Egan | La fortezza | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 290 Seiten

Egan La fortezza


1. Auflage 2014
ISBN: 978-88-7521-630-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 290 Seiten

ISBN: 978-88-7521-630-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Danny, 35 anni, newyorkese d'adozione, drogato di internet e di public relations ma senza un impiego degno di tal nome, si ritrova, grazie a un invito inaspettato, in un castello medievale dell'Europa Centrale, che suo cugino Howard ha comprato e vuole ristrutturare per farne un resort di lusso dedicato al silenzio e alla meditazione: l'invito ha forse a che fare con il traumatico passato che lega i due? Il senso di spaesamento e minaccia che Danny prova è frutto di paranoia o il castello, fra i suoi intricati corridoi e i bizzarri personaggi che lo abitano, nasconde davvero un mistero? E ancora: chi è il narratore che sta scrivendo questa storia, perché è detenuto in un carcere di massima sicurezza, quale rapporto ha con i due cugini? Un classico romanzo «gotico», nelle mani geniali di Jennifer Egan, diventa un affascinante gioco letterario e una riflessione sul reale e il virtuale nella società contemporanea; ma al tempo stesso, fra atmosfere da ghost story e sorprendenti colpi di scena, non smette di tenere il lettore col fiato sospeso fino all'ultima pagina.

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1.


Il castello cadeva a pezzi, ma alle due di notte, sotto una luna inutile, Danny questo non poteva vederlo. Ciò che vedeva appariva massiccio: due torri circolari con un arco in mezzo, e sotto quell’arco un cancello di ferro che sembrava non essersi mosso negli ultimi trecento anni, o forse mai.

Danny non era mai stato in un castello, e neppure in quella parte del mondo, ma il tutto per lui aveva un qualcosa di familiare. Gli pareva di ricordarsi quel posto, da tantissimo tempo prima, non come se ci fosse stato davvero, ma come se l’avesse visto in sogno o su un libro. In cima alle torri c’erano quelle dentellature squadrate che ci mettono sempre i bambini quando disegnano i castelli. L’aria era fredda, fosca e pungente, come se fosse già arrivato l’autunno, anche se era metà agosto e a New York la gente andava in giro mezza nuda. Gli alberi stavano perdendo le foglie: Danny se le sentiva atterrare tra i capelli e scrocchiare sotto le scarpe. Stava cercando una maniglia, un batacchio, una luce: un modo per entrare, o almeno un modo per trovare il modo di entrare. Ma era sempre più pessimista.

Aveva aspettato per due ore, in un cupo paesino della valle, una dannata corriera per il castello che non era mai passata, poi aveva alzato lo sguardo e visto la sua sagoma nera contro il cielo. Allora si era avviato a piedi, trascinandosi dietro la Samsonite e la parabola satellitare per due o tre chilometri di salita, con le rotelline della valigia che s’incastravano tra i sassi, le radici e le tane dei conigli. La gamba zoppicante non lo aiutava. Tutto il viaggio era stato così: un intoppo dietro l’altro, a cominciare dall’aereo preso all’alba dal JFK che era stato trainato in mezzo a un campo per via di un allarme bomba e circondato da veicoli con i lampeggianti rossi ed enormi lance antincendio, confortanti solo finché non ci si rendeva conto che erano lì per assicurarsi che l’esplosione incenerisse quei poveri stronzi che già erano a bordo. E così Danny aveva perso la coincidenza per Praga e il treno per quel cazzo di posto in cui si trovava ora, un paese dal nome tedesco che però non sembrava essere in Germania. Né da nessun’altra parte: Danny non era neppure riuscito a trovarlo su internet, anche se non era sicuro di aver scritto bene il nome. Al telefono con suo cugino Howie, che era il proprietario del castello e gli aveva pagato il viaggio perché venisse ad aiutarlo nella ristrutturazione, aveva cercato di mettere a fuoco certi dettagli.

Danny: Sto ancora cercando di capire bene: il tuo albergo è in Austria, in Germania o nella Repubblica Ceca?

Howie: A dire la verità, neanch’io ce l’ho ben chiaro. Qui i confini cambiano di continuo.

Danny (pensandoci su):

Howie: Però, ti ripeto, non è ancora un albergo. Al momento è solo un vecchio...

La comunicazione si era interrotta. Quando Danny aveva provato a richiamare, non era riuscito a prendere la linea.

Ma la settimana dopo erano arrivati i biglietti (timbro postale illeggibile) – aereo, treno e corriera – e dato che Danny era appena rimasto disoccupato e doveva allontanarsi da New York il prima possibile per un malinteso avvenuto al ristorante dove fino a poco prima lavorava, essere pagato per andare da qualche altra parte – da qualunque altra parte, fosse anche la cazzo di luna – era un’offerta a cui non poteva dire di no.

Aveva quindici ore di ritardo.

Lasciò la Samsonite e la parabola accanto al cancello e girò attorno alla torre di sinistra (Danny, per principio, quando poteva scegliere prendeva sempre a sinistra, perché in genere la gente prendeva a destra). Dalla torre partiva un muro curvo che s’inoltrava fra gli alberi e Danny lo seguì fino a quando il bosco non si fece troppo fitto. Procedeva alla cieca. Sentì battiti d’ali e fruscii di zampe, e a mano a mano che avanzava gli alberi si avvicinavano al muro, finché non fu costretto a strizzarcisi in mezzo, per paura che staccandosi dal muro si sarebbe perso. E poi successe una cosa buona: gli alberi cominciarono a premere contro il muro fino a spaccarlo, dando modo a Danny di arrampicarcisi sopra ed entrare.

