D'Angelo | La città e i giorni | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 336 Seiten

Reihe: Narrativa

D'Angelo La città e i giorni


1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-064-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 336 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 979-12-5480-064-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Maurizio ed Emanuele sono fratelli e, come spesso accade ai fratelli, sono molto diversi tra loro. Il primo ha proseguito la tradizione familiare ed è diventato architetto; il secondo, più piccolo, ha una vaga vocazione letteraria e lavora da anni in organizzazioni umanitarie. Maurizio vive a Parigi con la moglie argentina Consuelo e la figlia Cristina, ma rientra a Milano quando, grazie al padre, viene coinvolto in CityDays, ambizioso progetto di un'archistar americana. Lo ritroveremo poi, tra vita e lavoro, tra fughe e pentimenti, a New York, in Israele e a Buenos Aires, dove cercherà di salvare il suo matrimonio. Emanuele, dopo una missione in un campo profughi congolese della quale conserva un vergognoso segreto, accetta un incarico nella travagliata Repubblica Centrafricana, e lì, in mezzo a intrighi e lotte di potere, dovrà occuparsi di un difficile caso di abusi sessuali su minori. I destini di Maurizio ed Emanuele sono davvero così distanti come sembra? Raccontando il nostro presente attraverso le tensioni familiari e l'impulso a scappare, vagare - per poi far sempre ritorno -, Filippo D'Angelo rende in modo perfetto il senso di incompiutezza di una generazione: diventare padri senza sapersi emancipare dal ruolo di figli.

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1


Ci fu un momento della sua vita in cui tutte le persone che già conosceva, o quelle che ancora incontrava grazie alla vigilanza del caso, ovunque si trovassero, qualsiasi cosa facessero, cominciarono a sembrargli le pedine di un gioco senza regole: nonostante i loro sforzi per orientarsi nel presente e dirigersi verso un futuro, avevano smarrito per strada la bussola e l’orologio.

Era un pensiero che lo visitava di continuo, assumendo le sembianze di volti scoperti il giorno prima o dimenticati da decenni: la giovane fumatrice di crack che una sera, al bancone di un locale di rue du Faubourg-Saint-Denis, gli aveva proposto un pompino in cambio di venti euro, per poi annunciargli, al suo rifiuto, l’intenzione di suicidarsi; l’ex compagno di liceo la cui militanza cattolica di un tempo si era tramutata, per un miracolo accertato da Facebook, in una recente conversione all’islam; il cliente che, dopo due lustri sprecati a edificare una famiglia borghese, gli aveva chiesto di restaurare un loft nel quale sarebbe andato a vivere con il fratello della moglie.

Sebbene avesse da poco avuto una figlia, e fosse approdato a un’isola incantata del proprio arcipelago interiore, esposta ai raggi del sole domestico e lambita dalle acque tranquille della perpetuazione, sentiva di appartenere anche lui a questa flotta di naufraghi, disancorati dal fondale delle loro esistenze e in viaggio verso un orizzonte sempre più simile al nulla, come se fosse stato il fondale stesso a muoversi, non solo le loro ondeggianti imbarcazioni.

La sua condizione di espatriato dilatava questo sentimento di statica deriva. All’estero si era costruito un lavoro, aveva messo su famiglia, coltivato amicizie. Ma la professione era una scelta di ripiego, la moglie, argentina, voleva che andassero a vivere in Italia, e la maggior parte degli amici erano lacerati anche loro tra paese d’origine e paese d’elezione. Come quello di ogni altro migrante, il suo esilio restava un confuso campo di forze, soggetto alla gravitazione congiunta degli antipodi. Non viveva né a Parigi né a Milano, ma in uno spazio immateriale teso tra le due città, le due culture e le due lingue; uno spazio perturbante, invaso da demoni estranei o familiari, che diveniva reale solo in occasione di rari sogni, quando Milano e Parigi si sovrapponevano per trasfigurarsi in un’unica metropoli dell’anima.

Al risveglio, Parigi faceva pesare su di lui la sua natura di organismo rigonfio. Con una densità umana doppia rispetto a New York, quadrupla a Londra e decupla a Roma, Parigi, chiusa nella morsa di una striminzita tangenziale, assomigliava sempre più a un ventre sul punto di esplodere. Le sue strade rigurgitavano di gente oziosa o affaccendata, ma tutti camminavano sui marciapiedi con una fretta il cui ritmo era scandito dal passaggio incessante di macchine, motorini, biciclette e monopattini; i tavolini nei dehors dei caffè e dei ristoranti erano minuscoli e innumerevoli, disposti in file serrate come i ranghi di un cimitero bellico; nel metrò affondavano più di quattro milioni di persone al giorno, schiacciate le une contro le altre come gli stracci di una necropoli della moda.

A Parigi gli sembrava impossibile tentare la fuga in una faglia del tessuto urbano: ogni vuoto era stato riempito dalla pressione dinamica del flusso di turisti e . I turisti si aggiravano prigionieri d’itinerari obbligati ma sempre più estesi, investendo spazi sino allora incorrotti. Gli abitanti delle gigantesche periferie, una popolazione giovane e, agli occhi dei parigini , selvaggia, perché famelica di consumi e assetata di sensazioni, scorrazzavano in quartieri prima loro preclusi; per romperne l’assedio, si era deciso di estendere la città oltre la frontiera della tangenziale, grazie a un ampliamento a trecentosessanta gradi della rete metropolitana: Parigi sarebbe andata verso la banlieue per evitare che la banlieue si spostasse a Parigi. Nel frattempo, l’unica via di scampo da un recintato presente si disvelava nei giorni in cui l’aria particolarmente secca accendeva improvvisi picchi d’inquinamento: le nitide prospettive urbane erano allora scompaginate da una bruma atemporale, come se la città sprofondasse in epoche passate o future, in un’atmosfera da inizio o da fine del mondo.

