Fofi / Faldini | Totò, l'uomo e la maschera | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 409 Seiten

Fofi / Faldini Totò, l'uomo e la maschera


1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-7521-842-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 409 Seiten

ISBN: 978-88-7521-842-3
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Questa storia parte da lontano, dal 15 febbraio del 1898, quando nel poverissimo rione Sanità Anna Clemente e Giuseppe - figlio del marchese de Curtis - danno alla luce il piccolo Antonio... Se il resoconto dell'uomo de Curtis è affidato alla voce narrante di Franca Faldini, suo ultimo amore, la più popolare descrizione della maschera Totò ce la racconta Goffredo Fofi, il critico che per primo ne ha saputo scoprire l'eccezionale genio creativo. Sotto i nostri occhi si sviluppa così un vero ritratto a tutto tondo, l'intera evoluzione del Totò sia cinematografico che teatrale: rivivono in queste pagine il meglio del teatro, degli sketch e delle farse del principe della risata, e al contempo le vicende di un'Italia in continua trasformazione, ricca di illusioni e contraddizioni. Il volume è arricchito da un repertorio di testimonianze e omaggi di grandi personaggi che hanno conosciuto e amato il principe de Curtis, da Eduardo a Fellini, da Pasolini a Fo.

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PERCHÉ TOTÒ


Uno


Con il successo di una casuale ripresa di a Milano, nella primavera del ’71, e di qualche filmetto nei quartieri popolari di Roma, scattò un imprevisto e fulmineo revival, che ebbe per il pubblico giovane, perlopiù studentesco, il sapore di una scoperta, e per quello meno giovane e più popolare il gusto della riscoperta di un attore geniale che si è amato per anni. Il revival fu inatteso anche perché giunto a soli quattro, cinque anni dalla morte dell’attore, e perché colpì e attirò soprattutto un pubblico giovane, restio al «film d’arte» ma attento a quelle poche esperienze di che rispettassero un minimo di regole spettacolari e politiche riconoscibili nel suo attuale (limitato, e anche superficiale) rapporto con la «cultura» – un pubblico che amava vedere e rivedere il cinema rivoluzionario sovietico, i comici, certo cinema americano e italiano dell’azione e dell’avventura, ma rifuggiva spesso da più ardui confronti.

Cosa scopriva in Totò questo pubblico nuovo? Perché se ne è innamorato, contrariamente ai padri intellettuali schizzinosi che hanno apprezzato, e non sempre, il Totò neorealista e non hanno visto che rarissimamente l’altro?

Quest’amore aveva del buono e del cattivo. I contenuti dei film di Totò, la sua stessa maschera, erano colti anche nei loro aspetti ambigui e retrogradi, nella carica di aggressività e di volgarità che il comico poneva alla base stessa della sua comicità, nella loro parte piccoloborghese. Ma se ci fosse stato solo questo, si sarebbe dovuto spiegare perché lo stesso pubblico si fosse allontanato dai comici in auge in quegli anni che, più attuali, avrebbero dovuto attrarli di più. La ragione non stava solo nella differenza di qualità artistica che divideva quegli attori da Totò, ma a nostro parere soprattutto in ciò che distingueva il mondo che stava alle spalle di questi diversi tipi di comici. Dietro Totò si ritrovava, in sintesi, la tradizione della maschera e la spinta vitale e anarcoide del sottoproletariato; dietro e Sordi Gassman Tognazzi Manfredi c’era il disagio o il compiacimento della piccola borghesia impiegatizia e commerciale e, quanto a gusti, la «commedia di costume» nella sua fase di decadimento o di trasformazione (quella che insisteva nella denuncia della corruzione di una società che rifiutava le riforme necessarie e rispondeva alle rivolte chiudendosi e incancrenendosi).

Del revival di Totò non c’era che da rallegrarsi. Ma proprio per questo ci sembrò necessario mettere i puntini sulle prima di esprimere un totale compiacimento o d’interpretare tutto e solo al positivo il nuovo amore. La comicità sottoproletaria sconfina, infatti, spesso e volentieri nel qualunquismo, e ha dei sostanziali punti di contatto con quella piccoloborghese. L’ideologia che essa esprime è il frutto di una disperata ansia di vita che nella lotta quotidiana si abbarbica ai modi di arrangiarsi con una generale sfiducia nei confronti di istituzioni tutte nemiche. E però la sua cultura è pronta a un certo sentimentalismo, spesso ipocrita, e alla genericità del giudizio egoista; con scarsa autonomia morale essa è influenzata dal familismo piccoloborghese e dai suoi miti, e dal suo stesso cinismo del «ccà nisciuno è fesso», da un individualismo che non sa riconoscere quel che ha in comune con i suoi simili. La solidarietà si restringe agli immediati parenti, e solo raramente esplode in violento rifiuto del contesto che opprime, ma senza strategie e obiettivi precisi. È preda di demagogie e di manipolazioni, e non vede più lontano dell’oggi. È amorale e asistematica. Ma contrariamente all’ideologia che esprimono i «valori» piccoloborghesi ha tuttavia una carica di distinzioni e di validissimi, e una tragedia reale in cui è presa, che ne fanno qualcosa di serio e di autentico, che sfugge alle manipolazioni borghesi o piccoloborghesi.

