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E-Book

E-Book, Italienisch, 303 Seiten

Febos Girlhood


1. Auflage 2023
ISBN: 979-12-5480-028-7
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 303 Seiten

ISBN: 979-12-5480-028-7
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Questo libro è un mosaico di storie sulle forze e le dinamiche che, sin dalle prime fasi della vita, plasmano le ragazze e ne definiscono il ruolo all'interno della società: 'Tutto ciò che so sul sesso', dice Melissa Febos, 'me l'hanno insegnato il capitalismo e il patriarcato'. Girlhood indaga e pone in discussione le narrazioni che vengono imposte alle donne su cosa significa essere donne, le regole cui il corpo femminile si ritrova - più o meno consapevolmente - a sottostare, il linguaggio che definisce la sottomissione. Indaga e pone in discussione le forme di abuso non solo fisico ma anche e soprattutto emotivo, le abitudini che ingabbiano la figura femminile e i meccanismi di difesa che le donne mettono in atto nel tentativo di conquistare e soddisfare l'amore altrui. Attraverso un percorso di recupero e rielaborazione della propria storia e il confronto con esperienze raccontate da altre donne, Febos propone una lettura critica dei dispositivi che convalidano e rafforzano la cultura patriarcale e mostra come liberarsene. Bisogna immaginare con uno sguardo nuovo le relazioni e fare spazio alla rabbia, al dolore, al potere e al piacere - a tutte quelle cose a cui le donne sono state abituate a rinunciare. Girlhood, come ha scritto Lidia Yuknavitch, è 'una guida pazzesca alla resilienza e al recupero di se stesse, una visione mozzafiato di chi possiamo essere nonostante ciò che ci è stato insegnato'.

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Cavità


“Cosa ti piace?” chiedevano gli uomini. “Lo spitting,” rispondevo io. Anche solo articolare quella parola sembrava la peggiore delle volgarità e mi ero addestrata a non trasalire mai nel pronunciarla, né distogliere lo sguardo o compensare con un sorriso. Nella luce fioca del dungeon ho imparato a frenare il mio istinto all’apologia. Ho imparato a reggere uno sguardo. Ho imparato il piacere della crudeltà.

Ovviamente non si trattava di crudeltà vera. I miei clienti sborsavano settantacinque dollari l’ora per recitare la parte dei deboli. L’industria del sesso è un’industria di servizio, e il mio servizio era portare umiliazione a chi ne ordinava. L’aspetto performativo tuttavia era cruciale. Sputare in faccia a un innocente mi era inconcepibile, lo è tuttora. Ma a un uomo disposto a pagare per questo?

Si inginocchiavano ai miei piedi. Strisciavano nudi su parquet laccati. Imploravano di toccarmi, imploravano il mio perdono. Io lo negavo. Mi chinavo su quei volti lagnosi e radunavo l’umidità nella mia bocca. Sputavo. Quel loro ritrarsi all’istante, con gli occhi serrati. Lo shock mi lanciava una scarica lungo il corpo, poi si placava, gonfiandosi in qualcosa d’altro.

“Tu odi gli uomini?” mi chiedevano a volte. “Per niente,” rispondevo io.

“Sarà un modo per smaltire la rabbia,” suggerivano. “Mai provato rabbia durante una sessione,” replicavo.

In genere poi spiegavo che l’accessorio più prezioso per una dominatrice è un acuto senso dell’empatia. Ciò che non ammettevo con nessuno di quegli sconosciuti ficcanaso, né con me stessa, era che rabbia ed empatia non si escludono a vicenda.

