E-Book, Italienisch, 261 Seiten
D'Ambrosio Il suo vero nome
1. Auflage 2014
ISBN: 978-88-7521-626-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 261 Seiten
ISBN: 978-88-7521-626-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Il libro d'esordio che nel 1995 ha svelato al pubblico americano Charles D'Ambrosio, immediatamente considerato uno dei migliori scrittori della sua generazione. Sette lunghi racconti sul dolore e la speranza, lo smarrimento e la scoperta di sé, popolati di bambini troppo saggi e adulti allo sbando, morti ingiuste e attimi di redenzione. Ogni pagina ha il dono della grazia, ed è impossibile non restarne incantati.
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IL SUO VERO NOME
1.
Il cranio della ragazza sembrava strinato dal fuoco: ciuffi di capelli rossi stopposi che si allontanavano serpeggiando dal viso ma poi si attaccavano alla pelle, dove restavano incollati dal sudore, dalla crema solare e dalla polvere e dalla sporcizia del viaggio. Per un po’ i capelli sottili erano rimasti chiari e puliti come le piume di un pulcino, ma faceva sempre più caldo a mano a mano che viaggiavano verso ovest, diretti verso un’estate di siccità che inaridiva il paesaggio, seccava l’erba e squagliava l’asfalto nero della strada fra un giunto e l’altro, gonfiava come palloncini i cadaveri dei procioni, dei cervi e dei cani e faceva tremolare come un miraggio tutto ciò che compariva davanti a loro sulla carreggiata, in mezzo alle onde del calore che si alzava. Da quando erano partiti da Fargo aveva cominciato a fare troppo caldo per la parrucca, che adesso era posata sul sedile in mezzo a loro e conservava ancora la forma della testa della ragazza. E lì accanto, un sacchetto di caramelle all’arancia – , le chiamava lei – mezzo rovesciato sulla plastica del sedile. I cristalli di zucchero andavano a infilarsi nelle cuciture sporche e le si appiccicavano alla coscia. Il pavimento era cosparso di carte di chewing-gum e sacchetti bianchi unti, e sul cruscotto, semicoperto da un mare di bicchieri di plastica, monetine e fiammiferi, un adesivo si arricciava su se stesso per il caldo. Diceva ASPETTATI UN MIRACOLO.
La ragazza teneva in grembo una Bibbia nera, con la copertina di pelle logora e rovinata come un paio di vecchie scarpe da tennis. Sul risguardo c’era un albero genealogico che risaliva al 1827, con i nomi scarabocchiati fitti fitti in nero sulla carta pergamena ingiallita, una genealogia ponderosa come quelle della Genesi, il libro in cui si elencano le generazioni discese da Adamo. Per l’uomo, che si chiamava Jones, la lista di antenati sul risguardo era storia antica senza senso, ma la ragazza diceva che la sua famiglia si portava dietro quella stessa Bibbia dappertutto da centocinquant’anni, e la voleva con sé anche lei. «Questa sono io», aveva detto, mostrando a Jones il suo nome, il più recente di tutti, scritto con grandi occhielli in inchiostro blu di penna Bic. L’aveva segnato lei stessa lungo il margine della pagina: . Mentre viaggiavano la ragazza leggeva brani ad alta voce, evocando un misto di bellezza epica e brutti ricordi, l’Esodo e la cinghia di pelle che il patrigno usava per frustarla ogni volta che infrangeva un comandamento: uno dei dieci originari o uno di quelli che aveva aggiunto lui. Jones non capiva bene quanta fede avesse, lei, nel Cristianesimo austero dei suoi progenitori, ma quando leggeva sembrava cadere in preda a un incantesimo. Aveva una bellissima voce, formatasi nei cori parrocchiali, che sollevava ogni versetto dalla pagina e lo trasformava in una melodia rasserenante, un canto il cui tono salvifico si alzava e si abbassava in un modo che sembrava andare al di là delle rigide pretese della fede. Solo pochi minuti prima si era addormentata leggendo un passo di Geremia.
Adesso, quasi si fosse accorta che Jones la fissava, la ragazza si mosse.
«Mi stavi guardando», disse. «Stavi pensando qualcosa».
Aveva un viso senza forma, morbido e pallido come plastilina calda.
«Lo sentivo», aggiunse. «Dove siamo?»
Non avevano fatto più di un paio di chilometri da quando si era assopita. Prese il sacchetto di caramelle dal sedile.
«Hai fame? Ti va un sorriso, Jones?»
«No, per me no, grazie», rispose lui.
«E una di queste col buco?» Gli porse il pacchetto aperto.
«No, niente, grazie».
«Mangio le caramelle e mi cadono i denti». La ragazza leccò via lo zucchero da un sorriso e chiese: «Quanto manca a Las Vegas?»
Jones infilò un nastro nello Stereo-8. Era al volante di una Belvedere del 1967 che aveva comprato per settecento dollari in contanti a Newport News, e la macchina aveva in dotazione un grosso lettore Stereo-8, una sorta di organo atavico imbullonato sotto il vano portaoggetti del cruscotto. Nel portabagagli aveva trovato due nastri e ormai, dopo più di duemila chilometri, era abbastanza stufo sia di Tom Jones che degli Steppenwolf. Ma preferiva il suono a bassa fedeltà di quei nastri al suono della propria voce quando mentiva.
«», cantò sulle note del pezzo, in una parodia di falsetto, «».
