Ferrari | Un tango per il duce | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 288 Seiten

Ferrari Un tango per il duce


1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-6243-396-9
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 288 Seiten

ISBN: 978-88-6243-396-9
Verlag: Voland
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La guerra è finita e Benito Mussolini viene giustiziato. Ma il corpo appeso a piazzale Loreto è in realtà quello del sosia ufficiale del dittatore, catturato dai partigiani mentre il vero duce, grazie alla 'via dei topi' (ratline), attraversa l'Atlantico alla volta dell'Argentina. Qui inizia la seconda vita di Mussolini che si stabilisce in uno sperduto paesino della pampa denominato Romagna Argentina, abitato da una comunità di immigrati romagnoli ai quali è giunta solo un'eco lontana del conflitto mondiale. Accolto con curiosità ma senza riverenze, il duce, con la sua retorica tronfia e la forte personalità, riesce a radunare un piccolo esercito di scapestrati pronti a seguirlo in quella che dovrebbe essere la riconquista di Roma.

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I coltivatori di Romagna Argentina partivano la mattina presto per i campi e rientravano al comparire del buio, mentre lamine di luce ancora splendevano tra le vette andine come bagliori di fiamma. Alle prime assemblee i nuovi avanguardisti parteciparono con attenzione, entusiasmo e disciplina militaresca, nonostante la fatica del lavoro. Ma, avanti a ogni cosa, anche a Romagna Argentina si parlava di calcio e dell’imbattibile nazionale di Pozzo. Il richiamo di nomi come Meazza, Monzeglio, Piola, Combi e Rosetta provocava un sussulto d’orgoglio in quel mondo alla FINE DEL MONDO. “Se non fossero degli ingrati Monti, Cesarini e Orsi potrebbero darmi una mano! Li ho portati sull’Olimpo del calcio, io, quegli oriundi rimpatriati!” blaterava tra sé il duce in cerca di un sollievo al mal di schiena.

Una quotidiana riunione si svolgeva nella sala dell’estancia: Mussolini imboniva il pubblico e lanciava istrionici proclami di rivincita. Mancavano l’autista Zanetti e la maestra Soffici, irremovibili sulle loro posizioni antifasciste.

“È una testarda toscanaccia, difficile da convincere,” usava giustificarla Bottazzi “quanto a Zanetti, tutti conoscono i suoi rancori personali.”

Qualche giovane alfabetizzato prendeva appunti sul quaderno a righe. I cacciatori erano pronti a passare all’azione ma si chiedevano come avrebbero fabbricato tante munizioni. I più timorosi si facevano avanti per diventare responsabili del servizio posta, del vettovagliamento e dell’allestimento dei campi. Dorando Menzocchi propose di comporre un inno per l’incredibile avventura che presto avrebbero vissuto. Gina Belloni lanciò la campagna per cucire tende e tovaglie. Curzio Agresti ripeteva dantescamente: “Romagna tua non è, e non fu mai,/ sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni.” Aurelio Bottazzi si proponeva di redigere un nuovo regolamento militare. Ma i più, contadini di qua e di là dell’oceano, aborrivano i viaggi in nave rammentando quanto fosse stata dolorosa e stomachevole la traversata atlantica.

L’addetto alle stalle, il giovane Odoacre Balzani, si impuntò esattamente come i suoi muli, e disse che non consigliava di trasbordare bestie da soma sulle imbarcazioni che avrebbero compiuto il viaggio transoceanico. Forse era meglio acquistarne in Spagna o in Sicilia, al momento dello sbarco. Altri mostravano qualche perplessità sull’effettivo potenziale bellico, ma Mussolini zittiva tutti rammentando le rapide conquiste imperiali, il facile attacco alla Francia, la risoluta invasione dell’Albania. Per questo proponeva la costituzione di un corpo di superarditi votati alla morte e alla gloria, pronti a mordere il fango e cavalcare le onde.

Tuttavia, scelti i componenti del battaglione, oltre a studiare le carte militari e le fotografie aeree, le tecniche di attacco e di posizionamento di mitragliatrici inesistenti, si arrivò solo a qualche ronda notturna.

Non era raro sentire una donna chiamare il proprio marito e poi entrare in sala, dargli uno scapaccione e tirarlo fuori da là. In molti finivano per appisolarsi o addirittura russare nel corso dei lunghi interventi del duce, soprattutto durante le sue silenziose pose istrioniche. Se si accorgeva che l’attenzione veniva meno, allora il capo del fascismo inneggiava a ferree battaglie e conflitti incipienti, battendo i pugni sul tavolo.

I temi delle conferenze erano “La nuova marcia su Roma”, “I miti della romanità”, “Dove la Francia finisce e dove inizia l’Italia”, “Fiume italiana”, “Traditori della patria”. Tutte si chiudevano con un incitamento alla truppa d’oltreoceano a riprendere la strada per la Città eterna.

Un giorno anche Bottazzi si addormentò al tavolo della presidenza e si beccò uno scappellotto sulla testa dal duce in persona: “Svegliati Bottazzi, passo romano!” ordinò mettendolo in piedi di peso.

E lui si sottopose alla prova, redarguito dall’uomo di Predappio: “Attento, devi alzare i piedi, è un passo che i sedentari, i panciuti, i deficienti e le mezze cartucce non potranno mai fare!”

Allora el Loco affiancò Bottazzi e lo superò come se fosse impegnato in una volata.

