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Coler | Il regno delle donne. L'ultimo matriarcato | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 216 Seiten

Reihe: Cronache

Coler Il regno delle donne. L'ultimo matriarcato

Nuova edizione ampliata
1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-7452-921-6
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Nuova edizione ampliata

E-Book, Italienisch, 216 Seiten

Reihe: Cronache

ISBN: 978-88-7452-921-6
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Il medico argentino Ricardo Coler viaggia nella provincia cinese dello Yunnan fino alle remote sponde del Lago Lugu per conoscere i Mosuo, una delle piú pure culture matrilineari al mondo. In questa regione appartata vive una comunità matriarcale, nella quale le donne amministrano l'economia, il lavoro e la vita famigliare, non hanno compagni fissi, ignorano il legame matrimoniale e la figura paterna. In famiglie dominate esclusivamente da madri e nonne, lo scrittore incontra uomini che ai privilegi femminili si sono felicemente adeguati, con poche responsabilità, nessuna iniziativa o spinta alla competizione, e molto tempo per giocare a mahjong, oziare e fumare in riva al lago. Un mondo in cui i dissidi sono guardati con imbarazzo, la violenza è praticamente sconosciuta e la vita prende una piega impensabile.

Ricardo Coler (Buenos Aires, 1956) è un medico, fotografo e scrittore argentino. I suoi reportage antropologici e di viaggio sono stati pubblicati con successo in molti paesi. Con nottetempo ha pubblicato Eterna giovinezza (2011) e Il regno delle donne (2013).
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Dopo aver guidato per sei ore di seguito su una strada a strapiombo sul fianco della montagna, Dorje – l’autista, un tibetano sui trent’anni corpulento e con una folta capigliatura – ferma il pick-up. Siamo a piú di tremila metri d’altitudine e negli ultimi giorni ha piovuto tanto che i massi franati sulla strada ci impediscono di andare avanti. A destra ho il pendio, a sinistra il precipizio e davanti le pietre. Dorje scende per vedere come aggirarle per proseguire il viaggio. Fa qualche passo, poi si accovaccia e reclina la testa. Lo osservo dal mio posto: il tibetano non ha affatto l’aspetto di un monaco.

Dorje affonda la mano nel fango, ne prende un pugno e resta immobile per un istante. Poi all’improvviso alza le spalle, risale sul pick-up e mette in moto. Una delle ruote gira a vuoto per aria mentre le altre reggono il peso del veicolo con uno scalpiccio furibondo. Abbracciato allo zaino, trattengo il respiro e inclino il corpo dall’altra parte. Passiamo – non so come, ma passiamo. Ho i denti stretti e i muscoli della schiena come un fascio di corde sul punto di rompersi.

Alla vigilia del viaggio ho aperto Mundo Cartográfico sul tavolo della cucina. In quel planisfero politico, la Repubblica Popolare Cinese è di un giallo pallido e i capoluoghi di provincia sono indicati da circoletti. Uno di essi, Kunming, è situato nella provincia dello Yunnan, un vasto territorio che arriva fino ai confini con il Vietnam, il Laos e la Birmania, paesi che sulla carta paiono delle piccole macchie viola, verdi e lilla. Ma ora che sono qui, sballottato dentro un pick-up 4x4, tutto è del colore della polvere. Sono in cammino verso Loshui, un villaggio sulle rive del Lugu, uno dei laghi di montagna piú grandi di tutta l’Asia. È lí che si è sviluppata la piú pura delle società matriarcali, una delle poche tuttora esistenti: il regno delle donne.

Poiché il luogo dove sono diretto non è segnato sulla carta, mi viene da pensare di essere in viaggio su una strada d’alta quota con l’idea stravagante di arrivare in un posto inesistente.

Sono già stato a Loshui meno di un anno fa e quando ripartii, all’alba, ebbi la certezza di voler tornare. Nella società Mosuo si vede chiaramente che cosa succede quando sono le donne a comandare: tutto qui. Ma conoscere i loro costumi ha messo sotto scacco quello che fino ad allora era stato per me l’ordine naturale delle cose, quello che di piú logico e desiderabile poteva esistere.

Si pensa che generalmente sia l’uomo a sottomettere la donna? Non da queste parti. Che sia proprio della condizione femminile volersi sposare? Niente affatto. Che il padre debba essere rispettato? Quale padre? Stavolta ritorno preparato a vivere con loro per qualche tempo, a intervistare il maggior numero di persone possibile e a tornare su ciò che la prima volta mi aveva emozionato, ma che non ero riuscito a indagare nel dettaglio.

I Mosuo rappresentano una comunità di circa venticinquemila persone in cui le donne sono palesemente al potere. Il paradiso del movimento femminista. Un esempio di come può essere la realtà senza la presunta supremazia dell’uomo e senza l’oppressione che questa supremazia può esercitare.

Qui i pezzi sono disposti sulla scacchiera in modo differente. Uomini e donne si collocano in posizioni diverse da quelle a cui siamo abituati: le donne hanno tutti i privilegi, mentre gli uomini sono privi anche dei piú elementari. È una variante del gioco, un copione diverso per il dramma-commedia-tragedia dei sessi. Voglio vedere quali sono queste varianti, come agiscono, quali sono le relazioni tra uomini e donne. Voglio capire che cosa succede quando la società non è gestita dagli uomini, e quando non ne sono i principali beneficiari. Qui è impossibile che una donna sia condizionata dall’educazione maschilista, o che un uomo la abbandoni lasciandola senza risorse. A Loshui, il sesso femminile non è mai debole.

