E-Book, Italienisch, 138 Seiten
Colonna Rime di tre gentildonne del XVI secolo
1. Auflage 2015
ISBN: 978-963-526-503-9
Verlag: Booklassic
Format: EPUB
Kopierschutz: 0 - No protection
E-Book, Italienisch, 138 Seiten
ISBN: 978-963-526-503-9
Verlag: Booklassic
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Le rime delle tre poetesse italiane che nel loro secolo furono reputate e tuttora paiono le migliori, escono alla luce unite per la prima volta in volume di prezzo mitissimo. Del che, siamo certi, ci saranno grati, non solo i numerosi e benevoli che hanno dato sì buona fortuna a questa Collezione Classica, ma ancora le donne, l'educazione delle quali va oggi crescendo di coltura, e non isdegna ricordare, ammirare ed oramai seguire, gli illustri esempi del passato.
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RIME DI VITTORIA COLONNA
Sonetto I. Scrivo sol per sfogar l'interna doglia,
Di che si pasce il cor, ch'altro non vole,
E non per giunger lume al mio bel sole,
Che lasciò in terra sì onorata spoglia. Giusta cagione a lamentar m'invoglia:
Ch'io scemi la sua gloria assai mi dole;
Per altra penna e più saggie parole
Verrà chi a morte il suo gran nome toglia. La pura fè, l'ardor, l'intensa pena
Mi scusi appo ciascun, grave cotanto
Che nè ragion nè tempo mai l'affrena. Amaro lagrimar, non dolce canto,
Foschi sospiri e non voce serena,
Di stil no, ma di duol mi danno il vanto. Sonetto II. Per cagion d'un profondo alto pensiero
Scorgo il mio vago oggetto ognor presente;
E vivo e bello sì riede alla mente,
Che gli occhi il vider già quasi men vero. Per seguir poi quel divin raggio altero,
Ch'è la sua scorta, il mio spirito ardente
Aprendo l'ali al ciel vola sovente,
D'ogni cura mortal scarco e leggiero: Ove del suo gioir parte contemplo,
Chè mi par d'ascoltar l'alte parole
Giunger concento all'armonia celeste. Or se colui, che qui non ebbe esemplo,
Nel mio pensier di lungi avanza il sole,
Che fia; vederlo fuor d'umana veste? Sonetto III. argomento. La morte del Pescara rialza in Italia la insegna di Francia. Quella superba insegna e quell'ardire,
Che per la tua vittorïosa mano
Fece ogni sforzo, ogni disegno vano,
Mostra or vigor, sfoga or gli sdegni e l'ire. Spense l'ardor del suo folle desire
Già il tuo valore invitto e più che umano,
Chè le cittadi, e i fiumi, e i monti, e 'l piano
Gli chiudesti con suo grave martíre. Non fortuna d'altrui, non propria stella,
Virtù, celerità, forza ed ingegno
Diero alle imprese tue felice fine. La chiara fama qui, la gloria bella
Lassù nel ciel ti dà 'l guiderdon degno;
Ch' uman merto non paga opre divine. Sonetto IV. S'alla mia bella fiamma ardente speme
Fu sempre dolce nodrimento ed esca,
Ond'è che, quella spenta, l'ardor cresca,
E in mezzo 'l foco l'alma afflitta treme? Fugge il piacere e la speranza insieme,
Come dunque la piaga si rinfresca?
Chi mi lusinga, o qual cibo m'inesca,
Se morte ha tolto i frutti, i fiori, e 'l seme? Quel foco forse che 'l mio petto accende,
Da così pura face tolse amore,
Che l'immortal principio eterno il rende. Vive in sè stesso il mio divino ardore
Nè il nutrir manca, che dall'alma prende
Il cibo ch'è ben degno al suo valore. Sonetto V. Alle vittorie tue, mio lume eterno,
Non diede il tempo o la stagion favore:
La spada, la virtù, l'invitto core
Fur li ministri tuoi la state e 'l verno. Col prudente occhio e col saggio governo
L'altrui forze spezzasti in sì brev'ore,
Che 'l modo all'alte imprese accrebbe onore
Non men che l'opre al tuo valore interno. Non tardaro il tuo corso animi alteri,
O fiumi o monti, e le maggior cittadi,
Per cortesia od ardir rimaser vinte. Salisti al mondo i più pregiati gradi;
Or godi in ciel d'altri trionfi e veri,
D'altre frondi le tempie ornate e cinte. Sonetto VI. Oh che tranquillo mar, oh che chiare onde
Solcava già la mia spalmata barca,
Di ricca e nobil merce adorna e carca,
Con l'aer puro e con l'aure seconde! Il ciel ch'ora i bei vaghi lumi asconde,
Porgea serena luce e d'ombra scarca;
Ahi quanto ha da temer chi lieto varca!
