sulla scelta della prima tappa, ma non sulla necessità di intraprendere questo giro del mondo in dieci libri. Dovevo tornare sul campo, ascoltare, osservare, tentare di capire perché il mondo sta cambiando dappertutto, e l’esigenza si è fatta via via più intensa dentro di me dopo che la Gran Bretagna ha deciso di uscire dall’Unione europea.
La Brexit non mi ha sorpreso. La temevo. Me l’aspettavo, ma non avevo vissuto di persona il dilagare del sentimento antieuropeo tra i britannici. Benché l’avessi visto crescere da lontano, non ne comprendevo i meccanismi abbastanza a fondo per interpretarlo in modo corretto. Dovevo indagare. E che dire della vittoria di Donald Trump?
Mi ero persuaso subito che avrebbe vinto le primarie. Era evidente: la destra americana si era radicalizzata così tanto che lui era il più adatto a sedurla; ma che vincesse le presidenziali no, non l’avevo previsto. Non ho dubitato neppure per un secondo che la destra moderata, il centro e la sinistra avrebbero fermato l’inammissibile inciviltà di quel personaggio, e per capire che Hillary Clinton non aveva la vittoria in tasca ero dovuto partire e andare a New York, tenere le orecchie aperte, ascoltare la radio, seguire la televisione.
Tre giorni prima delle elezioni, però, la possibilità che l’impossibile si realizzasse mi era parsa così probabile che per la mia trasmissione radiofonica avevo preparato le scalette di tre articoli, un pezzo sulla vittoria di Trump, uno sulla sua sconfitta e uno sul too close to call, ossia «è troppo presto per parlarne» di primo mattino su France Inter a Parigi. Il risultato non mi aveva sorpreso ma sbalordito, ed ero esterrefatto nel vedere che gli Stati Uniti affidavano a un uomo simile il loro destino e che la prima potenza mondiale – il Paese da cui dipendono la stabilità internazionale e la sicurezza delle democrazie occidentali – cadeva nelle mani di un megalomane ignorante ed egocentrico che già in campagna elettorale aveva trovato il tempo di mettere in discussione l’esistenza dell’Alleanza atlantica.
Stava cambiando tutto, proprio tutto e, prima ancora che la Florida rendesse certa la vittoria di Trump, c’era stata quella dei nazionalisti conservatori in Polonia, quella di Modi in India e quella di Duterte nelle Filippine, altri due nazionalisti conservatori, poi l’intervento trionfale di Putin in Siria, quarto nazionalista conservatore, mentre Recep Erdogan, quinto della stessa specie, aveva fatto ripiombare la Turchia nella dittatura. Non si trattava più di una tendenza ma di un maremoto e, una volta incoronato Trump presidente, Viktor Orbán si era fatto rieleggere in Ungheria, mentre le destre della destra si aggiudicavano l’Austria e l’Italia, e in Cina Xi Jinping, conservatore e nazionalista, emendava la Costituzione per ripristinare, a suo vantaggio, la presidenza a vita.
Sullo sfondo del declino generale dei grandi partiti della sinistra socialdemocratica e della destra moderata, ovunque si affermavano nuove estreme destre, non naziste ma senza dubbio autoritarie, che rimettevano in discussione la necessità di una concertazione internazionale e il libero scambio, il rispetto dei diritti umani, l’unificazione dell’Europa, pari diritti alle minoranze e ai più deboli, la messa al bando del razzismo, delle annessioni territoriali e della xenofobia – quello che, nel dopoguerra, un consenso internazionale aveva trasformato nell’ideale comune verso cui tendere.
In una manciata di anni tutto ciò si è trasformato in polvere, come travi erose da termiti invisibili, e ovunque, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia fino al cuore di questo bastione delle libertà che è l’Unione europea, si è tornati alla politica del fatto compiuto, del diritto del più forte, del rifiuto dell’altro e della regola dell’ognun per sé, dietro frontiere fortificate da muri e recinzioni.
Con la Brexit e l’elezione di Trump, il 2016 aveva segnato una svolta ben più profonda rispetto a quella del 1989, quando la caduta del Muro sembrava aver garantito il trionfo della democrazia che, all’improvviso, si era estesa a molti nuovi Paesi. La fine della Guerra fredda sembrava aver affermato il prevalere di principi cui si appellavano i vincitori, ma un certo Donald Trump, quello che ha ordinato di togliere i figli agli immigrati clandestini, aveva preso i comandi di quella che era stata la nave ammiraglia del mondo libero.
Il secolo in cui eravamo appena entrati iniziava davvero male e sentivo di non avere più la capacità né il diritto morale di analizzarne i cambiamenti a distanza perché non ne avevo vissuto la genesi, a differenza di quella della fine del comunismo. Ricordavo fin troppo bene il mio stupore davanti alla cecità degli editorialisti newyorchesi o parigini – che, da lontano, avevano infilato una perla dietro l’altra sulla Polonia di Solidarnosc o l’Urss di Gorbacëv – per commettere, trent’anni dopo, lo stesso errore di fronte a questo nuovo sconvolgimento mondiale.
