Cicculli / Prandi | Agro Punjab | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 144 Seiten

Reihe: Cronache

Cicculli / Prandi Agro Punjab

Lo sfruttamento dei sikh nelle campagne di Latina
1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-162-8
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Lo sfruttamento dei sikh nelle campagne di Latina

E-Book, Italienisch, 144 Seiten

Reihe: Cronache

ISBN: 979-12-5480-162-8
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Tra i principali produttori di kiwi nel mondo c'è l'Italia. La regione più fertile è il Lazio, in particolare la provincia di Latina. Ma i dolci kiwi dell'Agro Pontino nascondono l'amaro delle ingiustizie e dello sfruttamento. A raccoglierli, infatti, sono migliaia di braccianti extracomunitari, provenienti principalmente dallo Stato del Punjab, in India, di religione sikh. Vittime di violenze e intimidazioni e privati delle tutele sindacali, la maggior parte di loro ha contratti irregolari e lavora senza turni di riposo, a volte anche quattordici-sedici ore al giorno, per paghe misere. E costantemente a rischio infortuni: come ha mostrato, nella maniera più crudele e feroce, il caso di Satnam Singh, bracciante sikh morto nel giugno del 2024. Questo libro è il risultato di un'inchiesta realizzata nel corso di un intero anno tra il Punjab e quell''Agro Punjab' che è oggi la provincia di Latina. Francesca Cicculli e Stefania Prandi raccontano le storie spesso taciute dalle stesse vittime, terrorizzate dalle ritorsioni, e occultate dall'alto per coprire gli interessi dei più forti. Soprattutto, ricostruiscono la lunga catena di cause e responsabilità che sta dietro allo sfruttamento: una catena che coinvolge intermediari indiani e finte agenzie di viaggio, ma anche imprenditori italiani, cooperative agricole, multinazionali ed enti di certificazione. Come nota nella sua postfazione Marco Omizzolo, sociologo e attivista da anni al fianco dei braccianti sikh, Agro Punjab parla 'di noi stessi, del modo in cui abbiamo organizzato le nostre istituzioni, del nostro modello di impresa e della cultura che ispira la nostra capacità di dare ordine al mondo'.

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1. Nel tempio


Quando arriviamo il cancello è già aperto. Parcheggiamo l’automobile a noleggio in un piazzale sterrato, sotto uno striscione che dà il benvenuto. Sono le nove del mattino e non si vede ancora nessuno. Secondo Yamir, il traduttore e mediatore che ci accompagna nelle interviste, tra poco arriveranno decine di sikh, indiani del Punjab. Si riuniscono ogni domenica, l’unico giorno in cui è concesso loro un po’ di riposo dalla vita da braccianti. Siamo a Velletri, al confine tra le province di Latina e di Roma, e le strade trafficate cedono il passo ai campi agricoli sconfinati, alle serre e ai capannoni.

Superiamo i primi due edifici, passiamo sotto una lunga tettoia camminando su una moquette verde e raggiungiamo una doppia porta scorrevole di metallo verniciata di giallo. Sembrerebbe l’ingresso di un magazzino, se sopra non campeggiasse la scritta “Shri Guru Ravidass Darbar” a segnalare che stiamo per entrare in un , la “casa del Guru”, cioè il luogo sacro del sikhismo. Yamir ci ricorda che dobbiamo togliere le scarpe e coprire il capo. All’entrata troviamo delle stoffe suddivise in due pile, da un lato quelle per i turbanti dei maschi, dall’altro quelle per i veli delle femmine.

Il tempio di Velletri è un unico stanzone dalle pareti rosa, con il pavimento ricoperto di tappeti e una carta colorata che scende dal soffitto. Sui muri sono appese immagini di Guru Gobind, una delle massime autorità religiose punjabi. L’altare, al fondo, ricorda un letto a baldacchino. Da lì il ministro di culto – il – solitamente legge il libro sacro, la raccolta dei precetti tramandati dai dieci guru del sikhismo ai fedeli: una serie di azioni positive che ognuno deve compiere per progredire nell’evoluzione personale. Come recita un volantino consegnatoci all’interno da un fedele, il credente sikh deve essere onesto, impegnarsi nel lavoro e nei rapporti umani e condividere con gli altri ciò che ha.

