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E-Book

E-Book, Italienisch, 315 Seiten

Reihe: Asia

Del Corona Asiatica

Storie, viaggi, città: guida a un continente in trasformazione
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-6783-334-4
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Storie, viaggi, città: guida a un continente in trasformazione

E-Book, Italienisch, 315 Seiten

Reihe: Asia

ISBN: 978-88-6783-334-4
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Asiatica è un libro che attraversa Corea, Giappone, Cina, Vietnam, Cambogia, Taiwan disegnando una mappa geografica e culturale per orientarsi tra i sommovimenti dell'Asia orientale. Si parte da un territorio conteso, su un'imbarcazione che fende il mare dell'Est e si dirige alle isole Dokdo, o isole Takeshima, a seconda che si scelga di chiamarle con il loro nome coreano o con quello giapponese. Per ogni sua tappa, Marco Del Corona sceglie di raccontare luoghi che, più di altri, lasciano intravedere i fermenti, i conflitti e lo spirito irrequieto che anima questa fetta di mondo: le capitali, Pechino, Tokyo, Seoul, ma anche Taipei, Hanoi o Phnom Penh; le grandi città epicentro delle trasformazioni, come Shanghai o Hong Kong, mescolati a nomi che ci suonano meno familiari, benché siano metropoli da decine di milioni di abitanti come la cinese Chongqing. Bussola del viaggiatore sono le parole degli scrittori con i quali l'autore ha dialogato e dai quali si è fatto accompagnare, condividendo idee e visioni. Il risultato è una guida per l'outsider, che sia un visitatore reale o virtuale, in compagnia di Han Kang, Hwang Sok-yong, Murakami Ry?, Kirino Natsuo, Yoshimoto Banana, Hao Jingfang, Yu Hua, Yan Lianke, Li Kunwu, Wu-Ming-yi, Rithy Panh, Nguyen Huy Thiep. In appendice una «Guida per viaggiare» a cura della redazione con suggerimenti di letture e luoghi da visitare. «L'Asia delle città viene a pungolarci, pretende curiosità, rivendica la libertà di negarsi. Lasciamola parlare: soltanto così, per un attimo e nella mezza luce, sarà un po' nostra.»

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Dokdo. Isole nella corrente


Il mare è ruvido, il mare non aspetta. Cerca con impazienza un perno, un punto dove appoggiarsi. Intanto gira a vuoto e non sa dove andare. Il mare ha perso la strada. Loro, invece, conoscono la direzione: cantano e ridono, una voce maschile attacca e tutti seguono, una voce femminile la imita e tutti seguono di nuovo, una strofa dopo l’altra, incuranti del liquido saliscendi sotto l’aliscafo. È l’inno nazionale sudcoreano, sono canzoni tradizionali impastate di buonumore.

L’applauso, alla fine, è per il mare. Che all’improvviso lascia spuntare un’escrescenza appena rilevata mentre l’orizzonte non ne vuole sapere di stare fermo. Un attimo dopo, i minuscoli oblò sono oscurati: c’è roccia là fuori. La scomposta platea di cantori adesso si scambia rumorose manifestazioni d’estasi, frasi concitate. Poi un grido: «Dokdo! Dokdo!». Applauso.

Dokdo, più scogli che isole. Quando l’aliscafo attracca e gli uomini della guardia costiera si allineano vetrificati nel saluto militare, le bandiere sudcoreane dei viaggiatori cominciano a vibrare. Attraverso il molo di cemento armato è subito tutta una corsa alla foto ricordo con i soldati. Ci si mette in posa accanto al cippo che afferma che le Dokdo sono isole coreane, coreanissime, il più orientale lembo di territorio patrio, nonostante quanto sostiene il Giappone. Io sono l’unica persona esclusa dalla festa, l’unico straniero.

Una patria appuntita


Le due isole maggiori si guardano l’un l’altra, ai due lati di un turbinoso braccio di acqua color inchiostro che gli spruzzi certificano essere gelida come appare. Le balze di roccia vulcanica si tuffano a precipizio nelle onde ma si concedono la grazia di lingue d’erba. La Corea, qui, è una patria appuntita.

