E-Book, Italienisch, Band 390, 240 Seiten
Reihe: Gli Iperborei
Grue La mia vita come la vostra
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-7091-723-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, Band 390, 240 Seiten
Reihe: Gli Iperborei
ISBN: 978-88-7091-723-9
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Scrittore e professore del Dipartimento di Sociologia e Geografia Umana all'Università di Oslo, è autore di un'ampia serie di opere di narrativa, saggistica, letteratura accademica e di libri per bambini. 'La mia vita come la vostra' ha ottenuto il Premio della Critica norvegese ed è stato candidato al Premio del Consiglio Nordico. Tradotto con successo in tutto il mondo, il New York Times lo ha inserito tra i migliori libri di nonfiction del 2021. Nello stesso anno Jan Grue ha ricevuto in Svezia il Premio P.O. Enquist.
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Le cose sarebbero potute andare diversamente. Le cose potrebbero sempre andare diversamente. Ma chi sarei diventato se non fossi nato con una miopatia congenita? Ci sono vite vissute e vite non vissute, le prime contengono le seconde come l’acqua contiene una bolla d’aria.
All’età di tre anni mi hanno diagnosticato l’atrofia muscolare spinale. Il periodo in cui non mi consideravo ancora uno con una patologia neuromuscolare me lo ricordo a malapena, ma è stata solo una piccola apertura prima che si chiudesse qualcosa, una porta, una serratura.
Sapevo camminare, ma non correre. Sapevo alzarmi da terra, ma solo se avevo qualcosa a cui reggermi. All’aperto, sul terreno irregolare, avevo bisogno della carrozzina, che per me significava libertà. Dagli inciampi, dalle cadute, dalla stanchezza.
Niente di tutto ciò era una novità: per me era sempre stato così. Sono sempre stato me stesso. Il dubbio era chi sarei diventato. La mia diagnosi prevedeva un cosiddetto decorso progressivo, cioè un peggioramento. Ovvero, come si legge nelle carte di quando avevo tredici anni:
Atrofia muscolare spinale di tipo II-III con riduzione delle abilità fisiche avvenuta negli ultimi anni in relazione alla crescita, tuttavia piuttosto stabile.
[…]
Per il resto se la cava bene con una combinazione di carrozzina manuale, carrozzina elettrica e sedile a catapulta per alzarsi dalle sedie più basse.
[…]
Buone funzionalità intellettive e sociali, ma ha bisogno di attenzioni e sostegno consistenti sia da parte dei genitori sia da parte dell’assistenza sanitaria.
(Nota clinica, 15/06/94)
È strano vedermi descritto in questi termini, ma è il linguaggio dei referti, il linguaggio della medicina clinica e delle istituzioni. Si riferisce al presente tanto quanto al futuro, ma il futuro è fosco. In questo linguaggio ogni considerazione positiva è cauta e provvisoria. Il linguaggio della clinica e delle istituzioni è il linguaggio della depressione, che ha poche aspettative e ancor meno speranze.
Avevo un rapporto irrisolto con queste proiezioni future. A tredici anni, il pensiero di arrivare a venti senza poter più camminare è tanto distante quanto fatalista. A che serviva andare in fisioterapia e fare gli esercizi se i miei muscoli sarebbero deperiti in ogni caso? Che cos’altro avrei potuto fare, oltre a presentarmi agli appuntamenti?
C’è chi pensa che le persone depresse siano più realiste degli altri, perché vedono il mondo così com’è.
Il mondo è pieno di banalità e meschinità, è così per tutti, ma per chi ha bisogno di aiuto è peggio. Il sistema assistenziale non è un dispositivo magico, ma un vecchio apparato raccogliticcio che si blocca spesso e volentieri. Non risponde al telefono, ma pubblica studi, cambia mansioni, non è in ufficio. Il sistema assistenziale ha grandi ambizioni, allunga i suoi braccini come antenne verso il cielo.
***
Ho cominciato a scrivere perché avevo bisogno di un linguaggio diverso da quello che mi era stato offerto all’inizio.
Nella sua lezione inaugurale al Collège de France, Michel Foucault parla della parola che esiste prima che noi tentiamo di afferrarla e guidarla, per poi fallire e scoprire che invece è lei che ci cattura e ci porta via.
Nel discorso che oggi devo tenere, e in quelli che ancora farò qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente.
(Michel Foucault)
È così, eppure non è così. Non voglio insinuarmi surrettiziamente nel discorso che terrò qui, al contrario voglio tirarlo fuori, sentire il sudore che mi cola mentre eseguo il compito. Non posso iniziare questo libro prima di trovare il suo linguaggio; d’altra parte, una volta trovato il linguaggio, il libro sarà già finito, il lavoro compiuto.
Scrivo tutto ciò sotto il peso delle carte, dei faldoni e dei raccoglitori che mi hanno dato i miei genitori. Sono conservati su uno scaffale alle mie spalle e generano un campo gravitazionale nel mio studio. Le cose che raccontano sono lontane come le stelle, ma loro sono i raggi che mi hanno raggiunto. Tento di capire quanto possono dirmi della mia infanzia, se tanto o poco, non come l’ho vissuta io, né come si è formata nei miei ricordi, ma com’è stata vista da un altro sguardo, uno sguardo esterno.
