Cvetaeva / Napolitano | Taccuini 1922-1939 | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 320 Seiten

Reihe: Sírin

Cvetaeva / Napolitano Taccuini 1922-1939


1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-6243-580-2
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 320 Seiten

Reihe: Sírin

ISBN: 978-88-6243-580-2
Verlag: Voland
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Scritti tra Mosca, Berlino, Praga e Parigi, i taccuini dell'emigrazione accompagnano Marina Cvetaeva dall'eccitazione della bohème artistica berlinese al fecondo periodo boemo, dai lunghi e difficili anni francesi al ritorno in Unione Sovietica. In questi schizzi furtivi e toccanti che uniscono l'ordinario al sublime, dove la vita quotidiana si mescola a un inesauribile laboratorio creativo, seguiamo la nascita e la crescita dell'amato figlio Georgij, il trasformarsi della primogenita Alja in un'adolescente, i tentativi di far quadrare il sempre più misero bilancio familiare, e insieme lo sviluppo di prose e poesie, l'evoluzione del rapporto epistolare con Pasternak, l'inizio e la tragica fine di passioni e infatuazioni, le riflessioni sul destino della Russia lontana. Nel suo incontro sempre estremo con la parola, nella sua meticolosa preoccupazione di dare eternità all'infinitesimale, Cvetaeva ci regala un testo ipermoderno, in cui arte e vita si compenetrano e si creano a vicenda.

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PREFAZIONE


“[...] Sono una scrittrice, Marina Ivanovna Cvetaeva. Nel 1922 ho lasciato il paese con un passaporto sovietico e ho vissuto all’estero – in Boemia e in Francia – fino al giugno 1939, cioè per 17 anni. Non ho preso parte in alcun modo alla vita politica dell’emigrazione, – ho vissuto della mia famiglia e dei miei scritti. Ho collaborato principalmente con le riviste ‘Volja Rossii’ e ‘Sovremennye Zapiski’, una volta mi hanno pubblicata sul giornale ‘Poslednie novosti’, ma ne sono stata cacciata per aver salutato pubblicamente Majakovskij. In generale – nell’emigrazione sono stata e mi hanno considerata un’isolata. (‘Perché non se ne va nella Russia sovietica?’) [...]”

Con queste parole il 23 dicembre 1939 Marina Cvetaeva, tornata infine nella “Russia sovietica”, si rivolge in una lunga lettera a Lavrentij Berija, stretto collaboratore di Stalin e capo dell’NKVD (Narodnyj komissariat vnutrennich del, “Commissariato del popolo per gli affari interni”, responsabile della polizia e delle strutture di detenzione, tra cui i GuLag), pregandolo di intervenire per la liberazione della figlia Ariadna (Alja) e del marito Sergej Efron, arrestati rispettivamente il 27 agosto e il 10 ottobre del 1939.

I diciassette anni dell’emigrazione, dal 1922 al 1939, sono l’arco temporale coperto dai taccuini che qui si presentano per la prima volta al lettore italiano. È un testo frammentario. Non solo perché di alcuni taccuini sono sopravvissuti solo scampoli, singoli fogli; la struttura stessa del testo tende sempre più, con il passare degli anni, a divenire a tutti i livelli un eterogeneo fragmentarium, e in questo risiede sia la sua difficoltà di lettura che il suo fascino.

La “scrittura dei giorni”, il diario che aveva immancabilmente accompagnato Cvetaeva a partire dai nove anni fino agli ultimi giorni nella Mosca postrivoluzionaria, nel 1921, andando a costituire quello che è stato definito il suo “grande Romanzo”1, si frange sotto l’onda d’urto della vita. È la vita stessa in realtà, il materiale primo della scrittura cvetaeviana e in particolar modo dei taccuini, ad andare in frantumi: i trasferimenti da un paese all’altro, i continui traslochi, la ricerca sempre più pressante e disperata di mezzi di sostentamento, le incombenze domestiche e le difficoltà via via crescenti della vita familiare si riflettono nella rottura di una narrazione continua.

Sempre più negli anni dell’emigrazione i taccuini finiscono per avere destinazioni diverse. Vi trovano ora posto anche minute di opere in prosa: Cvetaeva non distingue più tra quaderni di brutta copia e taccuini, le stesse agende, bloc-notes e quaderni di scuola possono ospitare tutto. Una parte cospicua della sua produzione in prosa, che si farà via via più copiosa fino a divenire prevalente alla fine degli anni ’30, è di natura autobiografica: quasi a costituire un argine allo sgretolamento del presente, Cvetaeva ricostruisce minuziosamente il passato, dapprima quello più recente, gli anni folli e terribili della guerra civile a Mosca, e poi quello più remoto, fino alla prima infanzia nella Russia zarista. Accade così che nella lettura dei taccuini ci spostiamo più volte avanti e indietro nel tempo: torniamo alla Mosca postrivoluzionaria con i testi che avrebbero dovuto confluire nel progettato Zemnye primety (Indizi terrestri), un libro che nella sua interezza non trovò mai un editore, e che, a partire dalle annotazioni del 1917-1919, avrebbe dovuto contenere tutta la “verità” sulla vita quotidiana a Mosca durante la guerra civile (“non conosco altra rivoluzione” scriveva Cvetaeva nei suoi diari del 1919). Leggiamo dunque la tragicomica storia degli impieghi di Cvetaeva nel 1918, i brani sul tema della gratitudine, mossi dalla subitanea povertà e dalle conseguenti riflessioni sui rapporti tra ricchi e poveri, dare e ricevere, quelli sulla separazione, le città e le persone che si lasciano, la lunga catena di addii presente nella vita di ciascuno che la rivoluzione aveva esasperato e accelerato. Nei taccuini degli anni ’30 i primi abbozzi in francese di quella che diventerà poi in russo la Povest’ o Sonecke (Il racconto di Sonecka) ci riportano invece al 1919, e alla giovane attrice, Sof’ja (Sonja) Holliday, amata da Cvetaeva negli anni della guerra civile. Sempre negli anni ’30, la morte dell’amato fratellastro Andrej è l’impulso per una serie di ricerche, appunti e annotazioni di materiali sulla famiglia materna, paterna e della prima moglie del padre, primi nuclei delle future prose autobiografiche.