L’unico a porre domande, con una certa insistenza, era Curzio Agresti con frasi erudite e lente, mischiando italiano, latino, romagnolo e toscano senza che nessuno ci capisse qualcosa. E, infine, alzando le braccia, recitava: “Poeta, io ti richeggio,/ per quello Dio che tu non conoscesti,/ acciò ch’io fugga questo male e peggio,/ che tu mi meni là dov’or dicesti,/ sì ch’io veggia la porta di san Pietro/e color cui tu fai cotanto mesti.”

Le esercitazioni pratiche della domenica mattina erano dirette da Ampelio Tiberti detto Puleta, già portiere del Como, passato alle glorie sportive per il volo più lungo nella storia del calcio. A una punizione beffarda di un attaccante del Calcio Lecco, in un indimenticabile derby del lago, rispose con una plastica traiettoria che terminò nella circostante pista ciclistica in cemento. Tiberti batté la testa e restò in coma per tre mesi, due giorni e sei ore. Quando si risvegliò si trovava a Buenos Aires dove il padre aveva aperto un ufficio di export di carne da lui successivamente rilevato. Finito sul lastrico, per via delle pesanti imposizioni fiscali sull’esportazione, Tiberti junior aveva scelto la via del sud e si era rifugiato a Romagna Argentina dove si occupava del granaio. Alla richiesta di mettere le proprie doti atletiche al servizio del gruppo, pur non avendo alcuna ideologia, si sentì lusingato.

“Senti Tiberti,” lo invogliò il duce “lo sport serve a riflettere, elevare le masse, rigenerare la salute fisica e mentale del popolo. Tu sei la persona adatta per questo nobile compito, ma ricorda: educare la massa è il nostro unico obiettivo, non l’individuo.”

E durante gli allenamenti, Tiberti ripeteva ad alta voce: “La massa, ragazzi, la massa è il nostro unico obiettivo!”

Gli altri, faticando e sbuffando, non capivano a quale massa si riferisse e, di domenica in domenica, le lezioni di addestramento si rivelarono sempre più fallimentari: gli sfaccendati sbeffeggiavano quanti si mettevano in camicia nera per sfilare in parata gridando “Alalà” e innalzare labari, tentare impossibili salti nel fuoco, sfidarsi a manganellate e pugnalate davanti al duce che si era fatto costruire apposta un piccolo palco sotto i platani dell’aia.

Gerolamo Mughetti aveva appreso l’esercizio più difficile: saliva sul sedile della Guzzi Airone del 1940 e si gettava da una pedana in un cerchio di fuoco, riuscendo a ricadere indenne tra gli applausi delle donne e l’invidia degli uomini.

Intanto, gli anziani, incuranti del chiasso, continuavano a giocare a carte, le donne a preparare da mangiare e i più religiosi si sottoponevano a una trasferta lunghissima per andare a messa a Generale Jacopetti. I bambini invece, vestiti da balilla, finivano con lo sfidarsi in pericolose gare di fionda, sordi ai richiami di Bottazzi e inseguiti da Tiberti.

Solo alla corsa sui cavalli si aveva una buona partecipazione. Si partiva e non si tornava più, ci si nascondeva a fumare una sigaretta, a fare due chiacchiere, a pomiciare con la morosa, a guardare da un rialzo di terra l’infinita pianura che ubriacava la vista anche di coloro che ancora vagheggiavano il ritorno in Italia. Il duce attendeva sulla linea d’arrivo con la bandiera in mano, spazientito, sino a poco prima dell’ora di pranzo quando, salendo sull’impalcatura, chiamava la gente ad ascoltarlo: “Oh, zent, venite qui che devo fare il sermone come il papa a San Pietro!”

Qualche volontario, tirato a sorte la sera prima, si metteva sotto il palco ad ascoltare i suoi proclami e applaudirlo: “Noi siamo” diceva “lo spirito d’Italia, noi lottiamo contro i formiconi, i fannulloni, i politicanti imbecilli e inetti, gli schiavi di Albione e i maggiordomi dei neri d’America! Io vi dico: o Roma o morte, ormai si tratta di giorni, forse di ore. C’è un solo grido che risuona nel mondo, tra oceani e vallate, villaggi e città: ‘Viva l’Italia, oggi e domani, in pace e in guerra!’ Ma ora andiamo a mangiare, ció!”

Mentre Mussolini scendeva dal traballante tavolato, attirato dall’odore dei manicaretti della signora Olimpia, ricomparivano gli arditi di Romagna Argentina montando irrequieti cavalli, terminavano le partite a carte dei vecchi romagnoli e i bambini smettevano di picchiarsi tra loro. Fili di paglia secca venivano sospinti dal vento nella piazza che si faceva silenziosa, assorta nelle ore del nulla, attraversata solo da cani in attesa dei resti del pranzo, svogliati armadilli e da Ernesto el Loco che credeva di inseguire Gino Bartali e Sylvère Maes.

Al calore del camino, per il duce tutto si stemperava: la fame, la sete ma anche l’orgoglio, la voglia di nuove imprese. Sentendosi un po’ a casa, si quietava la nostalgia di ciò che non c’era e non ci sarebbe più stato. Soprattutto mangiando un bel piatto di pasta casereccia, pollo e coniglio, insalata, purè, biscotti con il dulce de leche. Nell’attesa del caffè, Mussolini rievocava il mormorio della truppa prima di un assalto decisivo o la strategia di un assedio, mentre Olimpia sparecchiava, Tito Bottazzi si appisolava e i ragazzi guardavano con qualche sospiro quella che era stata, sino all’arrivo dell’ospite illustre, la loro bella camera da letto.

“Devo uscire dall’ombra, ragazzo, gettare la maschera, raccontare la verità sulla mia rocambolesca fuga. Il cuore batte ancora per le sorti dell’Italia e del mondo. Il mio volere è il volere del popolo italiano e a Roma mi...



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