D'Ambrosio | Perdersi | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 321 Seiten

D'Ambrosio Perdersi


1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7521-789-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 321 Seiten

ISBN: 978-88-7521-789-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
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Perdersi è un libro che ci regala qualcosa di prezioso: la libertà di esplorare, il piacere di abbandonare le idee precostituite e abbracciare l'incertezza. D'Ambrosio instaura infatti un dialogo intimo con il lettore e, attraverso una prosa armoniosa ed equilibrata e uno stile geniale e frizzante, lo coinvolge in una conversazione continua con se stesso. La raccolta - che si colloca nella tradizione del New Journalism di Joan Didion e Hunter Thompson - si apre con due saggi mozzafiato ambientati a Seattle, luogo natale dell'autore, dissertazioni ironiche e decisamente folli sulla città prima che diventasse di moda, passando poi a un brillante scritto su Il giovane Holden in cui si esplora la perdita di identità. Ma che parli di una città, un personaggio o la sua stessa storia familiare, è l'isolamento il grande soggetto di D'Ambrosio che in Perdersi, attraverso il linguaggio del saggio narrativo, sfida le convinzioni mettendosi in discussione in un modo che una storia o un racconto breve non avrebbero permesso. Un esempio lucido e spettacolare di moderno romanzo.

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UNA SORTA DI PREFAZIONE


A Seattle c’è una vecchia fermata d’autobus che è forse per me il luogo più desolato del mondo, ed è stato lì, leggendo nella luce fioca, che ho scoperto per la prima volta la forma letteraria del saggio. Ancora adesso, quando ci passo in macchina, guardo quella fermata, sperando di vedere uno dei miei fratelli o sorelle, anche se la fermata vera e propria è stata spostata in un punto migliore e la famiglia a cui potrei dare un passaggio non c’è più. Ma per gli standard dell’epoca era un ottimo posto per aspettare l’autobus; in realtà erano le scalette di marmo davanti all’ingresso di una casa, fredde ma coperte da una tettoia, in grado di offrire riparo dal vento e dalla pioggia e una luce sopra il portone che bastava per poterci leggere. Bisognava sedersi sul gradino più alto e chinarsi in avanti e armeggiare con il libro per ottenere l’angolazione giusta ma, una volta trovata, le parole sulla pagina si mettevano a fuoco. E come se non bastasse sull’altro lato della strada c’era una libreria che rimaneva aperta fino a tardi. Era uno di quei negozietti che compensano l’esiguità dell’assortimento con il buon gusto, una libreria di cui ci si poteva fidare, e la prima che avessi mai conosciuto a regalare segnalibri, idea che all’epoca mi era parsa infinitamente scaltra. Avevo appena capito, con una certa ingenuità, che mi potevo comprare i libri da solo, e quasi all’istante ero diventato inflessibile sulla loro condizione, tanto che non li prestavo a nessuno, o quantomeno non senza una solenne predica sul modo corretto di maneggiarli: niente incrinature sulla costa, niente orecchie per tenere il segno, niente impronte di polpastrelli unti sulle pagine. A casa disponevo della mia struttura un po’ traballante di scaffali fatti di tavole e mattoni, due e poi tre piani di orrido cartone pressato, dipinti di marrone e impilati contro il muro: il mio primo mobile. Fra me e me, pensavo a quella libreria con immenso orgoglio, perché la stavo costruendo io, libro dopo libro, mattone su mattone, e spesso la guardavo, con vaga soddisfazione, come un operaio che valuta lo stato d’avanzamento di un lavoro. Volevo che crescesse fino a toccare il soffitto, e capii che, per arrivarci, mi bastava leggere.

La mia concezione del saggio come genere letterario non riesco a separarla da quelle prime esperienze di lettura. Comprai la mia prima raccolta di saggi in quella piccola libreria, su consiglio del commesso, e mi innamorai della scrittrice M.F.K. Fisher, le cui opere sulla gastronomia non avrebbero potuto essermi più aliene, dato che ero cresciuto in una famiglia numerosa, dove bollivamo qualunque cosa in grossi pentoloni, bevevamo latte in polvere e mio padre, in risposta alle lamentele su quello che avevamo nel piatto, stringeva il pugno della mano libera, conficcava la forchetta nella sua porzione della pietanza incriminata e diceva: «Mangia. Dentro la pancia non fa differenza». In piena età adulta ancora mi vergognavo ad aggiungere il pepe alle portate del ristorante, per paura che potesse sembrare un’offesa al cuoco. Comunque sia: era durante i pranzi in famiglia che imparavamo l’indifferenza nei confronti del nostro corpo, ma è stato nella prosa, in particolare in quella della saggistica autobiografica, che ha cominciato a ristabilirsi – almeno per me – un rapporto con quel corpo. Una delle prime idee che ho concepito sulla scrittura vedeva i ritmi della prosa come derivazione di quelli del corpo, ma anche se ne resto convinto, ancora non so bene cosa significhi. Avrei scoperto, col tempo, che l’amore della Fisher per il cibo era una trionfante ribellione contro una tirannia simile vissuta in famiglia, un rifiuto delle regole soffocanti e delle restrizioni suntuarie imposte da sua nonna. La prosa si muove in maniere così misteriose che credo di aver percepito questo fatto non dichiarato nel ritmo delle frasi prima di vederlo confermato nella sua biografia. Mi arrivava sottovoce, sussurrato su una frequenza più bassa, come un segreto condiviso fra amici intimi. E così, se ad attirarmi è stato forse il tema apparente dei saggi della Fisher, che mi presentavano un mondo fantastico in cui il foie gras e il Dom Pérignon avevano la loro importanza, ben presto fu la scrittura in sé, e in particolare il diritto che l’autrice si arrogava a raccontare con esattezza la propria vita, a conquistarmi del tutto. Più che le meraviglie della Provenza o i consigli su come servire la lingua di pavone sul pane tostato, fu la sua prosa a insegnarmi a prestare attenzione, e fu la forma del saggio a rappresentare il contenitore, l’oggetto che raccoglieva e custodiva le parole come acqua santa, offrendo il dono della consapevolezza, la semplice cortesia del riconoscimento, anche a una vita banale come la mia.

