Davis | Aboliamo le prigioni? | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 301 Seiten

Reihe: Indi

Davis Aboliamo le prigioni?

Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-3389-361-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale

E-Book, Italienisch, 301 Seiten

Reihe: Indi

ISBN: 978-88-3389-361-7
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Angela Davis, nota militante del movimento americano per i diritti civili sin dagli inizi degli anni Sessanta, è oggi una studiosa di fama internazionale che ha focalizzato il suo impegno in una delle battaglie più difficili: abolire il carcere. Con lucidità scientifica e un'instancabile passione ideale, Davis analizza il sistema «carcerario - industriale» americano - quello per cui due milioni e mezzo di persone sono detenute negli Stati Uniti - e mostra come questo modello fondi le sue basi economiche su una sorta di schiavismo morbido: donne abusate e farmacologizzate, manodopera a costo zero per le corporation, neri e ispanici a cui vengono negate istruzioni e assistenza sanitaria. Oggi più che mai, tutto questo ci riguarda. Le recenti rivolte e i fatti di Santa Maria Capua Vetere ci rendono impossibile ignorare le condizioni in cui sopravvivono i detenuti nelle carceri italiane e ci dicono quanto sia urgente ripensare il sistema penale. Parlare di riforma del carcere non è sufficiente, occorre spingersi a immaginare ciò che resta inimmaginabile anche per molti sedicenti progressisti: un mondo senza prigioni. In un clima ben diverso da quello in cui è apparso per la prima volta nelle librerie italiane- un clima in cui l'espressione «abolizionismo carcerario» si è fatta finalmente pronunciabile e dunque tanto più inammissibile - Aboliamo le prigioni? si conferma una piccola guida di resistenza, che a partire dalla battaglia contro il carcere diventa denuncia di ogni forma di oppressione, e alla fine chiama tutti direttamente in causa, perché le nostre idee cambieranno davvero soltanto quando saranno cambiati i nostri comportamenti.

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1
RIFORMA O ABOLIZIONE DEL CARCERE?
INTRODUZIONE


In gran parte del mondo si dà per scontato che chiunque sia stato giudicato colpevole di un reato grave vada in prigione. In alcuni paesi – compresi gli Stati Uniti – dove la pena capitale non è ancora stata abolita, un numero piccolo, ma significativo, di persone è condannato a morte per quelli che sono considerati crimini particolarmente efferati. Molti conoscono la campagna per l’abolizione della pena di morte, che in effetti è già stata abolita in quasi tutti i paesi. Persino i più strenui sostenitori della pena capitale ne riconoscono gli aspetti controversi, e sono davvero pochi quelli che non riescono a immaginare che si possa vivere senza di essa.

Il carcere, viceversa, è considerato un elemento inevitabile e permanente della nostra vita sociale. I più rimangono sorpresi nel sentire che anche il movimento per l’abolizione delle prigioni ha una lunga storia, risalente addirittura alla comparsa del carcere come principale forma di punizione. La reazione più naturale è quella di presumere che questi attivisti – persino coloro che si autodefiniscono consciamente «attivisti contro il carcere» – mirino semplicemente a migliorare le condizioni carcerarie o magari a riformare le prigioni in maniera più radicale. Quasi ovunque, abolire il carcere appare semplicemente impensabile e inverosimile. Gli abolizionisti vengono liquidati come utopisti e idealisti le cui idee sono, nel migliore dei casi, irrealistiche e impraticabili e, nel peggiore, sconcertanti e insensate. Ciò dà la misura di quanto sia difficile immaginare un ordine sociale che non sia fondato sulla minaccia di relegare certe persone in posti orribili allo scopo di separarle dalle loro famiglie e comunità. Il carcere è considerato talmente «naturale» che è estremamente difficile immaginare che si possa farne a meno.

Spero che questo libro incoraggi i lettori a mettere in discussione i loro preconcetti a proposito del carcere. Molti sono già arrivati alla conclusione che la pena di morte è una forma antiquata di punizione che viola i principi basilari dei diritti umani. Penso che sia venuto il momento di incoraggiare un dibattito analogo sul carcere. Nel corso della mia carriera di attivista contro le prigioni, ho visto crescere la popolazione carceraria statunitense con una rapidità tale che ormai molti membri delle comunità nere, latinoamericane e di nativi americani hanno molte più opportunità di finire in galera che di ottenere un’istruzione decente. Quando tanti giovani decidono di entrare nell’esercito per sfuggire all’inevitabilità del carcere, bisognerebbe chiedersi se non si debba tentare di introdurre alternative migliori.

La questione se il carcere sia ormai un’istituzione obsoleta è diventata particolarmente urgente alla luce del fatto che più di due milioni di persone negli Stati Uniti (su un totale mondiale di nove milioni) popolano attualmente le prigioni, i penitenziari, gli istituti minorili e i centri di detenzione per immigrati. Siamo disposti a relegare numeri sempre crescenti di persone provenienti da comunità oppresse dal punto di vista razziale in un’esistenza isolata, caratterizzata da regimi autoritari, violenza, malattie e tecnologie di reclusione che producono una grave instabilità mentale? Secondo uno studio recente, le carceri ospiterebbero il doppio di persone affette da malattie mentali rispetto a tutti gli ospedali psichiatrici degli Stati Uniti messi insieme.1

