Deen | Il fiume infinito | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, Band 397, 416 Seiten

Reihe: Gli Iperborei

Deen Il fiume infinito

Storie dal regno del Reno
1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-81724-13-6
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Storie dal regno del Reno

E-Book, Italienisch, Band 397, 416 Seiten

Reihe: Gli Iperborei

ISBN: 979-12-81724-13-6
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



«Il Reno c'è sempre stato.» Entità arcana, non ha un inizio né una fine. È inutile cercarne le sorgenti nelle nevi alpine, perché le sue acque sono fatte di pioggia e di tutti i fiumi, ruscelli e rigagnoli del suo regno. Inutile anche risalire alle sue origini nel tempo, perché la storia geologica, con i suoi terremoti e nubifragi, le sprofondano in un momento indefinito in cui le Alpi non erano ancora emerse dal mare. Così, dopo una carrellata in time-lapse degli sconvolgimenti geologici tra il Mesozoico e il primo Cenozoico, per fare il ritratto del Reno Mathijs Deen rivolge lo sguardo ai suoi remoti abitanti - esseri umani ma anche ippopotami, tapiri, elefanti - trasformando la Storia in storie: l'avventura di una povera femmina di salmone di tre milioni d'anni fa che risale il fiume per deporre le uova e trova tutto cambiato; la vita, la malattia e la morte della «ragazza di Steinheim», l'essere umano più antico vissuto sul Reno di cui ci sia traccia; ma anche le storie di un fiume teatro di guerre, dai successi romani contro i frisi e i cauci fino all'orrore negli occhi di un capitano tedesco che, il 7 marzo 1945, vede gli americani assaltare il ponte a Remagen; e la felicità di due abitanti dell'ex DDR quando finalmente visitano la rupe della ninfa Lorelei cantata da Heine. In un intreccio di storia, reportage e spunti autobiografici, la scrittura «vaga in quella terra di nessuno tra l'uomo e la natura, la fantasia e la scienza», e l'autore, «piccola presenza accidentale» nell'enorme meccanismo senza vita della natura, si lascia affascinare dal lavorio incessante dell'umanità sulle sponde del Reno, mentre lui, il Reno, scorre indifferente verso il mare.

È uno scrittore e giornalista olandese, autore di reportage, documentari, programmi radiofonici, saggi narrativi, racconti e romanzi che gli sono valsi importanti riconoscimenti di pubblico e critica. Iperborea ha pubblicato Per antiche strade, che combina ricerca storica, diario di viaggio e racconto, e il romanzo La nave faro.
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Tre milioni di anni fa una femmina di salmone di razza atlantica lasciò i suoi territori di caccia nell’Oceano Settentrionale e si diresse verso sud, per riprodursi nel fiume della sua infanzia. Era sola, abbastanza grande da affrontare il fiume, sicura della direzione da prendere. La terra la attirava a sé in modo quasi impercettibile e lei si opponeva a quella forza.

Era questo che voleva: andare controcorrente sempre e comunque.

Durante il viaggio a sud, tra la tremula luce del giorno di sopra e il nero dell’abisso marino di sotto, filò tutto liscio. Quando dall’oceano risalì nel Mare del Nord valutò i primi fiumi, veli sottili che arrivavano da foci lontane. Non c’era nulla che le fosse familiare, e continuò a nuotare.

Finché per la prima volta non riconobbe qualcosa, l’odore e il sapore del suo fiume: qualche minuscola particella di sedimento sospeso, un sentore acido di humus in un punto del torbido estuario che da est si apriva a ventaglio nell’acqua marina. Allora perse interesse per la forza di gravità della Terra e si concentrò sulle inconfondibili tracce del suo fiume, ancora molto flebili in quella corrente che si spandeva nel mare.

Diede un colpo di coda, modificò la rotta e nuotò controcorrente verso l’acqua torbida, la visuale sempre più scarsa, la corrente sempre più intensa, l’acqua prima salmastra e poi dolce, il naso pervaso da sentori di ogni genere.