«Sono nostre, quindi era giusto arrivare fin qui a vederle», proclama dalla piccola folla di visitatori Ahn, 65 anni. C’è anche una donna che si dichiara «sciamana» di professione, Yang Shin-chun, 51 anni: dice invece di essere venuta a pregare e si fa fotografare mentre srotola un piccolo striscione patriottico.

Il molo piega ad angolo retto. Diventa un passaggio che si fa largo fra le rocce: raggiunge la base della piramide sulla quale si arrampica ripidissimo il sentiero a gradini che arriva in vetta. Non si va oltre, un uomo in divisa ostruisce l’accesso. In cima una caserma accoglie militari e guardiani del faro; le infrastrutture sono completate da un eliporto e dai pochi, scoscesi viottoli. Nel 2011, per adeguare il territorio alla toponomastica nazionale, anche la sequenza di gradini che si inerpica verso il faro ha avuto un nome e un’insegna come una strada qualunque, Dokdoisabu-gil.

Più indietro, nei pressi del molo, l’eccitazione dei visitatori non si placa. L’ufficiale di polizia Lee S.-w., assegnato per due mesi al presidio sulle Dokdo, conferma che quelli appoggiati laggiù sono effettivamente «scudi che potrebbero servire se sbarcassero turisti giapponesi in vena di provocazioni. Nel caso, siamo pronti».

Nostre. No, nostre


Dimenticate nel mare, ma non da tutti. Le Dokdo sono un arcipelago per modo di dire, meno di 0,2 chilometri quadrati di lava rappresa, bersagliata dalle deiezioni degli uccelli marini e da condizioni atmosferiche proibitive: isole alla fine del mondo, alla fine di un mondo – quello coreano – che vi fa risalire la propria sovranità al 512 dopo Cristo. Ci si arriva dall’isola di Ulleungdo, da dove si intravedono all’orizzonte nelle giornate di cielo terso. Il Giappone, tuttavia, rivendica il mini arcipelago, che chiama Takeshima. Tokyo sostiene che la sua esistenza fosse «nota al Giappone già nell’antichità». Per Tokyo la sovranità nipponica risale almeno al XVII secolo, i coreani elencano altre carte (addirittura alcune giapponesi che nell’Ottocento e nel Novecento negavano la sovranità di Tokyo). Ancora: la Corea considera l’annessione nipponica delle Dokdo del 1905 il primo atto della colonizzazione della penisola subita da parte del Sol Levante (1910-1945), trentacinque anni di umiliazioni conclusi solo con la fine della Seconda guerra mondiale. La cosa buona è che nessuno dei Paesi agita le proprie forze armate, a differenza di quanto accade tra Cina e Vietnam per le Spratly e le Parecel nel mar Cinese meridionale e tra Cina e Giappone per le Diaoyu/Senkaku a nord di Taiwan.

La contesa ha toni paradossali non soltanto per l’esiguità del territorio in gioco ma perché oppone due Paesi che nel fragile teatro geopolitico dell’Asia orientale si ritrovano, o dovrebbero trovarsi, sullo stesso versante. Seoul e Tokyo sono infatti entrambe alleate degli USA, entrambe inquiete per le ambizioni della Cina e le provocazioni della Corea del Nord. Ma il duello si alimenta attraverso l’ostilità generata dall’indimenticato dominio del Giappone sulla penisola. Persino in Italia, nelle redazioni dei giornali si impara a fare attenzione: se scrivi che le Dokdo sono coreane, l’ambasciata o il consolato giapponese di turno con gran cortesia ti informa che sbagli e ti invia la documentazione del caso; se scrivi che sono giapponesi, l’ambasciata o il consolato sudcoreano di turno con altrettanta cortesia ti fornisce dépliant e carte sui quali informarti.

