Giglioli | Critica della vittima | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 132 Seiten

Reihe: Figure

Giglioli Critica della vittima


1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-7452-509-6
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 132 Seiten

Reihe: Figure

ISBN: 978-88-7452-509-6
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Dalla politica al costume, dalla storia alla letteratura, dal diritto alla psicologia, Giglioli analizza la sintomatologia della vittima contemporanea: 'l'eroe del nostro tempo'. Tra le sue manifestazioni, la celebrazione ossessiva della memoria, il credo umanitario che mantiene 'inermi i disarmati' e 'lascia intatti gli arsenali dei forti', l'imperativo capitalista del diritto al benessere che si rovescia in frustrazione e inadeguatezza, la mitologia contemporanea della 'cospirazione': in ogni caso, la responsabilità del male è altrove, fuori da noi. Che cosa significa quindi essere vittime e quali sono le implicazioni etiche del sentirsi tali? Qual è il significato di parole come 'innocenza', 'diritto inalienabile' o 'immunità'? L'autore indaga l'origine dell'ideologia della vittima e il consolidarsi odierno di una strategia della lamentazione che divide la società in rei e innocenti, vittime e carnefici.

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I


Tracciamo per prima cosa una sintomatologia del fenomeno, per poi cercare di rinvenirne se non l’origine l’avvio, con un’ipotesi sulle sue cause probabili, e di stilarne infine la critica propriamente detta: cosa promette e soprattutto cosa toglie, impedisce, rende impossibile; e perché; e cosa forse tornerebbe possibile a critica avvenuta. Le sue manifestazioni sono infinite da qualunque campo le si convochi, politica e cronaca, costume e letteratura, storia e filosofia, diritto e psicologia, e non ha senso prefiggersi alcuna pretesa di completezza: “Gli ingenui”, ha scritto una volta Marcel Proust,

pensano che le vaste dimensioni dei fenomeni sociali ci aiutino a penetrare piú a fondo nell’animo umano: dovrebbero, al contrario, rendersi conto che solo addentrandosi in una singola individualità avrebbero modo di capire quei fenomeni.

Commenteremo di scorcio un ristretto numero di esempi, scommettendo sul valore di illuminazione reciproca del loro accostamento, si spera imprevisto ma non arbitrario. L’analogia, piú che l’analisi esaustiva, ci farà da bussola.

Remember me!


In primo luogo la memoria, l’ossessione della memoria. Il dovere, addirittura, della memoria, un termine che nel nostro spirito pubblico aspira a spodestare, come ha notato Enzo Traverso, il suo gemello/antagonista storia. Rispetto alla storia, la memoria è soggettiva, intima, vissuta, non negoziabile, autentica se non vera a prescindere: assoluta proprio perché relativa. Configura un rapporto col passato di tipo inevitabilmente proprietario: il mio, il nostro passato. La memoria non si scrive senza pronomi e aggettivi personali. Al suo centro, il testimone; e testimone per eccellenza è oggi chi reca inscritto in sé, nel corpo prima ancora che nella mente, il peso dei processi da cui è stato affetto: la vittima, dunque. Vera protagonista del passato è la soggettività sofferente, cui le istituzioni attribuiscono volentieri il crisma dell’eticità di Stato, istituendola a oggetto di celebrazione pubblica avente forza di legge: il “Giorno della Memoria” (27 gennaio, commemorazione delle vittime della Shoah); il “Giorno del Ricordo” (10 febbraio, in onore delle vittime delle foibe); la “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie” (21 marzo); il “Giorno della Memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice” (9 maggio, anniversario dell’omicidio di Aldo Moro).

Sinistro cortocircuito, che isola gli eventi dalla catena del loro accadere, li ipostatizza in valori invece di spiegarli come fatti, e in tal modo invalida anche il proposito di elevarli a monito perché ciò che è accaduto non accada di nuovo: non chi non ricorda, ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo. Passaggio illecito di testimone, che onora chi non può piú parlare occupando il suo silenzio con la grancassa delle retoriche commemorative. La memoria serve sempre ai vivi, il suo tempo vero è il presente; ma che pensare di un presente che addita valori soltanto tramite lutti? Conferendo loro, per di piú, un significato salvifico: se oggi siamo qui è grazie a voi.

Nella prosopopea della vittima opera surrettiziamente una sostituzione, una sovrapposizione tra tempi, punti di vista, soggetti dell’enunciato e dell’enunciazione: il “noi” che si cementa e si rafforza col dolore è e insieme non è – come nelle figure retoriche – lo stesso che ha patito un tempo. Chi parla da vittima, o per la vittima, è sempre nella situazione di chi parla al posto di qualcun altro. Ciò è ovvio quando qualcuno prende la parola in nome di vittime silenti. Ma paradossalmente vero è anche nel caso della vittima che parla per sé, in quanto la vittima è tale in primo luogo perché costretta a tacere, inascoltata, privata del potere del linguaggio. Parlare è la prima forma di agency. La vittima è l’in-fante. I nazisti lo sapevano: se lo racconterete, nessuno vi crederà. Ma un imperativo di ascolto stabilito per legge, oltre a trapiantare la logica giudiziaria al centro della vita pubblica (il processo è di per sé il solo luogo dove il diritto al discorso delle vittime è legittimamente obbligatorio, pur restando quello della vittima un discorso di parte), indica che si è passati su un altro piano. Salite alla tribuna, anche le vittime piú vere diventano rappresentanti di se stesse: siamo qui per il noi, per il voi che siamo stati, proprietari della vita di un altro.

