E-Book, Italienisch, 231 Seiten
Reihe: Minimum classics
Fitzgerald L'amore dell'ultimo milionario
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-3389-378-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 231 Seiten
Reihe: Minimum classics
ISBN: 978-88-3389-378-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Ultimo romanzo di Fitzgerald, rimasto incompiuto e tradotto per il cinema da Elia Kazan, L'amore dell'ultimo milionario è la storia di un produttore cinematografico di Hollywood, Monroe Stahr (interpretato nel film da Robert De Niro), figura dichiaratamente ispirata a quella di Irving Thalberg, golden boy della mgm dal 1924 al 1936. Stahr è un self-made man autoritario ma illuminato, geniale nelle intuizioni che guidano il suo lavoro. Ha la patina dell'eroe romantico, non tanto per il modo in cui sopporta il peso delle responsabilità, quanto perché una malattia fatale allunga su di lui l'ombra della tragedia. Vedovo della diva Minna Davis, s'innamora di una donna umile e sensuale, mentre sullo sfondo della depressione economica combatte una battaglia cruenta per il controllo della casa di produzione in cui lavora. Già pubblicato con il titolo Gli ultimi fuochi, in una versione infedele e rabberciata, L'amore dell'ultimo milionario viene ora riproposto con la cura filologica e il rigore che spettano di diritto a un maestro del romanzo del Novecento. Monroe Stahr emerge da queste pagine incompiute come l'ultima incarnazione dell'eroe fitzgeraldiano, dopo Jay Gatsby e Dick Diver. Nella malattia che lo opprime, ma che non gli impedisce di aprirsi a un nuovo amore e di lottare per la propria arte, non è peraltro difficile intravedere un autoritratto commovente e autunnale dello stesso scrittore, e degli ultimi, sofferti anni della sua breve vita.
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Introduzione
Sugli anni hollywoodiani di Francis Scott Fitzgerald si è accumulata negli anni una bibliografia enorme, che ha soprattutto affrontato il tema così importante, affermatosi nel corso del Novecento principalmente attraverso il cinema, della commercializzazione o sostituzione della cultura popolare diventata , controllata e gestita dall’alto. Ricordiamo l’attenzione dei Benjamin e dei Kracauer per la sua presa popolare, la condanna senza remissione di Adorno e dei suoi seguaci, il vario recupero a fini altri da parte delle avanguardie (soprattutto russe, tedesche, francesi), il fascino esercitato su artisti d’ogni campo per la diffusione dei propri prodotti, e ovviamente la possibilità di vender bene, alla lettera, il proprio ingegno e le proprie idee – fama e denaro, ieri come oggi, quali faustiane tentazioni che solo pochi artisti hanno saputo controllare o dominare. Anche Fitzgerald finì per cedere e passare dalla letteratura al cinema (da un’industria a un’altra, in definitiva, anche se la prima gli assicurava una maggiore libertà), afflitto da problemi personali acuiti da un passaggio d’epoca che lo vide, dopo il travolgente successo dei ruggenti anni Venti, messo al margine dalla mutata condizione sociale del paese (il crollo di Wall Street e delle mitologie capitaliste, la «grande crisi», la «Depressione») e costretto a «mettersi in fila tra i venditori» nella «città del cinema», come, qualche anno dopo, toccò anche a Brecht di fare.
Il più «interno» dei ritratti di Fitzgerald nei suoi anni californiani è senza dubbio quello lasciato da Budd Schulberg nel romanzo Schulberg era figlio di un produttore cinematografico ma anche un esplosivo rappresentante del nuovo realismo «impegnato», prodotto dalla crisi del ’29, membro di una generazione sconvolta dal crollo del capitalismo che riteneva inarrestabile, e fidente nell’inevitabilità del socialismo. Ma è stato anche autore di un ritratto non troppo «romanzato» del produttore cinematografico che Fitzgerald ha rappresentato in , Irving Thalberg. Uscirono nello stesso anno, 1941, nel pieno della guerra grazie alla quale gli Usa riconquistarono il primato economico salvando pro tempore il capitalismo: e, postumo, che si chiamava così prima che ne venisse stabilita un’edizione filologica da Matthew Bruccoli con il primitivo titolo di
Anche Sheilah Graham, giornalista, ultima compagna dello scrittore, scrisse un libro (prevedibile) su quegli anni e sulla decadenza e fine di Fitzgerald, che venne tradotto in un film (convenzionale) interpretato da Gregory Peck e da Deborah Kerr. E da fu finalmente tratto nel 1976 un film fedele e partecipe di Elia Kazan, che il meglio e il peggio di Hollywood conosceva assai bene e che aveva avuto Schulberg tra i suoi amici e collaboratori più assidui e sapeva di Fitzgerald l’essenziale e il possibile, se pur non lo aveva conosciuto o intravisto. Lo assistette nell’impresa (a cui in fin dei conti non fu di giovamento) Harold Pinter, il cui stile e la cui ispirazione erano troppo diversi da quelli di Kazan. Tre generazioni, infine – Fitzgerald, Kazan/Schulberg, Pinter – fortemente segnate dal loro tempo ma in sostanza inconciliabili. I rappresentanti delle prime due erano dei sopravvissuti ai quali, al contrario dell’eroe o antieroe di Monroe Stahr/Irving Thalberg, non accadde di morire nel momento del trionfo, anche se la «corsa», di Stahr (e probabilmente di Thalberg) aveva in sé, come ha capito e narrato Fitzgerald, i germi della disfatta. Perché i tempi mutano sempre, e perché nel mondo del capitale la lotta per la supremazia non ha tregua e vecchie e nuove cavallette cercano ossessivamente di divorare quelle sotto le cui ali sono cresciute. L’«anarchia del capitale» di cui parlò un certo Marx.