Con la schiena appoggiata alle pareti laterali, uomini e donne pregano in silenzio, tenendo lo sguardo rivolto all’altare. Le donne indossano il , il classico abito punjabi, dai colori accesi e dalle fantasie floreali. I disegni si ripetono sul velo che copre il capo e sulle tuniche delle figlie sedute accanto. Le mani sono ornate con grandi anelli e smalti colorati; molte portano anche braccialetti o cavigliere. Nessuna rinuncia al rossetto rosso sulle labbra. I mariti, invece, si distinguono solo per il colore dei turbanti che fasciano le teste nascondendo i capelli. Il turbante è un segno distintivo dei sikh e simboleggia il rapporto tra il credente e Dio.

Quello di Velletri non è l’unico tempio sikh del Lazio. I sono ricavati da capannoni dismessi, adibiti successivamente a luoghi di culto e mantenuti con le offerte dei fedeli. Si riconoscono perché su ognuno è issata una bandiera arancione con una spada a doppio taglio, simbolo della relazione tra potere temporale e spirituale.

La maggior parte dei templi si concentra nell’Agro Pontino, una vasta area in provincia di Latina, nata palude e diventata zona agricola durante il regime fascista. Determinato a rendere l’Italia autosufficiente dal punto di vista alimentare, Mussolini lanciò un progetto nazionale per prosciugare le acque stagnanti italiane, e le pontine furono una delle sue priorità. Migliaia di lavoratori arrivarono da tutto il paese per realizzare il sogno del dittatore: fu costruito un sistema di pompe e canali che trasformarono le paludi in terreni fertili. Il primo raccolto di grano porta la data del 1934.

Oggi la campagna pontina è ancora una delle aree più produttive d’Italia, si coltivano prodotti esportati in tutta Europa: dalle lenticchie ai kiwi, dai carciofi alle olive, fino ad arrivare al vino e alla mozzarella di bufala. Però a raccogliere la frutta e la verdura e a badare agli animali negli allevamenti non ci sono più gli italiani, bensì migliaia di braccianti, perlopiù sikh, arrivati dal Punjab a partire dagli anni Ottanta, in cerca di lavoro1.

Marco Omizzolo, docente di Sociopolitologia delle migrazioni all’Università La Sapienza di Roma, calcola che nell’Agro Pontino ci siano circa 30.000 persone appartenenti alla comunità sikh. Nella stima sono inclusi i senza permesso di soggiorno, i residenti in altre province e quanti, immigrati di recente, sfuggono ancora alle statistiche. Una diaspora così numerosa ha portato, negli anni, alla nascita di vere e proprie borgate abitate interamente dalla comunità indiana, come Borgo Hermada e Bella Farnia, e alla comparsa di diversi , come quello di Velletri. Visitando questi luoghi e incontrando i braccianti sikh non è difficile imbattersi in storie di sfruttamento e violenze, e in “pratiche simili alla schiavitù”, come rilevato da Urmila Bhoola, relatrice speciale delle Nazioni Unite, dopo aver visitato la zona nel 20182.

Usciamo dalla sala dove inizia il rito. Il è salito sull’altare e canta, sfogliando le pagine del libro sacro. La sua voce riecheggia nello stanzone, dove bambine e bambini hanno dato il via a balli giocosi, cercando di andare a tempo con le melodie religiose.

Ci accorgiamo che il piazzale si è riempito di automobili e biciclette. Intere famiglie si tolgono le scarpe, riponendole sugli scaffali vicino all’ingresso, e proseguono scalze verso la cerimonia.