Scontento di tutto, sempre insoddisfatto, il piccoloborghese esprime la sua rivolta appoggiandosi ai forti, ricorrendo alle piccole meschinità e a una sistematica mediocrità. Si fa forte alle spalle dei potenti, ha criteri di giudizio elastici (l’ammirazione per il furbo, la disposizione alla viltà, la scelta del servilismo) che ammanta di «buon senso». Crede nella religione, nella famiglia, nello Stato ma non è disposto a giocar niente di serio della propria realtà su di essi. Non sa riconoscere gli altri, e capire che esistono altri modi di essere e di pensare. La sua scontentezza cronica e cinica (tutti vogliono fregarmi, vinca il più ladro purché dica di farlo per il mio bene) non sa mai tradursi in azione coerente in prima persona e in tentativo d’individuazione dei nemici reali. Egli è, infine, l’esponente dello strato sociale che più di ogni altro è incapace di valutare se stesso, e che più di ogni altro soccombe alle mitologie imposte dal sistema, e cioè ai discorsi degli onorevoli, alla tv, alla Chiesa, alla stampa...

Tra la disperata apatia e la disperata aggressività in cui oscilla il sottoproletario, capace di passioni e di slanci, e la meschinità piccoloborghese, c’è dunque una differenza notevole. Ma essi possono incontrarsi nello stesso carattere, nella stessa individuazione sociale, in situazioni dove la convivenza massiccia di queste due forze è presente e, pur senza raggiungere un’osmosi, s’imbriglia in un’apparente comunanza di modi di vedere e di pensare, anche se mai, in sostanza, di modi di essere concretamente. Anzi, in questa convivenza ideologica possono ritrovarsi anche strati proletari veri e propri e ondeggiare, in mancanza di un riconoscimento di sé che necessita di una qualche seria «rivoluzione culturale», tra l’istintualità della rivolta sottoproletaria e i cascami della morale piccoloborghese, già essa cascame della morale cattolico-borghese. In quell’impasto di esperienze di «sottosviluppo» che è stata ed è Napoli, questi atteggiamenti si sono trovati a coincidere, e la loro distinzione, non appoggiata da chiarificazioni di fondo raggiunte attraverso mutazioni che valorizzano il positivo delle esperienze di socialità, è stata fino a tempi recentissimi, ed è in parte tuttora, estremamente difficile da stabilire.

Sociologicamente, Totò è dunque a cavallo tra l’esperienza sottoproletaria e quella piccoloborghese, in una società in cui era fortissimo il tentativo di negare gli elementi di somiglianza da parte della seconda per distinguersi dall’insicurezza della prima. Ne derivavano due tipi diversi di aggressività: quella di chi da una condizione di precarietà assoluta tende alla soddisfazione dei bisogni primari, e di conseguenza risponde solo alla morale del bisogno; e quella di chi sente perennemente minacciata la sua minimale sicurezza da forze oscure e generiche, non mai precisamente definite (lo Stato, chi comanda, i «caporali», gli «altri») e si rifà sulla plebe che lo circonda, su coloro nel novero dei quali potrebbe continuamente ricadere, e tanto più sente ancora vicina la plebe da cui proviene, tanto più la nega.

In un immaginario dialogo con la maschera Totò, Antonio de Curtis le fa dire: «“Vedrai che il pubblico alla fine ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere”. Disse proprio il verbo patire, quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire , esperienze che servono alla legge del contrasto comico. In fondo senza la miseria e le disgrazie non esisterebbe Pulcinella» (il corsivo è nostro). Ma altrove spiega che «quella maschera con la bombetta e i calzoni larghi» è «la rappresentazione comica di un certo piccoloborghese italiano, timido, aggressivo, pauroso e alla fine ridicolo». Due poli, insomma, che s’intrecciano perennemente nella stessa coscienza dell’attore, e che trovano il loro sapore, e un così lungo risultato di affetto del pubblico, proprio in quest’intreccio di frustrazioni subite e comuni, e di rivendicazioni e vendette dispettose e vigliacche; con la differenza che mentre l’aggressività del Totò Pulcinella affamato è in qualche modo esaltata dal pubblico popolare come propria, quella del Totò ridicolo e piccoloborghese è vissuta come identificazione ambigua, vendicativa di tutti e cattiva, ma insieme positiva e negativa, perché il piccoloborghese vi è anche caricaturato nei suoi aspetti deteriori.

Due


In Totò vince la maschera e resta in second’ordine il personaggio, irriducibile comunque a uno schema convenzionale, anche quando divenuto ricco di influenze non ovvie. Il punto di partenza è la maschera. I legami immediati sono quelli con il modello offerto a Totò da Gustavo De Marco (che aveva avuto come uno dei suoi maestri lo stesso Fregoli), uomo «svitabile», fantasista, macchiettista. Ma, dietro, alle spalle di De Marco, c’è qualcosa di più antico e più forte, c’è tutta un’immensa tradizione che è quella di Pulcinella (influenza chiave anche se rarissimamente Totò ha rivestito i suoi abiti bianchi e la sua maschera nera), che, giù giù, è possibile far risalire sino ai fescennini e alle atellane della contadina, passando per Plauto e Aristofane. Della farsa improvvisata, dei lazzi e delle smorfie da aia estiva e da piazza di mercato, la tradizione napoletana ha conservato a lungo più che il ricordo. La vivacità espressiva, il gusto dello spettacolo erano lì a ricordarci, nei...



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