Siamo tutti narratori inaffidabili dei nostri moventi. E provare qualcosa non conferma né smentisce che quel qualcosa sia reale. Le sensazioni di cui siamo coscienti non sono una mappa fedele dell’impatto psicologico delle nostre esperienze, sono nient’altro che un catalogo alla rinfusa di emozioni rimosse più e più volte, e spesso un sintomo di ciò che non ci concediamo di provare. Non sono la Bertha Mason rinchiusa nello stanzino di , piuttosto i suoi lamenti che trapelano dalle travi del pavimento, l’incendio che lei appicca mentre gli altri sono sprofondati nel sonno, e la vestaglia umida del suo pianto. Ai miei interlocutori confidavo che lo spitting non mi provocava alcun piacere sessuale. Solo psicologico. È una dicotomia quantomeno fiacca, me ne rendo conto. Come può non avere un carattere sessuale il piacere di donare il proprio sputo alla bocca affamata di un altro? Dovevo distinguere quel desiderio da ciò che avrei provato con un vero partner. Volevo far divorziare il piacere della violenza da quello del sesso. Ma non funzionava così.

Era il brivido della trasgressione, dicevo. Di occupare uno spazio di potere tipicamente maschile. Era la sensazione esilarante di fare una cosa che mai avrei fatto, che mai la mia cultura o la mia coscienza mi avrebbero concesso di fare. Credevo alle mie giustificazioni, ma adesso mi è facile trovarne le falle.

Non volevo essere una donna rabbiosa. Che motivo avevo di esserlo? I miei clienti ricercavano una catarsi rievocando i propri traumi infantili. Erano ostaggi del passato, di chi li aveva annichiliti. Io un ostaggio non lo ero affatto – non ci volevo nemmeno pensare. Volevo essere solo intrepida, curiosa e in pieno controllo. Non volevo che il mio piacere fosse una forma di redenzione. Si può redimere solo ciò che è stato perduto o sottratto. E io non volevo ammettere che qualcuno mi avesse sottratto qualcosa.

Si chiamava Alex, la sua casa si trovava poco più in là di quella della mia famiglia, lungo un vialetto non lastricato che dalla strada si inoltrava tra i boschi. Il tragitto fra le due era di appena dieci minuti a piedi, ed entrambe sorgevano lungo le rive del Deep Pond. Come molti altri laghetti di Cape Cod, il nostro si era formato qualcosa come quindicimila anni fa da un blocco staccatosi da un ghiacciaio in scioglimento e finito tra le zolle in via di solidificazione che oggi compongono il mio cortile. Quando il blocco di ghiaccio si sciolse, diede vita a ciò che definiamo una pseudodolina, un piccolo lago sorto da una cavità.

Nonostante il diametro ridotto, nel punto più profondo il nostro lago toccava i quindici metri. Io e mio fratello, così come tutti i bambini cresciuti nei paraggi, passavamo le estati a schizzarci e rincorrerci facendo giochi inventati, mentre le nostre risate si confondevano con il rumore dell’acqua. Spesso nuotavo fino al punto più profondo – che non era al centro del lago, ma sulla sinistra – e me ne stavo a galla nel suo cuore cavo. D’estate il sole riscaldava la superficie rendendola balneabile, ma bastava scendere di poco per sentir freddo. Con il viso caldo e le braccia che sbattevano nell’acqua stuzzicavo coi piedi quelle profondità gelide e mi sentivo percorrere da un brivido. Quindici metri era un’altezza maggiore di qualsiasi edificio in paese, ben più di dieci me impilate una sull’altra. Era un mistero grande abbastanza da contenere una città intera. Avrei potuto nuotarci dentro per tutta la vita senza sapere mai cosa giacesse sul fondo.

Una pagina del mio diario di quando avevo dieci anni recita: “Oggi Alex è venuto a nuotare con noi. Secondo me gli piaccio”.

Alex era un anno avanti a me e trenta centimetri più alto. Aveva la bocca larga, sottili occhi marroni e una risata che, nel freddo delle mattine autunnali, ragliava contro le nuvole mentre aspettavamo lo scuolabus. Portava la stessa camicia quattro giorni su cinque, e io lo trovavo bellissimo. Conoscevo Alex da anni, ma l’annotazione di quella nuotata è il primo ricordo nitido che ho di lui. Pochi mesi dopo mi ha sputato addosso per la prima volta.