Yamir ci presenta Amandeep Singh, un signore di cinquantaquattro anni che trascorre le domeniche nel tempio come cuoco volontario. Il resto della settimana raccoglie l’uva in un’azienda a pochi minuti di macchina da Velletri. È a piedi nudi e in testa, invece del solito turbante, indossa una bandana arancione. “Sono arrivato in Italia nel 2002, pagando 9000 euro per un visto turistico,” dice lentamente Amandeep, pesando con cura le parole. Tiene lo sguardo basso, in un eccesso di timidezza o di concentrazione. Con un’aria imperturbabile racconta di aver iniziato a lavorare come giardiniere, con un contratto da badante. I primi stipendi gli sono serviti a ripagare il debito contratto in India per arrivare in Italia. Non gli restavano altri soldi, nonostante lavorasse tutti i giorni: “Ho vissuto qui nel tempio per due anni, senza pagare affitto, cibo e luce, perché non potevo permettermi una casa,” aggiunge. “Sono in Italia da vent’anni e ho visto passare da qui almeno settecento persone, tutte nelle mie stesse condizioni”.

Amandeep è uno degli oltre 9500 braccianti indiani impiegati regolarmente nella provincia di Latina, secondo i dati INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale)3. Sul suo curriculum ci sono aziende agricole della zona dove ha lavorato per pochi euro e in condizioni di sfruttamento: “Vogliono sempre che si lavori velocemente e gridano di sbrigarsi. Quando danno i soldi, però, tolgono alcune ore dalla busta paga e non retribuiscono tutti i giorni di lavoro”. Negli anni Amandeep ha accettato stipendi da 4,50 euro all’ora pur di avere un contratto e riuscire a rinnovare il permesso di soggiorno. Le giornate potevano durare anche dieci ore, per sette giorni a settimana, ben oltre i limiti imposti dal contratto provinciale. “In busta paga scrivevano 600-700 euro e mi davano 200-300 euro in nero, togliendo dalle tre alle sette ore di lavoro,” spiega. “Tutti i padroni fanno lo stesso,” sostiene disilluso. Il termine “padrone” può suonare desueto, ma è proprio quello che lui e gli altri braccianti usano per definire i datori di lavoro.

Amandeep non si trova bene nemmeno nell’azienda dove lavora al momento. Dichiara la sua insoddisfazione senza rivelare troppi dettagli. Racconta che la paga per raccogliere l’uva è di circa 6 euro all’ora. Adesso vive in un appartamento insieme a quattro persone ma, al contrario di altri, ha una camera privata.

Un volontario avvisa Amandeep che è il suo turno in cucina. Nel refettorio c’è fermento perché nel pomeriggio inizia una festa sikh e bisogna preparare cibo in grande quantità per i fedeli che parteciperanno.

Con passo veloce e sicuro arriva Surinder Singh, il presidente del tempio. È alto e quando parla fissa dritto negli occhi i suoi interlocutori. Indossa una tunica bianca e una pashmina arancione. Il turbante giallo canarino gli fa risaltare la barba nera e i baffi con le punte all’insù. Racconta che il tempio è un luogo di preghiera e di accoglienza, nel quale vivere in attesa di trovare un lavoro e potersi permettere un affitto. Come Amandeep, ricorda che negli anni, da queste stanze e dai cortili curati, sono passati migliaia di sikh in cerca di ospitalità. “Chi ha bisogno può rimanere qui gratuitamente. Gli diamo vestiti, cibo e medicine e offriamo un sostegno morale,” spiega.

Nel sikhismo la solidarietà è centrale perché “siamo tutti esseri umani, al di là dell’estrazione sociale e della provenienza etnica”, sottolinea il . Aggiunge di essersi laureato in Scienze politiche ad Amritsar, la città più importante del Punjab per la religione sikh. Prima di arrivare in Italia, Surinder Singh gestiva un’azienda di trasporti assieme a un socio. Un giorno ha dovuto vendere i sette camion che avevano e interrompere l’attività perché gli affari andavano male. Il suo piano era di arrivare in Gran...



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