Seoul, forte delle proprie convinzioni, afferma che intorno alle Dokdo non esiste alcuna controversia e perciò non è necessario il coinvolgimento di alcun organismo internazionale per dirimere alcunché. Nella capitale coreana un museo visitato ogni anno da qualche decina di migliaia di persone (metà studenti) celebra, con installazioni multimediali e proiezioni 4D, le bellezze del selvaggio avamposto ed espone, assieme a esemplari di fauna e flora locale, i documenti che attestano l’«incontrovertibile sovranità» sulle Dokdo. I nazionalisti chiedono però alle autorità un piglio più vigoroso: asserragliati nelle stanzette di uno spartano ufficio nel semicentro di Seoul, i dirigenti della Korea Dokdo Love Association a nome delle loro «migliaia di aderenti» scandiscono che «il ministero dell’Educazione dovrebbe fare di più. Quando in Giappone si mobilitano dicendo che le isole spettano a loro, noi siamo pronti a contro-mobilitarci».

Questione d’identità


Vista da questi scogli travestiti da madrepatria, la storia sembra più inoffensiva del mare che li assedia, avaro di risorse ma generoso di promesse. A Seoul invece la sensibilità sul tema delle Dokdo è autentica. Persino Lee Jung-myung, scrittore fra i più popolari del Paese, e uomo dai modi delicati nato vent’anni dopo la fine della guerra (1965), ammette che «la faccenda non riguarda soltanto la sovranità territoriale ma ha a che fare con la coscienza di quello che il passato coloniale del Giappone significa per noi coreani. Tokyo non ha chiesto adeguatamente scusa per i tanti crimini contro l’umanità commessi ai nostri danni durante il periodo imperialista. E non possiamo non temere che le politiche reazionarie e le ambizioni territoriali possano portare Tokyo a ripetere gli errori del passato».

Per riflettere sulla disputa delle Dokdo, che osservata da lontananze europee può apparire incongrua e surreale, Lee non è una voce presa a caso. Uno dei suoi titoli di maggior successo è infatti La guardia, il poeta e l’investigatore, un romanzo sulla fine dello scrittore Yun Dong-ju, arrestato nel 1943 in Giappone, dove studiava letteratura e dov’era stato costretto a cambiarsi il nome in Hiranuma Dozu: aveva manifestato a favore dell’indipendenza coreana e venne fatto morire in un campo di detenzione a Fukuoka nel 1945.

Non la pensa tanto diversamente neppure Yi Mun-yol, altro narratore di peso, altra generazione (è del 1948), un padre nobile della letteratura coreana di oggi: «Tradizionalmente noi coreani non consideriamo i giapponesi gente interessante o meritevole di rispetto», ammette, aggiungendo subito che «non riusciamo a collocarli allo stesso livello della cultura occidentale. I coreani pensano che il Giappone abbia avuto la meglio su Cina e Russia perché è una nazione fortunata e poi perché fu aiutato dagli americani». Yi sembra non disconoscere la filiazione della cultura coreana dal grande ceppo di quella cinese e proprio per questo la cultura giapponese, a sua volta una filiazione di quella cinese, non gode ai suoi occhi dello stesso status: «Per noi coreani, Cina e Giappone non hanno lo stesso significato. Tuttavia ignorare i giapponesi oggi non sarebbe una buona idea».

In viaggio con gli scrittori


Perché è questo che mi sembra rivelare l’Asia orientale attraverso certe faglie sottili e profondissime che la percorrono tutta: l’identità di ciascuna nazione pare affermarsi anche attraverso l’opposizione rispetto alla nazione vicina, nonostante le affinità; ogni popolo sembra definire sé stesso in buona parte guardando di continuo a ciò che lo distingue dagli altri. Vale per la Cina e il Giappone. Vale senz’altro per la Corea, stretta com’è proprio tra la Cina e il Giappone, entrambe culturalmente affermate e riconosciute. Ma è così anche per il Vietnam rispetto alla Cina, per non dire di Cina e Taiwan e poi ancora di Vietnam e Cambogia, e Cambogia e Thailandia, e Thailandia e Birmania… Un domino di distinguo pronti a tramutarsi...



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