D'Ambrosio | Il museo dei pesci morti | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 288 Seiten

Reihe: Sotterranei

D'Ambrosio Il museo dei pesci morti


1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-7521-625-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 288 Seiten

Reihe: Sotterranei

ISBN: 978-88-7521-625-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Che siano falegnami sul set di un film porno, puntigliosi riparatori di macchine da scrivere o sceneggiatori di successo finiti in un ospedale psichiatrico, i personaggi di questi otto racconti lottano per superare il trauma di un abbandono o di una violenza, per comprendere la deriva delle persone amate, per mantenere la propria umanità in un'America marginale e dolente, provinciale e uggiosa. La scrittura precisa e potente di Charles D'Ambrosio - schivo e poco prolifico, ma acclamato dalla critica americana come uno dei maestri della narrativa breve - li riscatta, regalandoci un capolavoro dal fascino oscuro da cui, come ha scritto il Seattle Times, «è quasi impossibile staccare gli occhi». «D'Ambrosio scava in una vena ricca, profonda e pericolosa del cuore di roccia spezzato della narrativa americana. I suoi personaggi vivono vite che ardono di una luce cupa e intensa come la prosa che li crea. Nessuno, oggi, scrive racconti migliori di questi». Michael Chabon

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Lo Spartiacque Alto


All’Istituto mi svegliavo presto, quando le suore ancora dormivano, e me ne andavo al negozio del vecchio cinese. Il vecchio cinese era un uomo brunastro, nodoso e rattrappito che sembrava un pezzo di radice di zenzero e aveva uno di quei negozietti minuscoli che vendono pompelmi, vino e carta igienica e nessuno capisce mai come fanno i proprietari a camparci. Ma lui ci campava, si vede che aveva trovato un sistema. La sua vecchia moglie cinese era una donnetta esile come un ramoscello che se ne stava seduta su una sedia senza mai dire una parola. Lui parlava inglese solo quel tanto che bastava per mandare avanti gli affari, per dire buongiorno e buonasera, per dare il resto, anche se ogni mattina, quando andavo a comprare il mio pompelmo, cercavo di insegnargli qualche parola utile.

Mi riparai dalla pioggerellina grigia entrando dalla porta a vetri con la vecchia scritta ancora stampata sopra, e facendo rintoccare un campanaccio di rame; il negozio era freddo, le luci non erano neanche accese. Mi avvicinai alla cassetta di plastica e frugai un po’ tra i pompelmi fino a trovarne uno che non era male, una palla gialla, morbida e squadrata a forza di stare ficcata lì dentro, poi andai alla cassa. Il cinese non c’era. La minuscola moglie ramoscellesca era seduta sulla solita sedia, tutta curva su se stessa. Io mi rovistai nelle tasche per fare scena, pur sapendo benissimo che i soldi non mi bastavano. Tirai fuori ventisette centesimi, mezza graffetta, il cappuccio di una penna e una pallina di lanugine azzurra. Le misi i soldi in mano e lei li fissò. Dal tintinnio solitario che fecero le mie monete da cinque e da uno quando la donna le ripose nei diversi scomparti capii che la cassa era vuota. Guardai alle spalle della cinese, oltre la tenda a perline, spiando nell’appartamentino sul retrobottega. Accanto al lavello della cucina c’era una mela addentata, e la parte morsa era diventata scura come una risata vecchia.

Avevo il pompelmo in mano; lo tirai in aria e lo riacchiappai.

Lui dov’è?, chiesi.

Lei stava masticando un tocchetto di zenzero e me ne offrì un po’; accettai. Al mattino, i due cinesi masticavano radici di zenzero invece di bere il caffè.

Suo marito?, dissi.

Lei mi guardò interdetta e sputò a terra. , disse. .

Giunse le mani, intrecciando i piccoli stecchetti marroni che erano le sue dita. , ripeté, toccandosi il cuore e poi separando le mani e aprendo le braccia. La sua voce cantilenante riecheggiò fra le pareti spoglie. Agitò le mani come le ali di un pipistrello. Io scossi la testa. , insistette. Eh?, feci io, ma capivo che potevamo continuare così in eterno senza venirne a capo. Lei si strinse le braccia attorno al corpo, come se avesse freddo. Io non sapevo cosa dire. Aveva fatto tutta quella strada, aveva lasciato la Cina e attraversato l’oceano, era venuta a Bremerton e aveva aperto un negozietto, messo pompelmi nelle casse e bottiglie di Mogen David sugli scaffali, ma evidentemente aveva fatto un passo troppo grande, perché ora non era più capace di dire a nessuno che cosa le stava succedendo.

All’Istituto portavo avanti due progetti. Stavo leggendo l’enciclopedia, assimilando poco a poco tutto il circolo della conoscenza a disposizione dell’uomo, come diceva l’introduzione. Avevo cominciato con Ignazio di Loyola, perché è da lui che prendo il nome, e con l’Inquisizione, e da lì ero passato subito all’argomento della tortura.

L’altro progetto consisteva nell’imparare il latino in modo da poter fare il chierichetto. L’idea mi era venuta una mattina nella chiesa del Sacro Cuore, mentre guardavo l’altare gelido e il crocifisso e strizzavo l’occhio al Cristo inchiodato lassù per vedere se mi restituiva il saluto. Il nostro prete diceva che si rifiutava di officiare nella lingua del popolo perché era volgare. Se foste il Padreterno, diceva, vorreste stare a sentire quello gnaulio? Diceva che nella Chiesa ogni cosa era un segno che rimandava a qualcos’altro, e il sacerdote era quello che conosceva tutti i segni, ma anche il chierichetto ne conosceva qualcuno. Io giravo gli occhi dappertutto e studiavo il presbiterio della chiesa. Con l’altare di marmo bianco come la neve, la cupoletta dorata del tabernacolo e le sue porticine, i calici e le ampolline, i fiori freschi, la luce brillante delle candele, mi sembrava un paese straniero, e se ne avessi conosciuto la lingua ci sarei potuto entrare.