Leggemmo per la prima volta in Italia (non ricordo con che titolo) nella traduzione di Paolo Gobetti sulla rivista , diretta da Guido Aristarco, nemico di Hollywood e amico del Pci. La mia prima lettura del fu quella della prima traduzione italiana, pescata su una bancarella, che comparve nella collana mondadoriana da edicola dei Romanzi della Palma, narrativa destinata a un pubblico popolare e femminile. E sì, Fitzgerald, accanito perfezionista che sapeva quel che voleva, non disprezzava affatto il pubblico della mass culture che lo aveva arricchito e reso famoso, ma aveva della scrittura un tale rispetto da limare i suoi romanzi con continue revisioni censure aggiunte, perché tutto doveva essere chiaro e però denso, anzi chiarissimo e densissimo, perché il rispetto della propria arte comportava per lui anche il rispetto dell’arte della comunicazione. L’equilibrio, anzi l’armonia tra l’esigenza di una personale visione e una personale misura, che fossero inconsciamente o consciamente percepibili dai suoi lettori, ci sembrano oggi qualcosa di miracoloso, rispetto alla dominante letteratura del nuovo secolo, e rileggere Fitzgerald dovrebbe costituire per ogni aspirante scrittore una lezione di professionalità che nasce, senza sovrapporglisi, dal rispetto di una vocazione che è anche un mestiere.
Fitzgerald non era un grande sceneggiatore cinematografico perché restava troppo scrittore. E sono particolarmente notevoli le considerazioni che su questa sua attività ha fatto in alcune interviste il e sceneggiatore Joseph L. Mankiewicz che lo ebbe alla Metro-Goldwyn-Mayer tra i suoi collaboratori e/o dipendenti. Le loro differenze e divergenze fanno pensare a quelle di Bertolt Brecht con Fritz Lang, maestro di cinema come l’altro lo era di teatro, al tempo di («questo il pubblico lo accetta, ma questo no», ribatteva Lang alle proposte di Brecht facendolo imbufalire) ma certamente non era un denigratore del cinema come forma d’espressione degna proprio in ragione della vastità del suo pubblico e delle potenzialità di farlo maturare nel mentre lo si divertiva, lo si consolava. È infatti l’ambiguità del suo sguardo su Hollywood, di scrittore che ha qualcosa da dare a Hollywood ma che accetta, in cambio del benessere, di averne anche molto da impararne – vedi la geniale «lezione» di Stahr agli scrittori che ha assunto – a far sì che egli capisca così bene Monroe Stahr nella sua funzione pubblica come nella sua intima insoddisfazione. Produrre abilissimamente sogni non basta a renderlo felice, e la sua infelicità ha radici esistenziali che il mondo dei sogni mistifica e addormenta: la morte della donna amata, prima ancora che la spietata rivalità dei suoi pari. In qualche modo lo scrittore partecipa della solitudine del personaggio, ed è questo, indubbiamente, a fare di e del protagonista Monroe Stahr un’opera e un personaggio all’altezza del o di con il suo Dick Diver: Stahr e Gatsby meno autobiografici di Diver.
Su Hollywood è fiorita una letteratura che ha dato un altro capolavoro di segno opposto a questo, (1939) di Nathanael West, un grande scrittore meno immediato e realistico di Schulberg e segnato dalle esperienze e teorie europee degli anni Venti e Trenta, il più vicino, si potrebbe dire, alle avanguardie come ad Adorno, e interessato più agli effetti del mito di Hollywood – dell’industria della cultura di massa – sugli illusi che vi accorrono, che non ai suoi artefici. Ed è bene ricordare anche (1935) di Horace McCoy, (1938) di John O’Hara e il più tardo e, se così si può dire, moralistico e avvocatesco (1955, in pieno maccartismo) di Norman Mailer. West morì a 37 anni un giorno dopo Fitzgerald, che ne aveva solo 44 ma che sembra a noi e sembrava molto più vecchio di quanto non fosse: appunto un sopravvissuto.
Fitzgerald fu tra i pochi scrittori finiti nella «fabbrica di salsicce» hollywoodiana (così Stroheim quando ne venne respinto) a capire che anche di sogni, e di immagini stereotipe, e tuttavia su base consciamente o inconsciamente archetipica, si vive, e vivevano le masse e plebi del Novecento, sia perché «nei sogni cominciano le responsabilità», come certifica un gran bel racconto sul cinema di Delmore Schwartz, sia perché è tramite il cinema (si pensi al fenomeno Charlot, l’unico artista nella storia universale ad avere avuto, anche grazie al muto, un pubblico così immenso) che le masse di quel secolo hanno potuto conoscere il mondo.
C’è stata un’epoca in cui la cultura di massa rubava alla cultura popolare i suoi modelli e le sue strutture narrative riproponendoglieli con l’aggiunta di una visione d’autore, e in qualche modo di una pedagogia d’autore. Era questa, per intenderci, l’arte in cui eccelsero i Ford e i Monicelli, i Renoir e i Kurosawa, e ancora i Kazan e i Truffaut, e tanti altri come loro. E di questo processo, pur venendo da ambizioni di alta cultura e non di cultura di massa, Fitzgerald dimostra in di avere perfettamente compreso la grandezza, o meglio, l’importanza, pur in una sorta di naturale impossibilità di adeguarvisi perché troppo forte era nel suo intimo la distanza tra arte e mercato. I detrattori del cinema hanno facilmente dimenticato che per...




