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E-Book

E-Book, Italienisch, 437 Seiten

Reihe: Indi

Esposito Ultracorpi

La ricerca utopica di una nuova perfezione
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-3389-569-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

La ricerca utopica di una nuova perfezione

E-Book, Italienisch, 437 Seiten

Reihe: Indi

ISBN: 978-88-3389-569-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Se lasciati a loro stessi, i corpi si accartocciano, si deformano, si imbruttiscono, ma grazie al lavoro costante, alla dedizione, alla disciplina, a sacrifici anche estremi è possibile modificare il corso «naturale» degli eventi, in una simulazione - ancorché illusoria - di permanenza, quando non di immortalità. Questa ricerca di una perfezione utopica e variamente declinata, esasperata per difetto e per eccesso, è alimentata da canoni estetici imposti dal contesto culturale e dalle specifiche discipline - il body building, la danza, la ginnastica - ma spesso si innesta su un disagio del quale anoressia e vigoressia sono sintomi opposti e complementari. Spaziando tra matrice autobiografica, riflessione teorica e micronarrazioni archetipiche, Francesca Marzia Esposito costruisce una mappa dell'immaginario legato al corpo e alle sue trasformazioni, appoggiandosi a vicende insieme popolari ed esemplari come quelle di Ronnie Coleman, Arnold Schwarzenegger e Iris Kyle per il body building; Carla Fracci, Rudolf Nureyev e Roberto Bolle per la danza. Ultracorpi è un'indagine sui corpi modificati artificialmente, corpi ipertrofici portati all'espansione più estrema e corpi assottigliati che sembrano tendere alla totale sparizione, corpi che davanti allo specchio decidono di affrontare mutamenti estremi inseguendo una forma tanto più astratta e irreale quanto più definita e anatomicamente dettagliata. E in sottofondo, onnipresente, una domanda: cosa siamo disposti a fare, a rischiare, per inseguire la perfezione?

vive a Milano, dove insegna danza. Si è laureata al Dams di Bologna e ha conseguito un master in Scrittura per il cinema all'Università Cattolica di Milano. Alcuni suoi racconti sono apparsi sulle riviste Granta, GQ, 'tina e Colla. Ha pubblicato i romanzi La forma minima della felicità (Baldini & Castoldi 2015) e Corpi di ballo (Mondadori 2019).
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1 LA FURIA E LA LARGHEZZA


I manubri erano poggiati a terra raso muro, la cintura di cuoio, che indossava anche a casa quando si allenava con le casse d’acqua, se ne stava acciambellata al chiodo, appesa dalla parte della fibbia. Di casse ne sollevava una per lato, vale a dire sei bottiglie da un litro e mezzo a braccio. Cominciarono a comparire dei barattolini di plastica sulle mensole. Cos’è? Niente, creatina. E questi? Roba mia, aminoacidi. Attraversò una fase intermedia durante la quale riuscì a sviluppare un corpo solido e armonico. Le ragazze gli volteggiavano attorno. Cominciò a cambiare alimentazione. Le uova al mattino, più albumi che tuorli, i pastoni di riso e petto di pollo alla sera. Per spuntino le banane e i beveroni proteici addizionati. Aveva un amico che faceva palestra con lui. Erano inseparabili. Tornavano coi borsoni carichi su una spalla, le facce congestionate dal sudore e, tra i giubbotti e i maglioni indossati uno sull’altro, facevano fatica a passare dalla porta. Perché vi mettete tutti quegli strati? Grossi, siamo grossi! Che enormità che siamo! Trascorrevano interi pomeriggi a parlare di fisici e a sfondarsi di cibo. L’hai visto quello nuovo in palestra? Ridicolo. È rachitico. C’ha i polpacci focomelici. Ci sputi sopra e cade. Igor invece si bomba di brutto.

Erano due bisonti, lui e l’amico. Li rivedo a distanza di memoria come due spiriti voluminosi. A un certo punto l’amico venne travolto da una mutazione fisiognomica. Gli si deformò il viso. Gli venne una faccia strana, alterata geneticamente. Le bozze parietali sporgenti, le narici divaricate, la mascella ingigantita. Un volto involuto, parente stretto dell’uomo di Neanderthal. Mio fratello no, la sua faccia rimase a riposo.