Se non volevo diventare cieco e sordo, dovevo rimettermi in cammino. Se non volevo rischiare di coprirmi di ridicolo, dovevo lasciare le comodità di uno studio pieno di amici e gli ascolti trionfali. Dovevo alzarmi dalla mia poltrona rossa e tornare a fare il reporter, andando incontro a un insuccesso, forse, ma poco importa, si vedrà.
Avevo pensato di fare il grande passo già nel luglio 2017, un anno dopo l’ho fatto davvero. Ai primi di luglio del 2018 ho detto addio a Radio France Inter dopo ventisette anni di dirette, e sei settimane dopo ho deciso di partire per l’Europa centrale, per andare in quei quattro Paesi europei che stavano voltando le spalle ai valori dell’Unione e rischiavano, se fossero riusciti a disintegrarla, di garantire vittorie piuttosto facili ma fondamentali ai signori Trump, Putin e Xi. Perdipiù, in quella zona ero stato corrispondente di «Le Monde» dopo averla già percorsa in lungo e in largo per «L’Observateur». La conoscevo. Ci vivono molti amici. Sapevo che era completamente diversa da quella che avevo visto e vissuto sotto il comunismo, è naturale! Oltre alla necessità di vedere la situazione di persona, avevo una voglia sincera, personale, intima e fortissima di partire.
Tornavo dunque in terre un tempo mie, alle quali la coalizione di 5 Stelle e Lega ha aggiunto l’Italia. Ho chiamato a raccolta i miei compagni degli anni Settanta e Ottanta, ho definito un itinerario: prima Budapest, poi Varsavia, Vienna e Roma. Ho letto molto, la stampa contemporanea, la Storia passata e, per il resto, ho rimesso in moto i ricordi e ripreso in mano quello che avevo scritto. Ero pronto quanto lo si può essere prima di un reportage, con molti indizi, se non altro sulle cause dello sconvolgimento di quei Paesi. Veri o falsi, di sicuro da verificare, costituivano il punto di partenza per cominciare un viaggio esplorativo. Un punto, però, mi restava oscuro.
È semplicemente un caso – o come spiegarlo altrimenti? – che le frontiere dell’insieme politico costituito da queste nuove destre europee al potere coincidano, in modo quasi perfetto, con quelle dell’impero austro-ungarico della metà del XIX secolo? Non credo al caso, ma allora perché le cose stanno proprio così? La domanda mi assillava e, a forza di pensarci, respingendo o riesaminando varie ipotesi, sono arrivato a formulare una teoria, una pura creazione intellettuale che bisognerà convalidare o invalidare sul campo.
Eccola.
Fine della Prima guerra mondiale: le sorti del conflitto disintegrano l’impero austro-ungarico, riducono l’Austria a una superficie inferiore a quella di due Svizzere e l’Ungheria a meno di un terzo dei suoi territori. Ne sono colpevoli un francese e un americano, Georges Clemenceau e Woodrow Wilson, un figlio dei Lumi e un utopista che mette fine all’isolazionismo degli Stati Uniti e inventa la Società delle Nazioni, il diritto dei popoli a decidere del loro futuro e la concertazione internazionale, quella di cui Donald Trump non vuole più saperne.
Cancellata dalle carte geografiche da più di un secolo, la Polonia riscopre la sua indipendenza, ma in Ungheria come in Austria si è a lutto e i due Paesi cercano di risollevarsi alleandosi alla Germania nazista. I loro calcoli sono sbagliati e si ricomincia! L’Onu subentra alla Società delle Nazioni. Sotto l’influenza, ancora e sempre, degli americani e dei francesi, l’Occidente vincitore proclama la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.
Entrambe dalla parte dei vinti, l’Austria è occupata dagli Alleati fino al 1955, mentre l’Ungheria viene abbandonata a Stalin e diventa comunista. Ancora oggi molti vecchi austriaci parlano di “Invasione”, alludendo a quella che i francesi chiamano “Liberazione”, e molti ungheresi ricordano che nel 1956 gli Stati Uniti non mossero un dito dopo che le loro radio avevano infiammato gli insorti di Budapest.
Il “mondo libero” e gli Stati Uniti “baluardo della democrazia”, sì, certo. Così vicini alla frontiera russa, ungheresi e austriaci non potevano che pensare in questi termini ma, al crollo dell’Urss, la Storia ha subito accampato i suoi diritti, con i suoi ricordi, i suoi rancori, le sue menzogne. Per molti ungheresi, “Occidente” significa anche Trattato del Trianon, quello con cui i vincitori della Prima guerra mondiale stabilirono le sorti del Regno d'Ungheria, quello dello...