Non fu facile. Il muro era alto sei metri, irregolare, friabile e ingombro dei tronchi che ci si erano schiantati sopra, e Danny aveva un ginocchio malandato per via di un infortunio collegato al malinteso al lavoro. E in più le sue scarpe non erano l’ideale per un’arrampicata: erano stivaletti da città, scarpe da hipster, a metà fra lo squadrato e l’appuntito – le sue scarpe fortunate, o così Danny aveva pensato nel comprarle, tanto tempo prima. Adesso erano da risuolare. Ci scivolava anche sul cemento piatto dei marciapiedi, quindi la scena di lui che si inerpicava scomposto, mani e piedi, su un muro di sei metri mezzo crollato, non era certo qualcosa che avrebbe voluto condividere col resto del mondo. Ma alla fine ce la fece, ansimando, sudando, trascinandosi dietro la gamba dolorante, e si issò su una specie di camminamento in piano che correva in cima al muro. Si spolverò i pantaloni e si rialzò.

La vista era una di quelle che per un attimo ti fanno sentire Dio. Sotto la luce lunare le mura del castello sembravano d’argento e si stendevano lungo la collina in un ovale tremolante delle dimensioni di un campo da football. C’erano torri circolari ogni cinquanta metri o giù di lì. Sotto di lui, all’interno delle mura, era tutto nero: un nero puro, come quello di un lago o dello spazio. Danny si sentiva sopra la testa la curva del grande cielo, pieno di nuvole violacee sfrangiate. Il castello vero e proprio era nel punto da dove era partito: un grappolo di edifici e torri ammucchiati. Ma la torre più alta era isolata dalle altre, sottile e quadrata con una lucina rossa accesa a una finestra quasi in cima.

Nel guardare in giù, qualcosa dentro Danny si rilassò. Quando era appena arrivato a New York, lui e i suoi amici avevano cercato di dare un nome al rapporto che desideravano avere con l’universo. Ma la loro lingua si era rivelata insufficiente: , , , : erano tutte parole troppo pesanti o troppo leggere. E allora Danny e i suoi amici si erano inventati un nome: . La vera elevazione funzionava in maniera bilaterale: vedevi, ma potevi anche , conoscevi ed eri conosciuto. Un riconoscimento bilaterale. Fermo in piedi sopra il muro del castello, Danny provò un senso di elevazione: la parola ce l’aveva ancora in mente a distanza di tanti anni, anche se gli amici erano scomparsi da un pezzo. Cresciuti, probabilmente.

Danny rimpianse di non essersi portato la parabola in cima al muro. Moriva dalla voglia di fare delle telefonate: gli sembrava un bisogno primordiale, come quello di ridere, di starnutire o di mangiare. Ci si fissò a tal punto che riscese di nuovo e tornò sui suoi passi in mezzo a quegli stessi alberi prepotenti, riempiendosi di terra e muschio le unghie che non tagliava da un po’. Ma quando si ritrovò davanti al cancello l’elevazione era svanita e Danny si sentiva solo stanco. Lasciò la parabola nella custodia e trovò un punto in piano sotto un albero dove sdraiarsi. Ammucchiò un po’ di foglie. A New York Danny aveva dormito all’aperto un paio di volte, quando le cose si erano messe al peggio, ma qui era diverso. Si tolse la giacca di velluto, la rivoltò e la arrotolò a formare un cuscino ai piedi dell’albero. Si stese supino sulle foglie e incrociò le braccia sul petto. Dall’albero stavano cadendo altre foglie. Danny le guardò volteggiare, roteare contro i rami mezzi spogli e le nubi violacee, e sentì che gli occhi cominciavano a girarglisi all’indietro. Stava cercando di pensare a qualche battuta da fare a Howie –

Tipo:

Oppure:

O magari:

– tanto per avere qualcosa da dire se fosse capitato un momento di silenzio. Era nervoso all’idea di rivedere il cugino dopo tanto tempo. L’Howie che conosceva da ragazzino era impossibile immaginarselo adulto: all’epoca era avvolto in quel grasso femminile a forma di pera che si vede ogni tanto anche addosso ai maschi, grosse maniglie dell’amore che gli spuntavano da dietro i jeans. Pelle pallida e sudata e un sacco di capelli scuri intorno al viso. Intorno ai sette o otto anni, Danny e Howie avevano inventato un gioco che facevano ogni volta che si vedevano durante le vacanze e i picnic di famiglia. Zeus Finale, si chiamava, e c’era un protagonista (Zeus) e c’erano mostri, missioni, piste di decollo e ponti aerei, cattivi, esplosioni e inseguimenti a tutta velocità. Potevano giocarci ovunque, in un garage come su una vecchia canoa o sotto un tavolo da pranzo, usando tutto quello che trovavano: paglia, piume, piatti di plastica, carte di caramelle, spago, francobolli, candele, graffette, qualunque cosa. Era Howie a inventarsi la maggior parte delle situazioni. Chiudeva gli occhi come se all’interno delle palpebre stesse guardando un film che voleva far vedere anche a Danny: Allora, adesso Zeus spara delle Pallottole al Neon che quando colpiscono il nemico gli illuminano la pelle, così riesce a vederlo anche in mezzo agli alberi e poi – – lo prende al lazo con la Corda Elettrificata!

A volte lasciava che fosse Danny a parlare – Ok, adesso tocca a te: com’è fatta la camera delle torture sottomarina? – e Danny cominciava a immaginare dettagli: rocce, alghe, ceste...



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