Era come se l’avvolgesse qualcosa, un bozzolo capace di proteggerla dall’acqua dolce. Batteva forte la coda per contrastare la corrente, soprattutto quando la corrente si faceva talmente forte da spingerla indietro e l’acqua diventava bassa e imprevedibile, le pietre sotto il ventre, la pinna caudale sopra il pelo dell’acqua; e così continuava a cercare, a combattere. Spiccava salti e voli, gli orsi cercavano di sbatterla a riva, c’erano pericoli ovunque, ma lei proseguiva, perché a ogni colpo di coda le tracce di quel fiume erano sempre più forti; in quel miscuglio vertiginoso avvertiva proprio quel sapore, quello della sua infanzia, sempre più familiare e reale quanto più si sforzava di risalire la corrente.

Così ritrovò la foce, il fiume, la diramazione, un punto del corso superiore che le si era impresso nella memoria quand’era un giovane pesce, la stessa ansa del corso superiore nella quale sei anni prima era uscita dall’uovo. Sapori, odori, sensazioni erano gli stessi di allora. Soprattutto quando pioveva e dalle sponde la terra del bosco si riversava nel fiume. Nessun altro posto aveva lo stesso sapore di quello in cui era nata, proprio in quell’ansa del suo corso d’acqua natale. Era dimagrita, sfiancata, ma era a casa.

Con la bocca raccolse dei sassolini e li scagliò via, facendo posto per un nido in cui depose le uova. Qualche migliaio di piccole uova in una buca oblunga e poco profonda. Il padre, nato e cresciuto poco più a valle, ci spruzzò sopra il suo seme e poi, stanco di vivere, si lasciò trascinare a valle dalla corrente. Lei, per un altro paio di settimane, con la pinna caudale sollevò il sedimento dalle uova, agitandovi sopra l’acqua ricca di ossigeno. Sembrava uno zeppelin indeciso, un’ombra di un metro e mezzo che sovrastava le sue uova, la pinna dorsale che spuntava dall’acqua.

Poi partì anche lei, scarna, esausta. Sulle uova allungò i suoi raggi il sole invernale.

Questo avvenne tre milioni di anni fa, poco prima che il Reno alpino trovasse il proto-Reno e il fiume assumesse la sua forma attuale. Le estati erano ancora torride e gli inverni miti. Dai rami più meridionali del proto-Reno e il meandro più settentrionale del Reno alpino, ancora separati ma vicini, si estendevano foreste in ogni direzione. Mastodonti e rinoceronti si aggiravano tra gli alberi, strappando foglie dai rami. Macachi e scimmie urlatrici strillavano tra il fogliame. Nel fiume sguazzavano gli ippopotami.

Il cambiamento in atto era quasi impercettibile. Per la prima volta in centinaia di migliaia di anni, sulle montagne della Foresta Nera e sui Vosgi cadde un po’ di neve. E quando arrivò la primavera ci volle un po’ di tempo prima che si sciogliesse. Così l’acqua che scendeva a valle era fredda e pungente, neanche tanto sgradevole per le uova del salmone, che se rimangono al fresco si sviluppano meglio. L’acqua era limpida, le radici degli alberi sulle sponde trattenevano buona parte del sedimento. Solo i rovesci persistenti dilavavano il terreno dei boschi e per un po’ di tempo l’acqua si intorpidiva.

Il Reno com’era allora stava per scomparire. Col vento del Sud, i mastodonti che di sera andavano ad abbeverarsi sulla riva potevano già sentire l’odore dell’altra sponda. Alzavano la proboscide in aria, annusavano, scuotevano la testa, entravano in acqua, bevevano.

Quello che sentivano era l’odore del Reno alpino che avanzava, ampliando il suo corso sempre più verso nord: detriti, ghiaia, rocce frantumate, ghiaccio. Il mondo si stava raffreddando, d’inverno le cime dei monti erano sempre più innevate e ogni primavera l’acqua proveniente dalle Alpi scendeva un po’ più violenta dell’anno prima. I fiumiciattoli si cercavano, univano le forze, serpeggiavano, vagavano, scavavano deviazioni lungo il tragitto verso la piana di Porta Burgunda, tra i Vosgi e il Giura, che aveva alle spalle la valle del Rodano. L’acqua era di un bianco verdastro, lattiginosa e in primavera impetuosa. Trascinava macigni che rotolavano, alberi divelti che galleggiavano e si impigliavano raccogliendo rami e carcasse.