Chè non sempre al principio il fin risponde. Ecco l'empia e volubile fortuna,
Scoperse poi l'irata iniqua fronte,
Dal cui furor sì gran procella insorge. Vènti, pioggia, saette insieme aduna,
E fiere intorno a divorarmi pronte;
Ma l'alma ancor la fida stella scòrge. Sonetto VII. Chi può troncar quel laccio che m'avvinse,
Se ragion diè lo stame, amor l'avvolse,
Nè sdegno il rallentò, nè morte il sciolse,
La fede l'annodò, tempo lo strinse? Chi 'l fuoco spegnerà che l'alma cinse,
Che non pur mai di tanto ardor si dolse,
Ma ognor più lieta a grande onor sì tolse,
Che nè sospir nè lagrimar l'estinse? Il mio bel sol, poi che dalla sua spoglia
Volò lontano, dal beato regno
M'accende ancora e lega e in cotal modo, Che accampando fortuna, forza e ingegno,
Mai cangeranno in me pensieri o voglia;
Sì m'è soave il foco, e caro il nodo! Sonetto VIII. Perchè del Tauro l'infiammato corno
Mandi virtù, che con novei colori
Orni la terra de' suoi vaghi fiori,
E più bello rimeni Apollo il giorno; E perch'io veggia fonte o prato adorno
Di leggiadre alme e pargoletti amori,
O dotti spirti a' piè de' sacri allori
Con chiare note aprir l'aere d'intorno; Non s'allegra il cor tristo, o punto sgombra
Della cura mortal che sempre il preme:
Sì le mie pene son tenaci e sole Chè quanta gioja lieti amanti ingombra,
E quanto qui diletta, il mio bel sole
Con l'alma luce sua m'ascose insieme. Sonetto IX. Mentre io qui vissi in voi, lume beato,
E meco voi, vostra mercede, unita
Teneste l'alma, era la nostra vita
Morta in noi stessi e viva nell'amato, Poichè per l'alto e divin vostro stato
Non son più a tanto ben qua giù gradita,
Non manchi al cor fedel la vostra aita
Contro il mondo vêr noi nemico armato, Sgombri le spesse nebbie d'ogn'intorno
Sì ch'io provi a volar spedite l'ali
Nel già preso da voi destro sentiero. Vostro onor fia, ch'io chiuda ai piacer frali
Gli occhi in questo mortal fallace giorno,
Per aprirgli nell'altro eterno e vero. Sonetto X. A quale strazio la mia vita adduce
Amor, che oscuro il chiaro sol mi rende,
E nel mio petto al suo apparire accende
Maggior disio della mia vaga luce! Tutto il bel che natura a noi produce,
Che tanto aggrada a chi men vede e intende,
Più di pace mi toglie e sì m'offende,
Ch'ai più caldi sospir mi riconduce. Se verde prato e se fior vari miro,
Priva d'ogni speranza trema l'alma
Chè rinverde il pensier del suo bel frutto Che morte svelse. A lui la grave salma
Tolse un dolce e brevissimo sospiro, E a me lasciò l'amaro eterno lutto. Sonetto XI. Mentre scaldò 'l mio sol questo emispero,
Qual occhio fu da troppa luce offeso,
E qual da invidia tinto, onde conteso
A lor fu sempre il puro raggio intero. Or c'ha lasciato il mondo freddo e nero,
D'onesta voglia ogn'altro spirto acceso
L'adora, e molti han con lor danno inteso,
Che 'l proprio error non li scoperse il vero. La morte fama al suo valore aggiunge,
E il tempo avaro che i bei nomi asconde,
Quella dal suo velen serba e prescrive. L'opre chiare d'altrui non ben seconde
Seguon le sue, nè mai fia chi l'arrive:
Tanto volò dal veder nostro lunge! Sonetto XII. A CARLO V.[1] Nel mio bel sol la vostra aquila altera
Fermando gli occhi, alla più alta meta
Sarebbe giunta: chè superba e lieta
Doppiava i vanni a quell'ardente spera. Ma or che il lume suo mirar non spera
(Che nube spessa ne lo copre e vieta);
Vedete come il desio primo acqueta;
Chè 'l volo audace suo non è qual era. Le vittorie, i trofei di tante imprese
Riportati con gloria a lui d'intorno,
Fan la notte fuggir che gli altri adombra, Più s'aprì 'l suo splendor, quando il suo giorno
Ultimo chiuse; ma lei tanto offese,
Che, spiega l'ali ben, ma poggia all'ombra. Sonetto XIII. Gli alti trofei, le gloriose imprese,
Le ricche prede, i trionfali onori
E le corone di sacrati allori,
Tenner le voglie già di laude accese. Poichè l'eterno sol ne fe palese
Altra vita immortal, di santi ardori
S'infiammâr l'alme, e ne' più saggi cori
Le vere glorie fur più certo intese. E il mio bel nume in un soggetto solo
D'eterna fiamma ornò la bella spoglia,
E di foco divino accese l'alma. Con opre conte all'uno e all'altro polo
Qui fra noi contentò l'altera voglia;
Or gode in ciel la più onorata palma. Sonetto XIV. Mentre un pensier dall'altre cure sciolto
Con l'alma del comun danno si lagna,
Sì largo pianto il triste sen mi bagna,
Che forma un fonte il vivo umor raccolto; Ove, come in un specchio, il suo bel volto
Rimiro, onde le lagrime ristagna
Quel piacer, che dall'altro mi scompagna:
Ma nè questi nè quel m'appaga molto. La grata vista il lagrimar affrena,
E rimangon sì caldi i miei sospiri,
Ch'asciugan del già scorso pianto l'onde. Se ciò non fusse, per la dolce vena
Delle lagrime mie, gli alti deliri
Avrian le stelle avverse qui seconde. Sonetto XV. Cara unïon, che in sì mirabil modo
Fosti ordinata dal Signor del Cielo,
Che lo spirto divino e l'uman...