E-Book, Italienisch, 320 Seiten
Reihe: Saggi
de Graaf Architettare, verbo
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-6783-483-9
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
La nuova lingua del costruire
E-Book, Italienisch, 320 Seiten
Reihe: Saggi
ISBN: 978-88-6783-483-9
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Che cosa intendono realmente gli architetti quando parlano di «eccellenza», «sostenibilità», «benessere», «vivibilità», «creatività», «bellezza» e «innovazione»? E cosa ci dice tutto ciò sul futuro delle nostre case e del nostro pianeta? Reinier de Graaf analizza con acutezza e ironia i continui incroci fra architettura, politica, finanza e potere, approfondendo come la loro interazione ha mutato l'aspetto e il destino delle città. Attraverso lo studio di alcune delle più note e importanti opere contemporanee e non, spunto di piacevoli quadri narrativi, Architettare, verbo affronta domande fondamentali: l'architettura è arte o servizio pubblico? Come diversificare committenza e finanziamenti pubblici e privati? Come affrontare il personalismo nel sistema dei premi? De Graaf ragiona poi sul valore simbolico del tempo, incrociandolo con il tema della sostenibilità, dagli elementi più generali alle proiezioni dei costi dei lavori che possono durare decenni, in balia di crisi finanziarie e politiche, locali e globali. Perché anche l'architettura è un pezzo della complessità.
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archistar - s. m. e f. inv.
Architetto/a la cui opera e successo di critica lo/a hanno trasformato/a in idolo del mondo dell’architettura: archistar
1. LACRIME E AMORE
«Senza imbarazzare Frank, dimmi cosa pensi dell’edificio.»
Frank ha le mani dietro la schiena. Visibilmente a disagio per la piega che ha preso la conversazione, si allontana dagli altri due uomini intenti a parlare. «Me ne vado», dice ridendo.
Ma Frank dovrebbe restare, è importante che senta.
I due proseguono la loro conversazione: «Ecco… dimmi… dimmi solo cosa pensi dell’edificio».
«Beh… sono come Mushamp del “New York Times”… non posso fare altro che dire “wow!”»
«Wow?»
«So che è un peccato, ma non ci sono parole. L’architettura non ha a che fare con le parole. Ha a che fare con le lacrime. E con l’amore…»
«Con le lacrime e con l’amore?»
«Provo la stessa sensazione nella navata della… cattedrale di Chartres.»
«La stessa sensazione che hai a Chartres?»
«Le stesse lacrime!»
«È travolgente…?»
«Mm…hm.»
«Per via del suo…?»
Non viene mai detto cosa sia il «suo…». La conversazione si interrompe. Parlare di lacrime dà la stura a lacrime vere. Non ha senso estorcere altri commenti a quest’uomo. La bellezza dello spazio è troppa, persino per un occhio allenato come il suo. Spingerlo a razionalizzare quel che prova sarebbe di pessimo gusto. Un braccio attorno a quelle fragili spalle è l’unica via d’uscita elegante. Scatta il flash di una macchina fotografica.
È il maggio del 1998: il programma , condotto dal giornalista omonimo, sta rendendo omaggio al Guggenheim di Bilbao e al suo architetto, Frank Gehry (Frank). L’uomo che scoppia in lacrime è Philip Johnson, il Nestore dell’architettura americana, primo vincitore del prestigioso Pritzker Architecture Prize e autore di un’opera che abbraccia sette decenni. Se la stima dei colleghi è una misura del successo, è difficile superare quello di Philip Johnson – anche quando, alla sua età, le emozioni hanno la meglio su di lui.
Nella vita Johnson si è commosso per molte cose. E soprattutto per cose che si contraddicono a vicenda. Dopo aver nutrito da studente una passione per l’architettura classica, da laureato è diventato uno dei primi promotori dell’architettura moderna. Ardente sostenitore del movimento nazista negli anni Trenta del Novecento, allo scoppio della Seconda guerra mondiale si è arruolato nell’esercito americano. Potente intermediario per l’architettura progressista durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, negli anni Ottanta all’improvviso si è convertito al postmodernismo, per poi tornare sui propri passi negli anni Novanta, dopo che il vento politico era di nuovo girato.
Cosa pensare delle lacrime versate da un uomo le cui convinzioni si sono dimostrate tanto mutevoli? Charlie e Frank, i suoi compagni nell’atrio del Guggenheim, sembrano domandarsi la stessa cosa. Chiedere a Philip Johnson di commentare l’opera di un collega architetto in un programma TV si dimostra rischioso. Il vecchio non vuole commentare. «Lacrime e amore.» Non gli vengono altre parole. Persino l’esclamazione «wow» gli resta strozzata in gola. L’intensità della sua adulazione non gli lascia altra scelta che mettere in imbarazzo Frank. È meglio che resti inascoltata.
Non sapremo mai cosa sia quel «…».