Quando io e Ida ci siamo conosciuti, non è di queste carte che abbiamo parlato. Non siamo certo entrati in intimità grazie a cartelle cliniche, reclami o documenti legali. Queste carte non dicono niente di cui mi possa fidare. Eppure, grazie alla loro durevolezza, sono più stabili e affidabili della mia memoria, fanno concorrenza agli album di foto che ho sugli scaffali di casa, alle immagini di una tipica infanzia negli anni Ottanta – se non fosse per la qualità atipica di molti scatti, dovuta alla particolare bravura di mio padre come fotografo, e per certi oggetti altrettanto atipici che vi ricorrono, come la sedia a rotelle.
Sono tentato di pensare che sto scrivendo di me stesso oltre i verbali clinici, avvicinandomi a un nucleo di esperienza autentico. Non è forse quello che vogliamo, che al centro ci sia la verità, poetica o biografica che sia?
Prendiamo a esempio la casa rossa in cui vivevo con i miei genitori e mia sorella. Era una villa svizzera di cui occupavamo un appartamento al primo piano. Sui vari pianerottoli c’erano dei casotti che in passato erano stati usati come latrine e venivano svuotati da appositi operatori notturni. Quando salivo le scale piano, zoppicando da un gradino all’altro e reggendomi alla ringhiera per trovare il punto in cui appoggiarmi, mi domandavo come funzionasse all’epoca. Quelli che usavano la latrina del piano terra non avevano paura che gli cadesse qualcosa in testa dalle latrine di sopra?
Un altro mistero era il furgone parcheggiato nel giardino dei vicini dai liceali che dovevano festeggiare la maturità. Era dipinto di rosso e aveva una scritta bianca su un lato: come convincere uno dell’istituto tecnico a fare 100 giri intorno al furgone? la risposta sull’altro lato. Per quanto ci riflettessi, non riuscivo a capirne il senso. Ero un bambino così. E queste erano le domande su cui rimuginavo, i grandi misteri della mia vita prima di diventare più consapevole e acquisire una più forte concezione di chi ero.
***
Il sociologo Erving Goffman parla dello stigma, del «segno visibile screditante». Nell’antica Grecia, da cui ha origine il termine, lo stigma era un marchio impresso sulla pelle allo scopo di indicare ai bravi cittadini che l’individuo in questione non era un essere umano, ma uno schiavo fuggito, una proprietà smarrita, uno che non aveva posto nella polis, nella vita della città. Non parlate con il marchiato, non dovete averci niente a che fare. Il marchiato non ha diritto al rispetto. Come scrive Giorgio Agamben in Homo sacer, questo non è un essere umano, ma «vita nuda», indifesa.
Uno stigma si vede sempre nel corpo. Segni di punture sugli avambracci, denti rovinati, capelli radi e sottili su una cute irritata, una camminata barcollante e incerta. Un corpo che non cammina bene e ha bisogno di una carrozzina per muoversi.
Ci sono tanti tipi di stigma, ma le reazioni che provocano sono simili, sembrano piccole rappresentazioni teatrali. Gli altri attori capiscono subito quale scena è iniziata e si allontanano, guardano dall’altra parte. Se avviene comunque un contatto visivo, è già una provocazione, un conflitto. Qualcuno ha oltrepassato un limite.
Lo stigma è contagioso, ha un’aura espansiva e flessibile. Non solo può interessare un corpo intero, ma anche diffondersi ad altri corpi. Può divorare se stesso dal di fuori, può formare una personalità, può determinare le condizioni – in se stessi e negli altri – che a loro volta formeranno la personalità. È solo questione di tempo.
Nella vita dell’individuo protetto, il punto in cui il circolo domestico non è più in grado di difenderlo varia a seconda delle classi sociali, del luogo di residenza e del tipo di stigma, ma in ogni caso, quando si presenta, provocherà un’esperienza morale.
(Erving Goffman)
Già, un’esperienza morale. Per me è arrivata tardi, dal momento che nel mio ambiente sociale la cerchia famigliare era così ampia da poterla facilmente confondere con la società o perfino con il mondo. Eppure l’esperienza morale è coincisa con la perdita della protezione, proprio come spiega Goffman. Ciò che ho provato è stata l’indignazione per aver perso certi privilegi, o meglio per aver scoperto che altri avevano privilegi fisici che a me erano e sarebbero sempre stati preclusi.
Questa scoperta è stata rinviata a lungo. Il primo giorno di scuola, mia madre mi ha accompagnato in classe e ha radunato tutti i bambini intorno a sé, per fare una piccola dimostrazione. Ha mostrato con quanta facilità potevo cadere, spiegando loro che non era carino spingermi. Infatti nessuno mi ha mai spinto, me lo ricordo bene, né alla scuola elementare né alla scuola media. È stato un altro tipo di esperienza morale, anche se ci ho messo anni per arrivare ad apprezzarla. Prima ho dovuto incontrare qualcuno che era stato bullizzato, dato che a me non è mai successo. Mi sentivo al sicuro tra gli altri bambini. La mia cerchia era ampia.
***
Dai primi tempi:
Il ragazzo mostra...