E-Book, Italienisch, 229 Seiten
Reihe: Cronache
Gallini Incidenti di percorso
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7452-615-4
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 229 Seiten
Reihe: Cronache
ISBN: 978-88-7452-615-4
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Che cosa accade quando una donna che ha viaggiato tutta la vita per raccogliere testimonianze e studiare comportamenti di persone e popoli, si trova costretta a un letto d'ospedale? La donna, una grande antropologa, scopre che l'abitudine al viaggio e allo studio è piú forte del dolore, degli impedimenti fisici, delle cure amorevoli dei parenti e degli amici, dell'ossessione dei sani per l'igiene dei malati... cosí che la geografia da esplorare è proprio il corpo con le sue nuove abitudini, le lacune della memoria, gli intoppi del futuro e, non ultimo, l'orizzonte della dipendenza. Dopo aver indagato madonne e veggenti, apocalissi, miracoli e sonnambule, in Incidenti di percorso utilizzando gli strumenti dell'antropologia Clara Gallini viaggia, accompagnata dalla fida badante Abilia, nel proprio corpo malato, riportando aneddoti, oggetti sacri e profani e soprattutto ipotesi, con la curiosità e l'allegria che sempre si accompagnano alle scoperte. Un libro potente, esatto e scanzonato sulla malattia del nostro tempo: la paura di invecchiare.
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Igienici oggetti d’amore
Sono stata varie volte sotto i ferri (per gli occhi, l’appendicite, il culo, le “parti intime”, il ginocchio…), ma, rispetto al passato, mai come questa volta la cosa sarebbe stata piú rilevante. Concerneva il cervello e comportava quindi l’apertura della testa. Non sapevo che la storia non sarebbe finita lí, destinata a continuare per anni, forse per quelli che mi restano ancora da vivere. Con i successivi interventi, via via è andata scemando anche una memoria che, all’inizio, è stata vivacissima e puntuale, come potranno vedere i lettori, constatando la precisa minuzia dei primi racconti. Quello che ho scritto ho potuto farlo quando ancora gli eventi stavano lí disponibili al ricordo, e a essi mi fermerò, anche perché non ne ho piú altri da ricordare: ora li avrei dimenticati, eventi e scrittura. Ora è come fossi svuotata. Rileggermi è stata una scoperta!
Da quando lasciai Cagliari, è passato un buon numero di decenni. Ora sto sempre nella Capitale, nella nuova condizione di “malata”. Malata e anche “vecchia”, termine che preferisco ancora al nuovo eufemismo di “anziana”, come ho già detto. I due termini – “malata” e “vecchia” – indicano entrambi non solo uno stato, ma anche uno statuto: un ruolo, insomma, che non sono io soltanto a conferirmi, ma anche e soprattutto gli altri, nelle loro diverse posizioni sociali, di parente, medico, infermiere ecc.
E di entrambi, condizione e statuto, cercherò di parlare, cominciando una riflessione sulla quale solo di recente sono stata in grado di esercitarmi. L’esperienza della malattia mi ha portato a ragionare sulle modalità attraverso le quali viene costruito il personaggio del “paziente” e sull’importante ruolo che in tale costruzione è giocato dalla clinica, come centro di pratiche e di discorsi che non sono solo “medici” ma anche e soprattutto sociali. Il linguaggio antropologico mi farà da guida in questo nuovo percorso, portandomi anche a riflessioni che non avrei fatto prima, durante tutti i miei studi, cui pure devo molto.
Operata la prima volta, ho passato dieci giorni in clinica. Una clinica da ricchi – la clinica dei ricchi, dove sono nati figli di calciatori e di cantanti. Me lo diceva ogni tassista che mi portava fin là, quando facevo i “controlli”, e tutti conoscevano il posto. Una clinica da ricchi ti ospita subito, e un professore da ricchi ti promette prontissimo intervento, magari sai pure che la sua mano è arcinota a livello internazionale. Sono queste le ragioni che mi hanno spinta in direzioni altrimenti non percorse in tante occasioni passate. Una operazione al cervello non è cosa di poco conto e, se hai il denaro, lo spendi. L’equivalenza tra essere danaroso e buona riuscita medica non è sempre certa, ma mi dicevo che le probabilità erano maggiori di quelle di chi di denaro non ne dispone.
Ma non è dell’intervento che vorrei parlare. Il professore mi disse subito che l’operazione era riuscita e la convalescenza lunga. Ogni giorno si affacciava alla mia stanza, lui e l’, mi guardava in faccia, mi chiedeva di spalancare gli occhi, sorrideva e se ne andava commentando “tutto bene”. Dal contrasto tra fama e sorriso dedussi che coltivava la sublime arte dell’, e anche glielo dissi ben tre volte, senza ottenere mai risposta, se non un gesto di ossequioso riconoscimento.
Dopo l’intervento e nei due giorni successivi ero rimasta in una saletta a parte, detta di terapia intensiva. Qui, avevo sentito e visto varie cose. Sentii per radio la notizia che papa Ratzinger era in coma, e poi che era morto. Lo comunicai a tutti, varie volte e ad alta voce. La notizia, che poi avrei appreso come mia pura invenzione, apparteneva alla fase postoperatoria, che si accompagnò alle visioni di cui dirò piú avanti. Comatoso doveva essere il mio stato! Ma che c’entrasse papa Ratzinger era forse attribuibile al fatto che ritenevo il professore un ferventissimo cattolico tradizionalista! E quando mi svegliai dal sonno, ormai lesa in metà del volto, avrei anche farfugliato come prime parole: “Non sono Bossi!”, forse già avvertendo la presenza di una paralisi del facciale, magari simile alla sua, ma anche prendendo le buone distanze dal dei leghisti, però anche prudentemente tacendo sul resto del discorso che avrei potuto fare su di lui.