Sono arrivato al villaggio passando da Pechino, ormai quattro giorni fa. Pechino è piú simile a una città americana – con negozi, grandi edifici e insegne luminose – che alla mia fantasia di quel che dovrebbe essere la capitale della Cina. Camminando per le strade, si incontrano giovani che hanno abbandonato gli abiti in stile militare per adottare le mode occidentali. Una città con abbondanza di telefoni cellulari e di cartelloni pubblicitari luminosi che, per attrarre l’attenzione, abbagliano la vista.

All’aeroporto mi ha accolto una studentessa universitaria di ventidue anni. Indossava dei pantaloni neri e una maglietta bianca di cotone. Né il modo di vestire né l’atteggiamento suggerivano una qualche differenza tra lei e le altre giovani cinesi che conoscevo. Parlava l’inglese a sufficienza ed era abbastanza disinvolta da essere ritenuta adatta a svolgere un lavoro di due ore al giorno per lo Stato. Doveva assicurarsi che gli stranieri arrivati a Pechino per pernottare prima di proseguire il viaggio si registrassero negli hotel senza contrattempi. Appena saliti in macchina, mi ha detto che la intrigava molto la mia meta finale. Si riferiva al viaggio, naturalmente.

“Sí, ho sentito parlare delle donne Mosuo,” mi ha detto, “ma tu che cosa cerchi?”

Voleva sapere che cosa avesse risvegliato in me tanta curiosità per quelle donne, quale mistero fosse cosí potente da farmi arrivare fin là da solo, da molto lontano. Pareva che il motivo del mio viaggio potesse svelarle la chiave di un enigma che la divertiva e al tempo stesso la inquietava.

Che cosa sto cercando? Una società con le donne al potere può permettermi di osservare quali sono gli aspetti del femminile che permangono e quali invece si trasformano al mutare del sistema culturale. Provengo da una società storicamente patriarcale e introdurmi in un matriarcato può darmi un’idea di quel che succede quando cambiano le regole del gioco e le posizioni si invertono. Oltretutto, se è vero che da noi la figura dell’uomo si sta indebolendo, capire come funziona un matriarcato può rappresentare un’anticipazione dei tempi a venire. Le ho dato questa spiegazione e, dopo avermi ascoltato attentamente, lei ha replicato: “Va bene, capisco. Ma tu che cosa cerchi?”

Da Pechino ho attraversato tutto il paese per arrivare a Kunming, il capoluogo della provincia dello Yunnan. Nel XIII secolo la moneta d’uso corrente nella città era la conchiglia di mare. I commercianti la ricevevano in cambio della mercanzia e ci pagavano i loro debiti. Nella cronaca dei suoi viaggi, Marco Polo racconta che quaranta conchiglie di mare equivalevano a un’unità monetaria veneziana. Il cambio deve averli favoriti, visto che oggi Kunming è piena di negozi, uffici di lusso e un discreto numero di hotel a cinque stelle.

Ho potuto viaggiare in aereo soltanto fino a Lijiang, la cui pista d’atterraggio consente unicamente l’arrivo dei voli di cabotaggio e di aerei di piccola portata. Dopo aver recuperato i bagagli ed essere uscito dall’area riservata ai viaggiatori, ho conosciuto Dorje, l’autista, e il signor Wei, il mio interprete. Mi aspettavano insieme, tenendo in alto un cartello improvvisato con il mio nome scritto male. Non ce n’era bisogno, ero l’unico occidentale in tutto l’aeroporto.

Lijiang è una cittadina con un centro antico, attraversata da un fiume dalle acque sempre fredde prodotte dal disgelo. Perdersi tra le strade di questa città non significa solo addentrarsi nel Medioevo asiatico, significa perdersi letteralmente, dato che non puoi chiedere nulla e che non trovi nessun cartello con delle indicazioni. Il fiume si allarga e forma canali dentro l’abitato. I piú stretti passano davanti alla soglia delle case. Gli abitanti sciacquano le stoviglie nell’acqua sempre corrente: i piatti ne escono puliti e le mani viola per il freddo. Sulla porta di una casa con la facciata dipinta di azzurro e due enormi canestri di vimini ai lati, un’anziana fuma una lunga pipa. L’età, il sole e il vento di montagna non hanno lasciato senza rughe neppure una minima parte del suo viso. Mi saluta buttando fuori il fumo.

Nella provincia dello Yunnan si trova la piú importante concentrazione di minoranze etniche di tutto il mondo. Ci sono piú cinesi musulmani qui, con in testa i berretti bianchi fatti all’uncinetto, di quanti siano gli arabi in tutta l’Arabia Saudita. Con i loro grembiuli azzurri e senza farsi sfuggire nulla, i Naxi si aggirano con aria meravigliata tra i negozi. Vengono qui a far acquisti anche i Lisu, dopo aver attraversato le acque del Nujiang appesi a una corda. Con fiori rossi alle caviglie, le ragazze Bai passeggiano per strada sorridenti. Vedo gli Zhuang, sempre corrucciati, che portano in spalla il doppio del peso dei loro connazionali. Non si capisce se fanno cosí perché pretendono di finire il lavoro in metà del tempo o perché, per stare piú sicuri, si caricano del doppio di ciò di cui hanno realmente bisogno. Gli Yi, forse i piú numerosi, sono riconoscibili a distanza. I cappelli neri delle donne sembrano tetti di un metro di diametro sulla testa. Indossano una camicia bianca e un gilet rosso, e abbassano la testa per schivare lo sguardo dello straniero. Io sono lo straniero. In mezzo a tanti abiti tradizionali, camminare per strada con i pantaloni mimetici, la camicia da viaggio e il gilet da fotografo mi rende l’individuo piú strano e col...



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