Quando iniziai a occuparmi dell’attivismo contro il carcere alla fine degli anni Sessanta, rimasi sconcertata nell’apprendere che i detenuti erano quasi duecentomila. Se qualcuno mi avesse detto che in tre decenni il numero delle persone rinchiuse in gabbia sarebbe decuplicato non ci avrei creduto. Penso che la mia reazione sarebbe stata più o meno questa: «Per quanto questo paese possa essere razzista e antidemocratico [ricordate che durante quel periodo le richieste del movimento per i diritti civili non si erano ancora concretizzate], non credo che il governo degli Stati Uniti potrebbe mai recludere così tante persone senza scatenare una potente resistenza pubblica. No, non accadrà mai, a meno che il paese non precipiti nel fascismo». Quella avrebbe potuto essere la mia reazione trent’anni fa. La realtà è che saremmo stati chiamati a inaugurare il XXI secolo accettando il fatto che due milioni di persone – un gruppo superiore alla popolazione di molti paesi – trascorrono la loro esistenza in posti come Sing Sing, Leavenworth, San Quintino e l’Alderson Federal Reformatory for Women. La gravità di queste cifre è ancora più evidente se si considera che complessivamente la popolazione statunitense è inferiore al 5% del totale mondiale, mentre gli Stati Uniti possono vantare più del 20% dell’intera popolazione carceraria. Per dirla con le parole di Elliott Currie, «il carcere è diventato una presenza incombente nella società [americana] in una misura senza precedenti nella nostra storia o in quella di qualsiasi altra democrazia industriale. Con l’eccezione delle grandi guerre, l’incarcerazione in massa ha rappresentato il programma sociale più compiutamente attuato dai governi dei giorni nostri».2

Nel riflettere sulla possibilità che il carcere sia obsoleto, dovremmo chiederci come mai così tante persone siano potute finire in prigione senza che ciò sollevasse dibattiti importanti sull’efficacia della detenzione. Quando negli anni Ottanta, durante la cosiddetta era Reagan, s’iniziarono a costruire altre prigioni e il numero dei detenuti crebbe sempre più, i politici sostennero che il «pugno di ferro» nei confronti del crimine – che comprendeva la certezza della pena e periodi detentivi più lunghi – avrebbe mantenuto le comunità libere dalla delinquenza. Tuttavia, la pratica delle incarcerazioni in massa di quel periodo sortì un effetto scarso o addirittura nullo sui dati ufficiali relativi alle attività criminali. Anzi, la crescita della popolazione carceraria non portò a comunità più sicure, ma piuttosto a ulteriori aumenti della stessa. Ogni nuova prigione ne generava un’altra. E con l’espandersi del sistema carcerario statunitense cresceva anche il coinvolgimento delle corporation nella costruzione delle prigioni, nel loro approvvigionamento di beni e servizi e nell’utilizzo di manodopera carceraria. Poiché la costruzione e la gestione delle prigioni iniziò ad attrarre ingenti capitali – dall’industria edilizia alle forniture alimentari, all’assistenza sanitaria – in un modo che ricordava la nascita del complesso militare-industriale, si è cominciato a parlare di un «complesso carcerario-industriale».3 Prendiamo il caso della California, il cui territorio negli ultimi vent’anni è stato invaso da strutture carcerarie. La prima prigione statale della California fu San Quintino, aperta nel 1852.4 Folsom, un altro noto istituto di pena, aprì nel 1880. Tra il 1880 e il 1933, quando a Tehachapi venne inaugurato un carcere femminile, non fu costruita nessuna nuova prigione. Nel 1952 fu inaugurato il California Institution for Women e quello di Tehachapi diventò un altro carcere maschile. In tutto, tra il 1852 e il 1955 sorsero in California nove prigioni. Tra il 1962 e il 1965 furono costruiti due campi di lavoro, nonché il California Rehabilitation Center. Nella seconda metà degli anni Sessanta non fu aperta nessuna prigione e neppure durante tutto il decennio successivo.

Un massiccio progetto di costruzione di nuove strutture detentive fu avviato invece negli anni Ottanta, vale a dire durante la presidenza Reagan. Tra il 1984 e il 1989 furono inaugurati nove istituti di pena, compresa la Northern California Facility for Women. Non bisogna dimenticare che c’erano voluti più di cento anni per costruire le prime nove prigioni californiane; in meno di un decennio quel numero è raddoppiato e durante gli anni Novanta se ne sono aggiunte altre dodici, tra cui due penitenziari femminili. Nel 1995 è stata inaugurata la Valley State Prison for Women, il cui intento dichiarato era quello di «fornire 1980 posti letto per le detenute del sovraffollato sistema carcerario californiano». Tuttavia, nel 2002 le detenute erano già 35705 e tutte le strutture femminili erano sovraffollate.

Attualmente in California ci sono trentatré carceri, trentotto campi di lavoro, sedici case di correzione per minori e cinque piccoli centri per madri detenute. Nel 2002 le persone incarcerate in questi istituti erano 157.979, compresi circa ventimila individui che lo stato trattiene per violazione delle leggi sull’immigrazione. La composizione razziale di questa popolazione carceraria la dice lunga. I latinoamericani, che adesso sono la maggioranza, ne costituiscono il 35,2%; gli afroamericani il 30%, mentre i detenuti bianchi sono il 29,2%.6 Attualmente ci sono più donne in prigione nello stato della California di quante ce n’erano nelle carceri di tutto il paese all’inizio degli anni Settanta. Anzi, la California può vantare il carcere femminile più grande del mondo, la Valley State Prison for Women, che conta più di 3500 recluse. Situato nella stessa città della Valley State e letteralmente dirimpetto a questa, c’è il secondo carcere femminile del mondo per grandezza – la Central California Women’s Facility – la cui popolazione nel 2002 è arrivata anch’essa alle 3500 detenute circa.7

Se si osserva su una carta della California la posizione delle trentatré prigioni statali, si può vedere che l’unica area che non sia densamente popolata di strutture detentive è quella a nord di Sacramento, anche se nella città di Susanville ci sono due carceri e nei...



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