Quando ho compiuto undici anni mi hanno iscritta alle scuole medie con tutti gli altri bambini miei coetanei. La fermata del nuovo autobus era in fondo alla strada alberata, a un incrocio. A quell’angolo vi era una grande casa, proprietà di Robert Ballard, l’oceanografo che nel 1985 scoprì il relitto del Titanic. A inizio carriera, Ballard aveva collaborato con la locale Woods Hole Oceanographic Institution, e fu durante le sue immersioni al largo del Massachusetts che nacque in lui un’ossessione per i relitti marini. A volte studiavo con gli occhi quella casa – le mille finestre luccicanti e il campo da tennis asfissiato dall’edera – e pensavo alle differenze tra Ballard e mio padre, che era capitano di navi mercantili. Uno solcava gli oceani col proprio carico, l’altro per trovarne uno si avventurava nei loro abissi. Mi attirava il romanticismo intrinseco di entrambi gli atti: fendere la superficie luccicante, oppure tuffarsi a fondo nel gelo. Un muro di pietra cingeva il cortile di Ballard. E lì noi aspettavamo l’autobus.

Mi incamminavo verso la fermata leggendo. Leggere aiutava a far passare il tempo, ore intere scomparivano in un sol colpo. Accorciava le assenze di mio padre, ogni pagina mi avvicinava al suo ritorno. Ero un mago con un unico trucco: far scomparire il mondo. Riemergevo da pomeriggi interi trascorsi a leggere, la mia vita un sogno nebuloso a occhi aperti in cui mi muovevo infondendomi a ripetizione in me stessa come una bustina di tè.

L’inizio della prima media segnò un cambiamento ben più drastico di quello della fermata dell’autobus. Quell’estate i miei si erano separati. Il mio corpo, un tempo un contenitore affidabile, prese a trasformarsi. Ma dal cilindro non uscì il frutto di una bella magia, non ci fu alcun abracadabra. Fu – – un’esplosione. Quel nuovo corpo era più difficile da far scomparire.

“A volte vorrei tanto che le persone non cambiassero”, scrissi nel mio diario. Con “le persone” intendevo i miei genitori. Intendevo me. Intendevo il ragazzino che nuotava in quel lago avvicinandosi al mio nuovo corpo, un corpo capace di attirare a sé ma non di mantenere il controllo.

Prima della pubertà mi muovevo nel mondo e verso gli altri senza alcuna esitazione o imbarazzo. Leggevo voracemente e su un quaderno foderato di velluto rosso appuntavo tutte le parole che volevo cercare sul dizionario. Ce l’ho ancora, quel quaderno. “Surrogato”, c’è scritto. “Entropia. Mnemonico. Acquitrino. Corpulento. Canuto”. Ero una ragazzina sveglia e forte e il mio potere risiedeva unicamente in queste due qualità. I miei genitori mi amavano e mi davano conferma di queste doti.

Il mondo della mia infanzia era un posto sicuro, forse molto più che per altre ragazze. Mia madre aveva messo al bando la televisione e i cereali zuccherati, e correggeva i miei libri con annotazioni femministe tracciate a pennarello. Quando non era per mare, mio padre mi insegnava a tirare la palla da baseball e anche qualche pugno, a rintracciare la Stella Polare e ad accendere un fuoco. Ero tenuta al riparo dal risvolto oscuro dell’essere donna. Ripenso al Titanic – non alla tragedia arcinota del suo naufragio, allo stridio del ghiaccio a tribordo, al fulmine d’acqua che s’insinua nel fianco squarciato. Penso al breve miracolo del suo transito. Alle 375 miglia percorse galleggiando, immacolato, sull’oceano Atlantico. Anche il mio primo transito fu un miracolo. Ma, come quello del Titanic, non durò a lungo.

La prima ad accorgersene fu...



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