Ma questa primavera attorno al nido della salmona non c’è traccia di quella violenza. Le uova si sono schiuse. Sul nido adesso fluttua un banco di pesciolini; sono ancora allo stato di larva e vibrano fianco a fianco nella corrente. Hanno la pancia grossa, la coda minuscola, si nascondono tra i ciottoli, si nutrono del proprio sacco vitellino, fanno la posta a moscerini e pulci d’acqua. Assaggiano l’acqua e ne memorizzano il sapore.

La vita è identica a quella del padre e della madre sei anni prima; sopravvivere vicino al nido, bisticciare con i fratelli, dare la caccia alle bestioline d’acqua, mettersi al riparo prima dal tritone crestato e poi dal martin pescatore, dall’airone, dal pesce persico, dalle lontre, dagli orsi, finché dopo due anni, durante un acquazzone, i pochi sopravvissuti si lasciano portare dalla corrente per il loro primo grande viaggio verso il mare. L’acqua torbida è rassicurante perché, con la visuale limitata, per i pesci predatori non sono altro che brevi lampi argentati, fugaci raggi di sole. Se alla schiusa delle uova erano in migliaia, dopo due anni trascorsi nel fiume ne sono sopravvissuti meno di dieci. Ora partono, non in gruppo ma ognuno per conto suo, se ne vanno lontano dal nido, lontano dal corso superiore del loro piccolo ramo del proto-Reno. Una lontra scivola nell’acqua, ne vede sfrecciare uno, è una femmina, sferra un attacco, la manca, la segue con lo sguardo, la vede scomparire in una rapida.

Di tanto in tanto la corrente quasi si ferma in pozze profonde o crea dei mulinelli, e dopo un rovescio ritorna lentamente a scorrere. Le sponde si allargano, da ogni parte arrivano sapori sconosciuti. L’odore del nido svanisce, il fiume spinge e trascina, nell’acqua si stagliano ombre di pesci giganteschi, o salgono dalle profondità.

La salmona va sempre più lontano, fino a quando la corrente rallenta e nel fiume si insinua un sapore nuovo, inimmaginabile. L’acqua sembra indugiare, il fiume si biforca e poi dal fondo si sollevano banchi di sabbia che ostruiscono il passaggio. Lei indugia sulla soglia di un mondo nuovo, esplora le anse della foce finché non trova uno sbocco e la sabbia si inabissa. Le sponde scompaiono, l’acqua diventa salmastra e da qualche parte in profondità la attira una forza tenue, perfino più tenue delle ultime tracce del suo stesso fiume. A tratti avverte ancora un vago sentore di casa, una particella di sedimento che ha viaggiato con lei. Ma è ora di andare. Con un colpo di coda scompare verso nord.

Durante la sua assenza il fiume che si lascia alle spalle, di cui si è impressa nella memoria odori e sapori per il viaggio di ritorno, cambierà drasticamente. L’inverno è più freddo del solito, e la primavera che segue è turbolenta. Sulle pendici alpine la neve si scioglie, l’intricato reticolo di alvei che per qualche milione di anni ha convogliato l’acqua nel Rodano non riesce a reggere la piena. La corrente, respinta dall’accumulo di acqua, si blocca e cerca una via verso nord. L’acqua preme sugli alberi che crescono lungo le sponde e se li porta via. Qua e là rimangono incagliati, sbarrano passaggi, e allora l’acqua risale, straripa, spazza via il terreno del bosco, mette in fuga gli animali.

Nel punto più a nord, un ramo fluviale sul vecchio spartiacque si perde nel bacino del proto-Reno. Dove crescevano bacche e felci adesso scroscia l’acqua sporca che arriva dai ghiacciai, è in cammino, in cerca di una strada. Le tane degli orsi si allagano, tra gli alberi nuotano i cervi, un gatto selvatico si rifugia su un albero, si aggrappa a un ramo e guarda giù. Il terreno del bosco è diventato un lago turbinoso, con l’acqua che cerca una via verso valle, verso l’alveo di un torrente che sbocca nel fiume in cui è nata la salmona.

E così il Reno alpino trovò la sua strada verso il corso superiore del proto-Reno. L’acqua accumulata, che fino a qualche giorno prima stava ancora spingendo verso il Rodano, si sentì attratta dal percorso alternativo e cominciò a scorrere, all’inizio con calma ma poi sempre più rapida, da ovest verso nord....



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