Portava gli occhiali, da piccolo. Un forte astigmatismo gli faceva convergere una pupilla verso il naso. Avrà avuto due, tre, quattro anni. Il bambino ha l’occhio pigro. Il bambino è irrequieto. Il bambino è iperattivo. Gli venne inflitto l’occlusore, un dischetto ovale da applicare sull’occhio difettoso per un tot di ore al giorno. Non la prese benissimo. Girava per casa con la benda incerottata tra fronte e guancia, come Capitan Harlock. Il ciuffo storto sulla fronte, uno shanghai di denti aguzzi e il maglioncino a righe sul busto smilzo. Piangeva, si strappava la benda, spiava da dietro l’occlusore. Litigava con gli altri coetanei. Faceva la lotta. Il più delle volte le prendeva. Mio padre partiva per lavoro e lui si faceva venire una crisi, la febbre, la varicella. Soffriva di incubi notturni. Svegliava tutti urlando. Mia madre lo prendeva in braccio e lui continuava a gridare: Nooo, ti pregoooo! Un invasato. Un’anima in pena. Sovrapporre l’immagine del bambino smilzo a quella del ragazzo palestrato è arduo. Quando la trasformazione fu completa, i pettorali si gonfiarono a dismisura, i bicipiti divennero due pagnotte di pietra, il collo si stazzò taurino e sull’addome comparve la quadrettatura in rilievo. Nei vestiti sembrava esplodere. Cominciò a partecipare alle gare. I giorni prima della competizione andava in scarico carboidrati e mangiava solo proteine, rigorosamente senza sale. Vinse medaglie, coppe e trofei di macisti bronzati con sotto la targa e il numero del classificato. Un giorno mia madre, svuotandogli il borsone, trovò le siringhe.

Non ho mai saputo che steroidi prendesse e soprattutto dove recuperasse i soldi, a casa erano sempre contati. Dubito riuscisse a trafugare quanto occorreva per comprare un ciclo completo di ormoni. Anche volendo fare un po’ di cresta, ci avrebbe messo una vita per tirare su una cifra sufficiente. Non ho mai visto siringhe o boccette mediche. Certo, non le avrebbe mai esibite, ma quando si divide la stanza con qualcuno, seppure nell’insofferenza della sopportazione fraterna, si ha sempre modo di tradirsi con un’azione che verrà smascherata. Si impara a nascondere, a cercare una privacy dalle intrusioni altrui, e si diventa esperti nel rintracciare gli stessi meccanismi negli altri conviventi. È un fortino di guerra, la famiglia.