«Quanto manca?», chiese la ragazza.
Jones cambiò la presa sul volante. «Un altro giorno, più o meno».
Lei sembrò riaddormentarsi, con le palpebre secche chiuse come quelle di una lucertola, le labbra asciutte e screpolate semiaperte, il corpo fragile abbandonato al dolce sballottolare della macchina. Jones tornò a concentrarsi sulla strada, un’ipnotica linea nera che si snodava tra onde di erba gialla. Gli sembrava che stessero attraversando il Montana orientale da un’eternità, che fossero sempre gli stessi due o tre alberi, le stesse due o tre fattorie e silos di grano a scorrergli accanto come il fondale di un vecchio film, solo per dare l’illusione del movimento. I campi senza fine, infuocati sotto lo sfolgorio del sole, erano di tanto in tanto interrotti da gruppi di pioppi o dallo chassis sventrato di una macchina coperta di ruggine. Fienili cadenti si piegavano sopra l’erba, cedendo al vento torrido e all’ostinata piattezza, quasi accettando passivamente le leggi di un mondo il cui unico segno di riconoscimento, per quanto poteva vedere Jones, era l’orizzonte piatto.
«Lui è qui vicino», disse la ragazza. «Quando chiudo gli occhi sento la sua presenza. Lo sa dove siamo».
«Ne dubito molto», disse Jones.
La ragazza fece lo sforzo di girarsi, aggrappandosi al poggiatesta. Guardò dal lunotto posteriore il nastro ricurvo di asfalto che si assottigliava riducendosi a una punta di spillo sul confine labile con il mondo che si erano lasciati alle spalle: era da quel punto di fuga che sarebbe arrivato suo padre.
«Secondo me fra poco ci riacchiappa», disse. «Ha un sesto senso. Una volta ha pure predetto un terremoto».
«Questo è un paese enorme», rispose Jones. «Saremmo potuti andare da un milione di altre parti. Magari se ti metti a pensare intensamente alla Florida gli fai sballare tutta la strumentazione ultrapercettiva».
«È la preghiera», disse la ragazza. «Lui prega. È molto semplice. E noi siamo come Giona che cercava di imbarcarsi di nascosto per Tarsis; alla fine viene scoperto».
La ragazza chiuse gli occhi; si versò un po’ d’acqua in faccia e sul petto.
«Fa un caldo boia», disse. «Parlami un altro po’ degli eschimesi».
«Non è che ho molto altro da dire sugli eschimesi», disse Jones. «Ho letto solo quel libro».
«Allora raccontami di nuovo quello che hai detto prima. Non importa».
Lui rovistò nella memoria in cerca di qualche ricordo delle pagine di Knud Rasmussen.
«Non sprecano niente», disse infine. «Usano tutto quanto. Gli Inuit sanno costruire una slitta con il cadavere di un cane. Ammazzano il cane e lo scuoiano, poi tagliano la pelle in due strisce».
«Sto morendo di caldo», disse la ragazza.
«Poi le arrotolano e le lasciano gelare nell’acqua, per fare i pattini. E alla fine li uniscono fra loro con le costole del cane». Jones addentò l’angolino di un sorriso. «Un minuto prima il cane trainava la slitta, e un minuto dopo la slitta è lui». Vide che la ragazza si era addormentata. «Ironia della sorte», disse, e poi ripeté la parola: «Ironia». Gli sembrava debole, inadeguata: non descriveva nulla; continuò a guidare in silenzio. Al di là del parabrezza vedeva un paesaggio troppo esteso perché l’occhio riuscisse a misurarlo: l’ampiezza schiacciante dei campi bruciati e il sottile filo nero della strada che svaniva in un enorme cielo azzurro, come se le nuvole ammassate all’orizzonte fossero lontane città e loro ci stessero andando.
Prima lei lavorava alle pompe di benzina e alla cassa di una stazione di servizio nel sud dell’Illinois: una ragazza sottile come uno stecchino, con i capelli duri e rosso ruggine, le unghie mangiucchiate e scheggiate e gli occhi verdi spenti. Portava una tuta grigia che le si gonfiava attorno al corpo come un costume da pagliaccio, le maniche e le gambe troppo lunghe arrotolate a formare grossi risvolti. «Io il mare non l’ho mai visto», gli aveva detto, indicando i resti di un adesivo mezzo staccato dal paraurti. VADO A VELA, diceva. Mentre Jones faceva il pieno lei era rimasta a guardare accanto alla pompa. Le luci azzurre sopra di loro pulsavano a ritmo con il frinire delle cicale che riempiva l’aria, ed entrambe le cose erano una presenza vicina e confortante rispetto alla terra nera che si stendeva tutto attorno alla stazione di servizio. Jones avrebbe voluto dire alla ragazza che le bastava guardarsi intorno, in quel preciso momento: quella distesa piatta di nulla equivaleva perfettamente a un mare. Invece, tanto per fare due chiacchiere, le disse: «Io mi sono appena congedato dalla marina».
«Sei di queste parti?», gli chiese lei.
«No», fece lui.
Finì di riempire il serbatoio e infilò una mano dentro l’abitacolo, perché teneva i soldi infilati dietro l’aletta parasole.
«Lo sapevo. Ho visto la targa».
Jones le porse una banconota da venti presa dal rotolo della paga. Quel denaro rappresentava gli ultimi sei...