In scena erano entrate le infermiere, quelle della clinica, che a orario eseguivano ciascuna il compito di iniettarmi e di lavarmi. A loro si erano aggiunti una o uno dei nipoti venuti da Crema per assistermi in quelle difficili ore, generosamente lasciando casa e famiglia. Entrano anche gli oggetti: ed è di questi che dovremo parlare.
La stanza per ricchi era spaziosa – godeva anche di un grande balcone con vista –, aveva due letti, uno per il malato e l’altro per il suo accompagnatore. Sul tavolo, offriva i che ne illustravano le varie attività recettive e accanto un paio di pantofole, bianche e leggere, e un camice in cotone, tutto aperto nella parte posteriore. È un camice molto utile, perché ai medici serve per non toccarti evitando ogni contagio, e nello stesso tempo protegge il malato da ogni produzione “sporca”, che provenga dal corpo e dai suoi orifizi (il culo e la bocca, nel mio caso): per questo, saremo obbligati a indossarlo e ci verrà cambiato almeno ogni volta che mangeremo o metteremo altre lenzuola. Ma è anche un camice distintivo: non è bianco come quello dei medici o verde come quello degli infermieri-capo: è a disegnini azzurri su sfondo bianco. Subito avrei chiamato quel camicione “la divisa”. Il blu è il colore distintivo di quella clinica e che ritorna in ogni suo oggetto non medico, dai di cui ho detto alle tazze per il tè, ai piatti per il pranzo.
Mi volevano tutti bene, quelli che mi stavano vicino, offrendo tempo e una devozione che mai avrei immaginato. Ma lo stesso amore può essere gestito accarezzando invisibili poteri e dipendenze. Poteri e dipendenze che si specificano in vari modi, a seconda del ruolo di ciascuno dei due partner. Nel nostro caso, c’erano da una parte la paziente, dall’altra chi ne seguiva con estrema prudenza il corpo sofferente.
In questo quadro, avrei esercitato quella che nell’etnologia americana si chiama col nome di “osservazione partecipante” e che Ernesto de Martino mi aveva insegnato a praticare, mettendo sotto osservazione critica le mie stesse categorie giudicanti. E poi il piú nuovo concetto di “resistenza” – oggi oggetto di una critica da me non condivisa – avrebbe guidato tale osservazione.
Ben sapevo che anch’io ero coinvolta in quel rapporto per cui ci si trova unilateralmente a chiedere e ogni richiesta è legittimata dalle condizioni di chi sta soffrendo. Presto avrei però anche imparato – spesso a mie spese – che ci sono richieste che neppure il paziente può avanzare, perché illegittime. E avrei anche imparato che le risposte negative che ricevevo si fondavano su due argomenti: “lo abbiamo fatto per il tuo bene” era il primo, “si tratta di una questione di igiene” era il secondo, argomento a sua volta formulato attraverso le categorie oppositive di “sporco” e di “pulito”. Queste ultime categorie erano forse apprese da un lessico meno tecnico di quello del medico ed erano adottate sia dalle infermiere che dai parenti, dunque da strati sociali diversi ma uniti su una questione, di certo sottolineata dai medici a tutela del malato, ma diversamente gestite da chi cura e da chi è curato. Perché le concezioni di “sporco” e di “pulito” (Mary Douglas ) non sono da tutti in egual modo condivise, come non lo sono quella di “bene” né tantomeno quella di “igiene”. In mezzo ci sta, come posta in gioco, l’autonomia della persona, bene grande ma anche e soprattutto, per gli uni e per l’altra, tappa da raggiungere attraverso resistenze e confronti.
Vivo sola, come ormai molti, specie della mia età. Vivere soli comporta per me il lusso di aprire la porta di casa a chiunque vi bussi – da me è passato un intero mondo… – e comporta anche prendere piccole decisioni quotidiane, di ordine pratico, che concernono la persona fisica – l’abito, il cibo, le medicine… –; condivido la posizione di chi sostenne che tali comportamenti sono assieme duri e gradevoli, perché costringono il corpo a tenersi vivo e la persona a relazionarsi con gli altri, almeno nel quartiere. Lo ha detto e scritto anche il grande Monicelli, prima di scegliere lui la propria fine. Per molti le cose vanno esattamente al contrario: e il non aprire la porta agli estranei spesso si associa a forme di chiusura che sono assieme fisiche e sociali, volute e subite. In clinica e nel mese successivo a casa, provavo la grande difficoltà di salvaguardare appunto questa mia autonomia, svincolandola dalle seduzioni di una dipendenza che ritenevo inaccettabile e soprattutto inadatta a farmi uscire dalle condizioni in cui mi trovavo.
Facile, possibile, magari anche non voluta, era la riduzione a infante. Il letto, per esempio, può anche essere luogo di pericolo: per evitare che ne cadessi, il Professore stesso ci fece mettere le sbarre per la notte e mi disse – solennemente ma anche con un certo imbarazzo – che questa limitazione era fatta per proteggermi. Da tanta e inusitata solennità nell’enunciato del Professore (che palesemente si contrapponeva al suo abituale ) dedussi pure che la cosa era per lui importante, non solo per la mia incolumità ma pure per la sua responsabilità e per gli...