Seguirono altri autori di saggi, e li lessi in lunghe tirate piene di passione: tutta Joan Didion e tutto George Orwell, tutti Susan Sontag e Samuel Johnson, Edward Abbey, Hunter Thompson e James Baldwin, vivendo per settimane di fila dentro le frasi di un unico scrittore, escludendo altri autori, altri tipi di lettura. Come lettore di poesia e di romanzi ero promiscuo, ma i saggi erano i miei amici fidati. C’era qualcosa, nella natura del saggio autobiografico, che deve avermi educato e stimolato a questo atteggiamento. E si vede che avevo bisogno di quel tipo di legame stretto, di quella guida: la voce che restava salda di fronte al dubbio, l’uomo con qualche difetto che i suoi difetti li rivelava, la donna schietta che semplicemente . Erano mio fratello e mia sorella: perché i saggi per me non sono mai stati un padre né una madre. I saggi erano opera di individui come me, che si confidavano, incerti, solitari, liberi, e anche in quelli meglio riusciti c’era sempre un che di incompiuto, una nota di esitazione, che li rendeva più accessibili. Un buon saggio sembrava mettersi in discussione come invece un romanzo o un racconto non facevano; o forse era solo che il saggio autobiografico lasciava le sue domande sulla pagina, sotto gli occhi di tutti: era un luogo dove mettere in dubbio se stessi, dove fare un tentativo il cui esito non era affatto scontato. Il fatto che una mente umana si rivolgesse con tanto candore a un’altra mente esercitava su di me un fascino fuori dal comune in un momento in cui non mi rendevo neanche conto di subirlo. La sera tardi, mentre aspettavo l’autobus seduto su un gradino freddo, le conversazioni gratuite e libere in cui grazie ai saggi mi ritrovavo coinvolto mi sembra che si accordassero a meraviglia con il mio modo di vivere di allora.

Per dare un’idea dell’essenza del saggio come la percepivo istintivamente allora, e come la comprendo meglio adesso, mi fa piacere citare – un po’ a sproposito – questo passo di Patricia Hampl.

Nella prima pagina delle , [Agostino] pone un problema che suona moderno e familiare: «Ma chi può invocarti senza conoscerti?» Ci troviamo, in altre parole, di fronte al problema della famigerata assenza di Dio. Agostino muove un passo verso Occidente: cerca la fede il proprio dubbio: «O non sarà piuttosto che ti si deve invocare per conoscerti?» Il presupposto, qui, è che la fede non vada confusa con la certezza: l’unica cosa su cui possiamo davvero contare è il desiderio, con i suoi occulti dettami. E dunque, si chiede Agostino, ciò significa che la preghiera deve venire della fede? Per quanto sia illogico, forse il non sapere è la prima condizione della preghiera, piuttosto che la sua negazione. Possibile?

Cercare la fede per mezzo del dubbio, per me questa è una definizione più che sufficiente. O al limite togliamo la parola fede, se proprio volete, e fermiamoci al cercare con il dubbio. E al desiderio. E al non sapere. E agli occulti dettami del desiderio.

E al muovere un passo verso Occidente.

Ho scritto i primi di questi saggi per , una rivista di Seattle, perché nessun altro mi dava dodici cartelle di spazio e accettava di non cambiarmi nemmeno una virgola: a un accordo del genere si riesce ad arrivare a condizione che si sia disposti a lavorare quasi gratis. Ma anche se il compenso non era principesco, la libertà di cui godevo era assoluta, e in quel periodo della mia vita la libertà di pensare e scrivere quello che mi pareva era per me molto più importante dei soldi. Mi sentirò sempre profondamente in debito con , e non c’è niente che mi faccia più piacere di ringraziare quei temerari nella mia prefazione.

Su ognuno di quei pezzi ci lavoravo per una quantità di tempo assurda, con un’ostinazione alimentata, in parte, dalla vanità. Volevo che la scrittura vivesse di vita propria e che per farsi strada nel mondo non dovesse affidarsi alle opinioni superficiali o alle realtà effimere dei settimanali e delle riviste alternative. Con una spocchia abbastanza insopportabile, mi consideravo un saggista e mi ribolliva il sangue quando gli amici e i parenti con cui discutevo si riferivano alle mie pubblicazioni con il termine «articoli». L’argomento di quei pezzi contava, certo, ma per me era importante che fossero le frasi, da sole, a risultare convincenti. In pratica questo significava che spesso e volentieri non avevo idea di cosa stessi scrivendo, non mi muovevo secondo un progetto o un obiettivo particolare, finché non cominciavo a mettere le parole nero su bianco. Mi fidavo del mio orecchio a un livello ridicolo, convinto che se avessi azzeccato il suono – la musica, l’atmosfera, l’essenza delle cose – alla fine magari si sarebbe manifestato anche il senso. A volte il senso compariva, e altre volte, in quel continuo e combattuto procedere per tentativi che sta al...



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