Un intreccio dunque di tempi, ma non solo: più voci percorrono i taccuini, intersecandosi. Accanto a quella dell’autrice, le voci dei figli Alja e Mur e, sporadicamente, del marito Sergej Efron. Alja e più tardi Mur intervengono sia in numerosi dialoghi e osservazioni riportati da Cvetaeva che direttamente, Alja scrivendo nel taccuino della madre i suoi appunti di scuola, preparatori all’ingresso in collegio, e Mur lettere ad amici e conoscenti, in una dimostrazione fisica della continuità di quello a cui “si limitava” il “senso di proprietà” di Cvetaeva: figli e quaderni.

L’universo linguistico stesso dei taccuini è franto: a partire dagli anni dell’emigrazione parigina parte degli appunti è in francese, lingua che Cvetaeva conosceva perfettamente, mentre in tedesco, lingua parimenti familiare, è redatta la minuta di una lunga lettera allo scrittore austriaco Jakob Wassermann. La commistione di più idiomi non era nuova per Cvetaeva: l’ambiente dell’infanzia e della giovinezza era stato plurilingue. La madre di Cvetaeva, figlia di un tedesco del Baltico, padroneggiava perfettamente tedesco e francese, e di lingua tedesca e francese erano state le prime governanti; successivamente gli anni di studio trascorsi in Svizzera e in Germania, luoghi di cura della madre, avevano fatto sì che Cvetaeva sin dai dieci anni scrivesse versi in tedesco e poi in francese, e nel 1916 potesse intraprendere la prima traduzione in russo del romanzo di Anna de Noailles La nouvelle espérance. È però solo negli anni ’30 a Parigi che Cvetaeva diventa una scrittrice anche francese: direttamente in francese scrive Lettre à l’Amazone (1932-1934), e traduce, o meglio riscrive, il romanzo epistolare Florentijskie noci (Le notti fiorentine)2 e il poema Molodec (Il prode), che assume il nuovo titolo di Le gars (Il ragazzo). Nei taccuini degli anni parigini trovano posto una lunga serie di annotazioni e osservazioni in francese, oltre alle già viste minute della futura Povest’ o Sonecke. Le due lingue, russo e francese, si alternano, ma si mescolano anche e si sovrappongono: la “cvetaevizzazione” di un francese che mantiene inalterati molti tratti stilistici e peculiarità sintattiche e grammaticali della scrittrice in russo (e non è esente da occasionali errori)3 si accompagna alle osservazioni del piccolo Mur, che, in bilico tra due lingue, le confonde e combina, con risultati a volte involontariamente poetici.

I taccuini dell’emigrazione, come quelli degli anni moscoviti, ospitano materiali eterogenei: minute di lettere, versi sparsi, racconti di sogni, osservazioni di vita quotidiana, note della spesa, conti, riflessioni filosofiche, aforismi, piani di opere a venire, orari dei treni, in ordine casuale. Colpisce però l’intensificarsi progressivo, con il passare del tempo, dei dati bruti della vita quotidiana: elenchi di cose da comprare, conti, nel tentativo di coprire le spese, liste di persone a cui restituire soldi presi in prestito si incuneano con sempre maggiore frequenza nel flusso delle altre annotazioni, quasi, sembra, a cacciarne infine fuori a forza tutti gli altri elementi: la parte finale dell’ultimo taccuino francese del 1932-1933 è un lungo indirizzario, una costellazione di nomi dietro cui svanisce ogni possibile narrazione – probabilmente una serie di possibili punti di orientamento, persone a cui Cvetaeva sperava di potersi rivolgere nell’isolamento crescente dell’emigrazione.

Nel giugno 1939, con una sofferta decisione che seguiva tormentose esitazioni, Cvetaeva lasciava insieme a Mur la Francia, per un ritorno in Unione Sovietica il cui significato presentiva con chiarezza. È sul piroscafo che la riporterà in patria, questo non-luogo, spazio di transito in cui senso di sradicamento e instabilità dovrebbero toccare il loro punto più alto, che sentiamo risuonare di nuovo come per miracolo la voce di Cvetaeva che racconta. Messe forzatamente a tacere le incombenze e le difficoltà della vita quotidiana, la scrittura cvetaeviana torna a sciogliersi in un flusso continuo, i giorni di navigazione narrati in sei pagine di un’agenda scolaire, un ultimo, piccolo saggio della scrittura diaristica di Cvetaeva. In cui vi è tutto: il reale continuamente e amorosamente osservato nei suoi aspetti più minuti, dalla natura alle cose, dalle persone ai paesaggi e alle città, e continuamente trasfigurato, visto con gli occhi della scrittura propria e altrui, dei libri amati e dei propri miti (tra cui il sempre presente Napoleone), accolto e interpretato per leggervi segni del proprio destino; la registrazione parimenti minuziosa e attenta dei propri moti interiori diurni e notturni (i sogni), come con un ininterrotto sismografo; la voce indiretta di Mur, il figlio amato ormai adolescente; e un elenco, ancora uno, l’ultimo: quello di valigie, sacche, ceste e bauli, con cui Cvetaeva riportava la propria vita in patria.

Sarà l’ultima volta: le parole conclusive dell’agenda...



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