Una Lourdes per una cultura storpia
L’articolo cui si riferisce Johnson è una recensione di Herbert Muschamp, all’epoca critico d’architettura del «New York Times».1 Il pezzo era uscito circa sei mesi prima, al termine della costruzione del Guggenheim. Anche se la parola «wow» è assente dal testo dell’articolo, il recensore condivideva la venerazione incondizionata di Johnson per il museo. La prima riga – «Gira voce che i miracoli avvengano ancora!» – è riportata sulla copertina del «NYT Magazine» e funge da avvertimento per cosa seguirà. «Wow» è praticamente l’unica parola che non viene usata nel lungo, rapsodico omaggio all’opera di Gehry: «Pietra, vetro, titanio, curve, rette, opacità, trasparenza, apertura e chiusura si sposano in un’unione sensuale. Potreste pensare, mentre vi trovate in questo spazio, che la storia della Torre di Babele sia un mito inventato da persone che temevano la diversità», scrive il critico entusiasta. «Qui vedrete che molte lingue non solo possono coesistere, ma anche sussurrare in un’ampia e vibrante veduta del mondo.»
Lo stesso spazio che avrebbe poi fatto piangere Johnson spinge Muschamp a immaginare il finale alternativo di una scena biblica. Muschamp vede dappertutto la mano di Gehry. Persino le strisce pedonali fuori dall’edificio acquistano un significato: «Anche la linea tratteggiata di mezzeria e le strisce pedonali all’angolo della strada sembrano in qualche modo , una versione accidentale delle linee che gli artisti rinascimentali usavano con estrema precisione nei disegni architettonici per evidenziare le nuove leggi della prospettiva visiva».
Il disegno rinascimentale e le scene bibliche non sono le uniche cose che Muschamp legge nell’edificio di Gehry: «L’edificio da cui sono appena tornato è la reincarnazione di Marilyn Monroe. Ciò che nella mia memoria accomuna l’attrice e l’edificio è che entrambi rappresentano lo stile di libertà americano. Uno stile voluttuoso, emozionale, intuitivo ed esibizionista». E aggiunge, «è mobile, fluido, materiale, mercuriale, impavido, radioso e fragile come un bimbo appena nato. Non resiste, deve danzare insieme a tutte le voci che dicono “No”. Vuole occupare una gran quantità di spazio. E quando gli salta il ticchio, fa volare in aria il vestito».
La creazione di Gehry – «un santuario della libera associazione» – chiaramente libera anche Muschamp. Gli fornisce la licenza artistica di dedicare la recensione a sé stesso – non riguarda più l’opera dell’architetto, ma quella del critico. E lo confessa: «Dopo aver lasciato il suo [di Gehry] Guggenheim, un critico di architettura quarantanovenne potrebbe ritrovarsi improvvisamente a parlare con la voce di Marilyn Monroe. La presenza di Marilyn a Bilbao è solo una mia proiezione». È un’ammissione curiosa, alla fine del lungo articolo (quasi sedici cartelle), che l’ultimo debole tentativo del critico di spiegare l’importanza dell’edificio – «una Lourdes per una cultura storpia» – fa poco per mitigare: «Gli stolti vi offrono delle ragioni, i saggi non ci provano mai. In questo caso, un critico di architettura non ha alcuna scelta, se non essere stupido». A volte, avere troppe parole è come non averne nessuna.
Qualcosa di più audace, per favore
Pare che la prima proposta di Gehry per l’atrio fosse un parallelepipedo, ma che l’idea non avesse destato grande entusiasmo. Quando gli venne affidato l’incarico, i piani rettangolari erano già diventati un’anomalia nella sua architettura, perciò gli era stato chiesto qualcosa di più audace, qualcosa più «alla Gehry».2 Solo una proposta radicale, qualcosa che «sfidasse i limiti», avrebbe aiutato la città del nuovo museo.3
Bilbao non era certo la prima scelta per il Guggenheim.4 Nei primi anni Novanta del secolo scorso si trovava in una condizione di isolamento culturale. La concorrenza dei porti del Sudest asiatico aveva inferto un duro colpo ai cantieri navali, sprofondando la città, un tempo tra le più ricche di Spagna, in una grave recessione. Il debito era in aumento e la disoccupazione aveva toccato il 25%. Come se non bastasse, Bilbao era ciclicamente esposta agli attacchi terroristici dell’ETA, il movimento separatista basco.
Dopo aver perso il treno della prima rigenerazione spagnola, che aveva visto Barcellona ospitare le Olimpiadi e Siviglia l’Expo, il governo regionale basco si era imbarcato nel «Piano di Rivitalizzazione per Bilbao Metropolitana». L’obiettivo: portare la posizione economica e culturale di Bilbao a un livello paragonabile a quello delle principali città europee.
Fin dal suo concepimento il Piano prevedeva la presenza di un’istituzione culturale, e i primi contatti tra l’amministrazione basca e la Guggenheim Foundation risalgono al febbraio del 1991. All’epoca, la situazione economica della Guggenheim Foundation non era tanto diversa da quella di Bilbao: lo sforamento del budget per l’ampliamento della sede newyorchese e le costose acquisizioni di opere d’arte l’avevano lasciata a corto di liquidità e con debiti in aumento. Il rimborso di quei debiti era ulteriormente complicato dal fatto che il 95% delle opere del museo invece di essere esposto restava...