La pietà ingiusta


Ma “siamo qui per voi” è anche l’enunciato matrice di tutta quella vasta galassia ideologica che Philippe Mesnard ha sostantivato nel termine “l’umanitario”. Sotto le spoglie di una morale universale, a basso costo e alta spendibilità perché non problematica, il credo umanitario è piuttosto una tecnica, un insieme di dispositivi che disciplinano il trattamento delle parole, delle immagini sapientemente articolate in icone e didascalie, delle reazioni emotive ingiunte agli spettatori: estetizzazione kitsch, sensazionalismo riduttivo, naturalizzazione vittimaria di intere popolazioni. Che abbia fornito la prima fonte di legittimità a quasi tutte le ultime guerre è un’evidenza, dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan all’Iraq, sovrapponendo all’immagine corrusca del guerriero le figure piú rassicuranti del poliziotto, del medico, del vivandiere.

Ma non è questo il suo scandalo, cosí come è altrettanto a basso costo l’indignazione reattiva che pure insorge spontanea quando, non appena da qualche parte al mondo si soffre, si fanno innanzi immancabili personaggi come BHL, al secolo Bernard-Henri Lévy, il piú esposto e servizievole di quei nouveaux philosophes che scoprirono e denunciarono – a fine anni ’70! – l’orrore del totalitarismo (si vede che Orwell era arrivato in ritardo nei Livres de Poche, commentò all’epoca Umberto Eco); e come lui molti altri. La mera denuncia della manipolazione non fa mai molta strada: se l’inquadramento ideologico può essere falso, la materia inquadrata è purtroppo in genere vera. Al mondo non si soffre per finta, e non saranno mai abbastanza i distinguo.

Ma c’è pietà e pietà. Piú significativo è infatti ciò che questo inquadramento opera sulle vittime stesse, stigmatizzandole in un’identità “che le spoglia del tutto o in parte”, scrive ancora Mesnard, “della loro biografia e dei loro riferimenti culturali, oppure ve le rinchiude”, privandole di soggettività nonché di ogni diritto che non sia quello al soccorso (con quali esiti pratici bisognerebbe poi vedere). Rimpicciolite a ciò che gli è stato fatto, hanno lacrime ma non hanno ragioni. La loro voce, come quella degli animali, serve soltanto a esprimere piacere e soprattutto dolore, non a deliberare in comune sul giusto e sull’ingiusto, prerogativa che secondo Aristotele distingue la specie umana dalle altre in quanto dotata di logos e di società. La loro verità è nello sguardo dell’altro, il clemente, il misericordioso. Medici e reporter senza frontiere, ONG, rockstar chi in auge e chi in disarmo, spesso in ambigua e nella migliore delle ipotesi ingenua collaborazione con potentati locali o con eserciti invasori, sono i soli davvero accreditati a parlare, gli unici, osserva Didier Fassin, “testimoni legittimi che parlano in nome di chi ha fatto esperienza di eventi traumatici”: “La prolissità del racconto umanitario aumenta parallelamente al silenzio dei sopravvissuti”.

In apparenza fraterno, il credo umanitario è un sentire sovrano che rende suddito tutto ciò che tocca: un campo di rifugiati, afferma candidamente il manager di un’organizzazione umanitaria, “non ha bisogno di democrazia per sopravvivere”. Sovranità senza politica, che inizierebbe invece laddove, piuttosto che con le vittime, si solidarizzasse per esempio con gli sfruttati, gli oppressi, gli esclusi con cui potremmo avere degli interessi (un logos, una praxis) in comune: tutti enunciati che implicano un giudizio, giusto o sbagliato non importa, e non una semplice scarica emotiva. Commozione a comando, sovrapposizione adialettica tra sentimento e interesse, il credo umanitario mantiene inermi i disarmati (che cos’altro è successo a Srebrenica?) e lascia intatti gli arsenali dei forti, in perfetta armonia tra risultati e intenzioni – quelle profonde, se non quelle vere. “Umano sei, non giusto”, replicava stizzito l’abate Parini a un tale che lo compativa, e gli consigliava di farsi servo.

Il secolo colpevole


Umanitario, e improntato allo stesso difetto di politica, è anche lo sguardo che il senso comune getta sul secolo da cui siamo usciti, quel Novecento che ha vissuto “la politica come destino”, ed è oggi dipinto invece come un mattatoio, una strage indiscriminata, un bagno di sangue senza fine. Non è stato, il Novecento delle ideologie e dei conflitti, il tempo in cui piú si è ridotta la forbice tra chi ha e chi non ha, chi può e chi non può, chi sa e chi non sa. Non è stato il secolo dell’istruzione obbligatoria, del suffragio universale, del voto alle donne, dei diritti civili e sociali. Presa di coscienza, presa di parola, scelte, alternative drammatiche, errori, anche (ma può sbagliare solo chi è libero), e soprattutto speranze: nulla di tutto ciò. Piuttosto illusioni, miraggi, accecamento. Vero era invece solo il sangue versato, e il dolore inutile delle vittime.

Di qui il proliferare di libri neri: del comunismo, ovviamente; ma poi, per ripicca, del capitalismo; e di seguito, a cascata, della religione, del Vaticano, della psicoanalisi, della droga, della Rai, del calcio, del satanismo, della famiglia, dell’alta velocità – tutte cose che non...



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