Non so nemmeno esattamente a che età cominciò con le bombe. I momenti esatti in cui accadono le cose sono impercettibili. Gli avvenimenti che riguardano il passato di famiglia li affido a un tempo mitico, ipotetico. Un tempo che vive di altre precisioni. La cronologia domestica è fatta di agganci a eventi concomitanti più significativi. Ogni momento tragico che abbia fatto smottare le fondamenta della mia famiglia, nel ripensarlo a freddo, diventa un appiglio mnemonico con cui separare un prima e un dopo che altrimenti rimarrebbero scontornati in un arco sulfureo di vita. La memoria comprime, spreme i giorni anonimi e lascia seccare in bella vista i momenti determinanti. Le cose accadevano di continuo e, nella distanza del ricordo, la proporzione tra gli eventi detta legge. Così mi ritrovo a squadernare i lutti dei parenti, l’incidente in autostrada, i ladri che saccheggiano l’appartamento, il braccio rotto. Due o dieci anni in fondo non sono nulla, nel ripensarli. È tutto un rimbalzare in un avanti e indietro leggendario. Quanti anni poteva avere quando ha fatto il primo ciclo? È stato prima o dopo aver cominciato con la discoteca? Portava già i capelli lunghi o era ancora la versione basica di Clark Kent? Era quando abitavamo nella prima o nella seconda casa? La stanza era quella divisa a metà oppure avevamo finalmente camere separate? Quello che è certo è che c’è stato un prima e un dopo dopato. Vado per grandi salti. Cominciò a lavoricchiare come PR e poi come buttafuori. A un certo punto la discoteca diventò il luogo da alternare alla palestra. In casa entrava un immaginario che non ci apparteneva. La discoteca era un’incognita a cui mia madre pensava con preoccupazione e che mio padre etichettava come deprecabile perdita di tempo. A mio fratello invece dava un ritmo. Era un altro luogo solo suo. Il sabato indossava l’abito, si leccava per bene i capelli sulle tempie, e usciva in versione . Bello, giovane, muscoloso. La faccia delicata abbrustolita, fresca di solarium. Usciva quando per mia madre era il momento di mettersi a letto. Io vado!, diceva davanti alla porta. Aspetta, fatti vedere!, si precipitava lei. Sentivo attraverso la parete le chiavi che tintinnavano, le mandate di chiusura. La scia di profumo rimaneva stemperata a galleggiare tra il corridoio e la nostra stanza. Lui usciva e la casa si svuotava. Lui usciva e mia madre diventava più sola. Si leggeva nei suoi occhi un senso di sconfitta, ogni volta che mio fratello se ne andava in discoteca. I buttafuori erano grossi, impettiti, con le braccia conserte, gli zirconi ai lobi e l’auricolare ficcato nell’orecchio. Era un ruolo che gli calzava. Piantarsi davanti all’ingresso di un locale con l’effimero potere di decidere chi far entrare e chi no. Tu, tu, tu, tu e tu, dentro, e colpo di mento. In seguito fece il ragazzo immagine. L’attenzione estrema che dedicava al suo corpo gli creò un turbinio di possibilità lavorative. I soldi e il lavoro si confondevano tra passione e divertimento. Si esibiva in giro per l’Italia assieme a un gruppo di bellocci pompati come lui. Posava e ballava davanti a platee di donne scalmanate. Fece la pubblicità di una nota bottiglietta di acqua minerale. Lavorò come boy in tv dietro una soubrette di Canale 5. Se la vita delle persone si impernia essenzialmente attorno a un evento cardine da cui si snoderà l’intero percorso biografico, quella di mio fratello ha fatto continue svolte tortuose in cerca di una meta più significativa della precedente a cui affidarsi. Voleva diventare qualcuno. Essere unico. Ricordabile. Popolare. Fare tutto al contrario. I nostri genitori non sono mai stati fanatici dei voti alti. Piuttosto, ci suggerivano l’idea che dovessimo adempiere al nostro dovere esattamente come facevano loro. Ognuno doveva fare il suo. Invece la carriera scolastica di mio fratello fu una montagna russa e, quando alla fine a fatica si diplomò, non volle sentire parlare di università. Difficile averlo come figlio, come fratello. Riguardo al corpo, in casa passava sottotraccia l’idea che bisognasse essere in buona salute senza concentrarsi troppo sull’estetica. Che fossimo sani e belli si dava per scontato, di conseguenza bisognava coltivare un’elegante disattenzione all’aspetto esteriore. La priorità doveva essere il . La priorità era creare un individuo intellettivamente brillante, con un futuro promettente. È singolare che in una famiglia dove si è sempre data la precedenza al contenuto piuttosto che alla forma, dove l’identità maschile e quella femminile sono state determinate da adulti che hanno usato il corpo senza preoccuparsene mai molto in termini estetici, in una casa dove il cibo è stato essenzialmente vissuto come un momento di aggregazione e di resa alle fatiche della giornata, siano cresciuti due individui che in termini opposti e speculari hanno costruito, ricercato e cesellato la stessa ossessione per il corpo . Io la magrezza, mio fratello l’enormità. Io la danza, lui il body building.

Se riavvolgo il nastro so rintracciare l’episodio spartiacque. Il dove le nostre vite si saldano in un cappio malefico e salvifico al tempo stesso. L’evento che getterà le fondamenta per costruire le identità opposte dei due fratelli. Il momento cardine dopo il quale io mi sentirò per sempre abbandonata e lui si sentirà per sempre in fin di vita.

Lo racconto con la stessa brutale sbrigatività che mi concedo sui social. Accadde oggi: lui è piccolo, io anche. Lui si annoia, vuole le caramelle che c’erano ieri in...



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