Djian | "Oh..." | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 184 Seiten

Djian "Oh..."


1. Auflage 2013
ISBN: 978-88-6243-295-5
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 184 Seiten

ISBN: 978-88-6243-295-5
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Un titolo enigmatico che ha il sapore di un'amara liberazione, o magari forse di una resa. Michele è una produttrice cinematografica di successo con un figlio, un matrimonio fallito alle spalle, una madre tutta rifatta e un padre che marcisce in galera. Una sera viene violentata da uno sconosciuto in passamontagna mentre rientra a casa e inizia così la sua lenta e inesorabile discesa agli inferi. Uno straordinario ritratto di donna, un romanzo politicamente scorretto, il racconto di una società che non merita salvezza.

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Resta la soffitta. Non dico di no. C’è un’atmosfera speciale, dovuta alla quantità di roba mai più toccata da quando l’abbiamo messa qui, ecco cosa resta della nostra storia, di noi due, di me e mia madre. Valige, scatoloni, carte, foto mai tirate fuori, mai guardate. Ci arrampichiamo sulla scaletta. Quassù il vento vibra come il motore di un aereo, le travi cigolano con tutta l’anima. È magnifico. Accendo. La lampadina si brucia. “Ah, merda!” Entriamo lo stesso.

Spio il minimo segnale da parte sua, ma lui si butta sulla finestra e si mette a scuotere la cremonese come un pazzo. Quando si apre sono pronta, mi sporgo fuori per afferrare la persiana. Poi grido nella tormenta, sculettando nel pigiama felpato: “Non ci riesco, Patrick! Aiuto!”

Mi sembra comunque eccessivo fare io il primo passo e mi riprometto di parlargliene, in un secondo momento. Lo trovo piuttosto umiliante. Devo provocarlo per mostrargli la strada, devo prendergli la mano e portarmela in mezzo alle gambe? In ogni modo riesco a chiudere la persiana e adesso Patrick mi si stringe alla schiena e si strofina e mi infila una mano nei pantaloni chiusi solo da un elastico e la fa scivolare dritta verso il mio sesso.

Non pensavo più che ce l’avremmo fatta. Sospiro di soddisfazione, allargo le gambe e giro la testa per porgergli le labbra, ma in quel momento lui balza indietro, emette una sorta di lamento e scappa nel buio verso la scala, dove si eclissa. Non ci posso credere. Non posso credere a una cosa simile. Sono senza fiato.

Passo una notte orribile. La mattina dopo trovo dei fiori sulla porta di casa. Li butto direttamente nel cassonetto.

Verso le dieci, suona. Taglio corto alle sue spiegazioni dicendo che non mi interessano e richiudo la porta. Lo guardo dallo spioncino, si allontana di qualche metro e a capo chino, con espressione distrutta, si lascia cadere sul dondolo da cui ho tolto i cuscini, la testa tra le mani.

A mezzogiorno è ancora lì, non si è mosso. Il cielo è limpido, il vento meno forte, più regolare, ma il freddo è penetrante. Sarò passibile di qualcosa se lo lascio crepare davanti a casa mia senza aiutarlo? Mi occupo dei fatti miei, giro da un piano all’altro, a volte torno sui miei passi per accertarmi della sua presenza e lui sta sempre al suo posto.

Anna mi chiama e quando la rendo edotta della situazione mi consiglia di riportare in fretta Patrick a casa sua prima che prenda freddo o scateni una scenata.

– Ma come fai a infilarti in queste situazioni? – mi chiede. – Sono esterrefatta. Vuoi che venga?

– No – le dico dopo aver lanciato un’occhiata a Patrick. – Non ne vale la pena.

Guardo un film con Leonardo Di Caprio e quando alzo gli occhi sta calando la sera e lui è sempre lì. Giro ancora qualche minuto per casa, alla fine mi metto qualcosa addosso e vado fuori.

Mi piazzo di fronte a lui con le mani sui fianchi. “Pensa di essere molto furbo? Medita di passare la notte sul dondolo, eh?”

Forse una scintilla gli si accende negli occhi, ma niente più. Stringe forte il collo del cappotto di cammello sotto il mento e la mano sembra incollata con l’attaccatutto al bavero del soprabito in questione, che il freddo ha ricoperto di un velo bianco. Percepisco da non so cosa un tentativo da parte sua di sorridere in modo pietoso, ma a quanto pare ha i muscoli della faccia atrofizzati.

Gli infilo un braccio sotto il gomito e lo costringo ad alzarsi. Non è in forma, è surgelato fino al midollo, del tutto rattrappito, sgomento. Lo metto su uno sgabello davanti al caminetto – non ho intenzione di tenerlo qui a lungo – e gli preparo un grog per quando riacquista l’uso delle mani – per ora trema.

“Qual è il problema, di preciso?” gli chiedo. “Cosa c’è che non va?”

Non mi aspetto una risposta. Fumo una sigaretta. Lui scuote la testa, lo vedo cercare di articolare qualche parola ma nessun suono gli esce di bocca. Gli offro una pastiglia per la gola con un leggero anestetico.

“Beva il grog e torni a casa, Patrick. Lasciamo perdere, va bene?”

Batte ancora i denti mentre dichiara di volermi solo presentare le sue scuse, dirmi quanto si odia per aver posato la mano su di me.

Lo osservo un attimo mentre rabbrividisce davanti al focolare.

“Su, è tutto a posto, non facciamone un dramma” dico. Accendo una sigaretta e gliela metto tra le labbra.

“Mi dica la verità, Patrick, io non le piaccio?” Per poco non si strozza dall’indignazione, balbetta. Ormai è notte.