Diverse volte lessi il messale fino all’Elevazione Minore, la parte della messa che viene subito dopo la preghiera per i defunti. Ma tentavo di imparare il latino per via soltanto fonetica – il messale era scritto in latino da una parte, in inglese dall’altra – e non c’è bisogno di dire che non ci capivo un bel niente, e mi ritrovavo sempre a dover cominciare da capo.

A scuola, gran parte delle lezioni si concentravano sui modi per entrare in Paradiso. Suor Eulalia, che ci insegnava il catechismo, ci spiegava cos’era il peccato e come si faceva a guadagnarsi la salvezza. Era una vecchia bassa e larga con gli occhiali spessi e gli occhi azzurri che vagavano dietro le lenti come pesci tropicali. Continuava a chiamare Gesù la Sacra Vittima e il Verbo Fatto Carne e il Sacrificio Senza Macchia. Diceva che sacrificare non significa uccidere ma rendere sacro. Noi siamo fatti a immagine e somiglianza del grande mistero divino ma per colpa dell’ignoranza e della mancanza di fede abbiamo la vista annebbiata. La salvezza, ci diceva, è la nostra presenza sotto una luce piena, dove diventiamo infine l’immagine e il riflesso perfetti del Creatore.

Ci fecero vedere una serie di diapositive sullo scapolare. C’era un ragazzino che passava in bicicletta accanto a una pompa di benzina. Un tale stava riempiendo il serbatoio della sua macchina, con la famiglia che aspettava dentro. Poi ecco che la pompa di benzina era in fiamme e il ragazzo volava per aria. Morivano tutti tranne il ragazzo, che indossava lo scapolare. Suor Eulalia distribuì dei moduli in bianco per ordinare uno scapolare per corrispondenza, e ci disse di compilarli e di portare due dollari e mezzo la volta dopo, se ci sembrava che fosse prudente possederne uno. Io però avevo già speso tutti i miei soldi in pompelmi.

La sera, a letto, mi esercitavo con le preghiere. All’Istituto dovevamo impararne a memoria un’infinità: il Padre Nostro, l’Ave Maria, il Gloria, l’Atto di Fede, di Speranza, di Amore, di Dolore. Recitare le preghiere mi faceva venire sonno, oppure mi faceva pensare alle ragazze. Una volta durante la lezione passai un bigliettino a una mia compagna e suor Josephine, quella incaricata di sorvegliare la condotta, lo intercettò e mi disse che un bambino della mia età non sa un bel niente dell’amore e non deve usare la parola in quel modo. Quel tipo di amore è speciale, mi disse, è un dono raro che viene da Dio, è la consumazione di un’unione, e non è assolutamente roba per bambini. Suor Josephine lo chiamava l’Atto del Matrimonio. Mi vergogno ad ammetterlo ma mi misi a piangere, per quanto strillava. Non mandai più bigliettini. Però nutrivo un vago sentimento di speranza nei confronti di varie ragazze, un senso di, non so, di qualcosa, che mi nasceva dentro certe volte la sera, quando dicevo le preghiere.

Dovevamo impararle perché pregavamo per tutto: per le cose che mangiavamo, per addormentarci, perché arrivassero dei palloni nuovi da basket. Tre volte al giorno suor Catherine, la responsabile del vitto, ci portava al refettorio della chiesa per farci mangiare. Ci servivano delle volontarie – tutte signore vecchie e gentili con dei capelli fantascientifici, nubi di gas azzurro, fiammate incandescenti di combustibile da razzo, esplosioni di riccioli atomici. Io adoravo i cumuli infiniti di fette di pane bianco e i panetti freddi di burro. Quando le suore dicevano che gli stavo troppo fra i piedi me ne andavo al piano di sotto e mi mettevo a studiare l’enciclopedia o a leggere il latino, oppure uscivo e sparavo all’autobus con la pistola giocattolo. L’autobus passava davanti all’Istituto ogni ventisei minuti. Mi irrobustii il braccio scagliando sassi contro un albero finché al posto della corteccia consumata apparve un cerchio di legno bianco e polposo. Un pomeriggio piantai un girasole dentro un cartone del latte.

Avrei tanto voluto andare da qualche parte ma non conoscevo nessun posto che mi piacesse. Poi, un giorno, scoprii il cortile della scuola pubblica.

Che ci fai qui, deficiente?, mi chiese un ragazzino, basso e rotondetto e con la pelle liscia da neonato.

Lui e altri compagni mi accerchiarono e cominciarono a prendermi a spintoni.

Il tappetto disse: Chi sei?

Vedendo che non rispondevo, proseguì: Sei uno di quegli orfanelli bastardi, eh?

Il cerchio si strinse, avevo paura di parlare. La gente capiva subito che venivi dall’Istituto dal taglio dei capelli. Eravamo tutti rasati a zero come il Dalai Lama.

Alla fine sorrisi e farfugliai: Se lo dici tu.

Come?, disse il tappetto. Non ti ho sentito.

Il cerchio di ragazzini si serrò attorno a me come un nodo. Le teste mi sovrastavano, quasi oscuravano il cielo.

Sì, dissi io.

Di lì a poco ero seduto sotto il castello di tubi a masticare un panino imburrato, e guardando il tappetto e la sua combriccola accanto alla fontanella con delle femmine capii che presto o tardi gliele avrei dovute...



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