Maurizio lesse l’ora sul telefonino. Si alzò e guardò fuori dalla finestra, annoiato dallo spettacolo del sabato primaverile: un andirivieni di giovani coppie senza sesso, anziani benportanti, famiglie trainate da bimbi nel passeggino, celibi con cani di razze esotiche al guinzaglio. D’un tratto udì il rumore di una macchina farsi vicino. Vide un taxi svoltare l’angolo e fermarsi davanti al portone. Suo padre scese impugnando la borsa da viaggio.

Si erano sentiti al telefono qualche giorno prima. Il padre lo aveva chiamato per parlargli di lavoro: un’opportunità professionale a Milano. Maurizio si era esiliato a Parigi col fine di liquefare incrostazioni familiari e vincoli di appartenenza, il richiamo alla solidità di progetti situati in patria gli aveva lasciato presagire un pericolo di bracconaggio affettivo. Si era rifiutato di discuterne, limitandosi ad ascoltare per qualche minuto le perorazioni del padre, che di fronte alla sua resistenza aveva deciso, seduta stante, di andare a Parigi per tentare di convincerlo di persona, senza lasciarsi intimidire da minacce di rappresaglia formulate nel turpiloquio che il figlio maggiore, dai suoi vent’anni in poi, era riuscito a imporgli come loro registro di comunicazione (“Non fare lo stronzo, guarda che se vieni qui non ti faccio più vedere Cristina, e per giocare al nonno dovrai aspettare che a quel cazzone di Emanuele si buchi un preservativo”).

La proposta era il ruolo di responsabile di progetto per uno dei quattro grattacieli che sarebbero stati costruiti nell’area della vecchia Fiera, ribattezzata CityDays dagli investitori che si erano aggiudicati la gara di sviluppo immobiliare. L’inizio del cantiere era previsto per due anni dopo, in concomitanza con l’Expo 2015. La torre, flosciamente curvilinea, era stata disegnata da David Zieberman, amico di giovinezza del padre. Nato in Israele, dopo la guerra, da due polacchi sopravvissuti alla Shoah, emigrato negli Stati Uniti per studiare alla Columbia Graduate School of Architecture, formatosi nello studio di Philip Johnson, Zieberman era assurto alla notorietà, poco dopo i quarant’anni, con la realizzazione del Museo della Memoria di Vienna, quindi alla gloria grazie ad altri pochi ma visionari (era l’aggettivo giornalistico più usato per definire il suo lavoro) progetti, il più importante dei quali prescelto per la ricostruzione di Ground Zero: due torri dinoccolate simili a un alambicco di vetro fuso, intrecciantisi a tre livelli e alte cinquecentottantasei metri (gli stessi critici giornalistici che amavano definirlo visionario avevano fatto notare, malignamente, come questa cifra corrispondesse alla data della distruzione del Tempio di Salomone a opera dei Babilonesi). Alla fine degli anni Ottanta, chiamato a curare un allestimento alla Triennale e incaricato del progetto di un palazzo per uffici a Metanopoli, aveva trascorso un anno a Milano insieme alla moglie e ai tre figli. Maurizio serbava nebulosi ricordi di quell’uomo minuscolo e sorridente, che ogni tanto la sera arrembava casa loro con la sua famiglia un po’ piratesca, chiassosa e gioviale, sparigliando abitudini e orari.

Il padre, argomentando in favore della proposta, aveva rievocato la figura di uno dei tre figli di Zieberman, Ariel, il maggiore, che ormai viveva a Los Angeles, dove aveva un’agenzia di comunicazione specializzata in design e architettura, ma che voleva cambiare aria e trasferirsi in Europa. A occuparsi del progetto del grattacielo avrebbero potuto essere loro due: Maurizio per la progettazione, Ariel per il management; sotto la guida di Zieberman, ovviamente, e con la supervisione dello studio Regondi. Tentando di convincerlo, il padre aveva parlato del “loro” studio. Aveva cominciato a parlare del “loro” studio non appena Maurizio si era iscritto alla Facoltà di Architettura del Politecnico, aveva continuato anche dopo la sua partenza per Parigi, durante gli anni di gavetta da Fuksas e quelli come capoprogetto da Piano, e non aveva smesso nemmeno in seguito al lancio della sua attività di interior designer, limpida scelta di secessione filiale. Per quanto distante, il controllo paterno volteggiava sulla sua vita a volo di pipistrello: spinto da un moto preveggente e perpetuo.

Lo attese nel vano della porta d’ingresso. Si abbracciarono ed entrarono in casa. Non si vedevano da tre mesi, ma fu soltanto quando si sedettero in sala sulle poltrone Gio Ponti che il figlio notò l’ulteriore invecchiamento del genitore. Fino a qualche tempo prima era ancora un bell’uomo: alto e, nonostante l’età, quasi atletico, con folti capelli brizzolati e i volumi del volto poco alterati rispetto ai ritratti fotografici della giovinezza. Il passaggio dalla tarda maturità alla vecchiaia incipiente, iniziato qualche anno prima, dopo il divorzio dalla seconda moglie, si manifestava ormai con la prepotenza di un male a lunga incubazione: la schiena incurvata, i capelli sbiancati, le guance crollate, le palpebre ispessite, la sclera appannata, i denti ingialliti. Il suo corpo era ormai uno stillicidio di participi passati. Confrontato a questo mutamento che era sinonimo di mortalità ed estinzione, Maurizio reagiva assorbendone morbosamente le scorie: la notte,...



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