Lo guardo. Non dico niente. Non credo di avere abbastanza pazienza. Sono stanca. Aspetto che riprenda un minimo di colore, beva il grog, poi lo rimetto fuori e gli indico la direzione della sua macchina ferma lì di fronte.

Torna due volte verso di me battendosi il petto e io annuisco in modo vago. C’è luna piena. Lo vedo barcamenarsi sull’asfalto ghiacciato, poi risalire verso casa sua, dall’altro lato della strada. Ne ho visti di uomini strambi nel corso della mia esistenza, ma Patrick li batte uno per uno. Eppure mi piace, nonostante tutto. Vorrei lasciar perdere questa storia seduta stante, tagliare i ponti fin da ora perché c’è da aspettarsi soltanto guai da un uomo così complicato, ma forse non sono ancora così vecchia, forse posso ancora vivere qualche avventura fuori del comune, ho ancora questa possibilità, questa capacità – non sarà una passeggiata, suppongo.

Resto un minuto davanti al fuoco, con la mente altrove, poi salgo nel mio studio a incartare qualche regalo – sono in ritardo, la morte di mamma mi ha scombinato i tempi. Scrivo due o tre biglietti, li infilo nei pacchi, sbadiglio. Ho ancora la mano davanti alla bocca quando qualcuno si lancia su di me e mi scaraventa brutalmente a terra – sulla moquette. Mentre crolliamo mi impiglio al filo della lampada da tavolo e la stanza piomba nel buio. Urlo. Ricevo un forte colpo alla mascella. L’aggressore ha un passamontagna. Sono un po’ stordita ma scalcio con tutte le forze e strillo anche di più. Stavolta usa una tattica meno efficace oppure sono io a essere scatenata, comunque non riesce a immobilizzarmi – non provo nessuna paura, ho una rabbia che ci vedo rosso, non so nemmeno se è armato o no, sono accecata dal furore.

Nel frattempo mi schiaccia con tutto il suo peso e alla fine mi prende per la gola. Urlo “Aiuto! Aiuto!” e lui mi gratifica di un pugno in faccia, ma sono troppo furiosa per svenire e mentre quello cerca di sfilarmi i pantaloni afferro la gamba di uno scaffale pieno di libri e riesco a strapparmi alla sua presa, mi giro di schiena con uno scatto e mi libero a calci.

Lui però riprende il sopravvento e devo battere in ritirata, in attesa di un nuovo attacco. Sono seduta per terra, la schiena contro il muro, quando per caso le dita mi si chiudono sulle forbici di cui mi sono servita per i pacchetti.

Allunga con forza una mano per afferrarmi di nuovo ma la mano si blocca, trapassata a mezz’aria, da parte a parte, trafitta con le forbici da cucito.

Adesso è lui a urlare, a far sentire la sua voce, ma io so già chi è, anzi forse l’ho sempre saputo, ancor prima di strappargli il passamontagna.

Mi rimetto in piedi di scatto, le forbici puntate su di lui. “Fuori di casa mia” ordino con voce sorda, tremante di rabbia. Lo spingo verso le scale .“Fuori di qui! Fuori!” Agito violentemente la punta delle forbici, rosse del suo sangue, davanti alla sua faccia. Dagli occhi mi sprizzano fiamme. Aspetto solo una scusa per colpire di nuovo, sarò rapida come il lampo. Sono furiosa. Lui lo vede. Sono contenta che lo veda. Storce la bocca, caracolla all’indietro, di corsa, la mano ferita stretta a sé. Ma dietro quella smorfia, non so, non so cosa provi davvero. Indietreggia fino alla porta. “Fuori dai piedi!” dico. “Via, lontano da me!”

Si volta e afferra la maniglia. La cosa più sconvolgente è doversela prendere con Patrick. Con il Patrick che conosco, il mio vicino, quello che flirta con me e così via. Ma è chiaro, non è lui ad avermi appena aggredita, questo tipo incappucciato non è lui. Se non ci fosse la ferita alla mano, la confusione sarebbe tremenda. “Ma che fai?” mi direi. “È il tuo amico Patrick, non lo riconosci?”

La porta si apre. Lui fa marcia indietro. Lo seguo con le forbici sempre puntate all’altezza del volto. La luna piena mi acceca quasi. Stringo gli occhi. Allora i due Patrick si sovrappongono nella mia mente e mi fermo. Lui continua a indietreggiare e adesso vedo benissimo il suo doppio, quello che mi ha violentata una volta e ci ha appena riprovato. Scivola e si schianta su una lastra di ghiaccio, devo trattenere l’impulso di andare ad aiutarlo.

Mi sfiora il pensiero di chiamare la polizia, ma cambio idea. Preferisco aprire l’acqua nella vasca. Nemmeno a me stessa oso dire la verità.

Il giorno dopo vado a riprendere la macchina, e questo mi dà l’occasione di una prima visita al cimitero. Non sono obbligata, potrei aspettare, ma il posto è relativamente deserto e niente mi impedirà un’eventuale fuga repentina. La lapide non è pronta, ma il monticello di terra è forse ancora più impressionante. È rimasto qualche fiore e non è ancora del tutto appassito, questo periodo tra Natale e Capodanno è sempre così strano, con il silenzio inusuale ad avvolgere il mio arrivo e a infondere un senso di calma e irrealtà che mi si addice benissimo. Mi chino a sistemare qualcosa e le chiedo scusa per il mio squallido comportamento nel giorno del funerale. È una bella giornata per visitare la tomba della propria madre. Il cielo è luminoso e bianco come un giglio, l’aria fresca e pungente come si deve.

Mentre mi rialzo mi accorgo di quanti alberi ci sono intorno, e tanto cielo. “Starai bene qui”...



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