E-Book, Italienisch, 512 Seiten
Reihe: Narrativa
Ceccherini Il Mostro
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-7452-986-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 512 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7452-986-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Negli anni settanta e ottanta l'Italia intera è scossa dagli omicidi del Mostro di Firenze, un'entità oscura che si muove al buio dei noviluni. Sono gli anni dell'estremismo politico, delle logge segrete, dei colpi di Stato mancati e delle bombe che esplodono, della morte usata come strumento di terrore ovvero come strategia di comunicazione. In quel clima inquieto e inquietante, cos'è stato il Mostro? Chi è stato? Alessandro Ceccherini risponde con gli strumenti della letteratura a questa domanda, iniziando dal 1935 per arrivare al presente. Perché il Mostro non ha neppure un principio e una fine certi. Perché il Mostro è molteplice, il mostro sono i mostri: Pietro Pacciani e i compagni di merende, il giovane medico e i compagni di cene, l'ex legionario, l'agente dei servizi segreti italiani e quello statunitense. Intorno a loro, in questa storia corale fondata su un lungo studio dei documenti, si muovono decine di personaggi, reali e finzionali, carnefici e vittime, testimoni e attori del male al lavoro in ogni piega della società. Spingendosi con l'invenzione narrativa laddove la verità giudiziaria si è arenata, Ceccherini racconta le verità incontestate e anche le crepe tra i fatti emersi dalle indagini. Il risultato è un appassionante e acuminato romanzo che ha il suo cuore crudele nella provincia fiorentina e fa i conti con l'immaginario di un'intera epoca.
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2. Guido
Guido si addentra tra i rovi del bosco, si acquatta e avanza ruotando sui talloni come un papero. Si ferma, pochi rami lo separano dalla fonte dei gemiti e dei colpi che l’hanno spinto ad avvicinarsi. Poggia il culo sui calcagni senza mettersi in ginocchio e in quel momento gli torna alla mente quando da piccolo aveva sentito dei rintocchi venire dal prato, secchi e brevi come un bambino che gioca con un sasso, e allora si era avvicinato al corso placido della Sieve e aveva scoperto una tartaruga che ne montava un’altra da dietro dandole dei colpi violenti guscio su guscio; allo stesso modo adesso vede quello che riconosce subito come il Tani e un altro inginocchiato di spalle che ha i capelli brizzolati e folti, i pantaloni abbassati e con le mani si aggrappa alla corteccia rossastra di un pino senza fare un fiato mentre il Tani lo monta con vigore, il busto inclinato in avanti, una mano ancorata al costato di quello sotto e l’altra a impugnare come uno scettro la canna del fucile appoggiato col calcio sulle foglie secche.
Guido piega il braccio e lo ruota con un movimento ampio, avvicinandoselo alla faccia così da evitare di impigliarsi nei rami puntuti; raggiunge il tiretto della cerniera lampo con pollice e indice e lentamente lo abbassa, poi tira fuori l’uccello che si allunga nell’aria indicando i due cacciatori. Con pochi movimenti, stringendolo forte, eiacula. Subito dopo sente tutto insieme un dolore gelido ai quadricipiti femorali che sembrano sul punto di strapparsi. Il Tani rallenta un attimo guardando dall’altra parte, allora Guido rimette l’uccello a posto e fa un passo indietro per uscire dal cespuglio e allungare le gambe. Qualcosa gli schiocca sotto i piedi.
“Sst…” sussurra il Tani. “Che gl’era…” aggiunge fissando la fitta rete di rami che scherma l’occulto spettatore, quindi estrae il cazzo dal culo dell’altro che si scosta dal tronco e si volta anch’egli in direzione del rovo lasciandosi riconoscere come il Sarpicanti: baffi alla Vittorio Emanuele e sguardo concentrato come se avesse la doppietta tra le mani.
Guido apre la bocca, riempie i polmoni e resta immobile, consapevole che ogni movimento nel cuore statico di quel fittume verrebbe avvertito da fuori.
Il Tani si abbottona i pantaloni camminando verso il cespuglio.
“Che t’ha’ sentito?”
“Chétati,” comanda al compagno arrivando a ridosso del cespuglio.
Guido ha gli occhi lucidi per il dolore alle gambe.
Il Tani si china e infila le mani a frugare le frasche che apre come una tenda con un movimento fulmineo. “Dio bestia!” esclama trovandosi davanti il muso allampanato e sconvolto del giovane. “Che cazzo… vien qui!” urla afferrandogli la maglia per tirarlo fuori.
Guido evita di scorticarsi la faccia riparandosi con le braccia. “’Un ho fatto nulla!” dichiara ruzzolando ai piedi dell’uomo.
“’Un tu ha’ fatto nulla? E che si spia la gente in codesta maniera? Ti par nulla a te?” gli domanda il cacciatore scuotendolo come un cencio.
“Io… ero a fa’ funghi”.
Il Tani ha quasi cinquant’anni, è più basso di Guido ma ha le braccia che sono tre volte le sue: afferra per il collo il diciannovenne che ha estirpato dal cespuglio come una gramigna e lo schiaccia faccia a terra. “Vien qui, tienilo di pe’ bracci!” ordina al Sarpicanti. “Mi pigliasse un córpo! ’Un tu sei i’ figliolo di’ Bruco, te?” domanda montandogli sopra e slacciandogli i pantaloni.
Guido non risponde.
Poco dopo procede malconcio nel bosco, alto e magro come fil di ferro e con lo sterno in fuori simile a quello di un uccello. Più volte, trascinato da una rabbia ottusa, sente l’istinto di buttarsi in un fosso e lasciarsi ingoiare dalla terra. Sbatte sui tronchi degli alberi e su uno lo fa così forte che ha paura di essersi slogato la spalla. Non ne può più di quella vita di merda, sempre con le tasche vuote, costretto oltretutto a vedere arricchirsi tutti quegli infami che hanno alzato la testa da quando il Duce è penzolato davanti ai cani che l’hanno divorato. Vermi come Severino, quel cenciaiolo che va in giro fischiettando e ammucchiando soldi nel portafogli sempre pieno, sereno come se il tempo dei morti di fame fosse finalmente arrivato: ma se è così, perché a Guido non capita mai di fischiettare?
Esce dal bosco per tornare sulla strada ma prima di procedere si volta verso le frasche e guarda i tronchi immobili, ognuno ben piantato sulle sue radici, ligi a se stessi e sempre felici di quel che hanno; in fondo Guido si sente più comunista di tutti i comunisti perché lui vorrebbe tutti così: uguali e fermi, senza che qualcheduno poi finisca per atteggiarsi come chissà chi ché tanto non lo merita nessuno. Affinché questo avvenga serve per forza che qualcuno imponga la rigidità, la forma perfetta, perché l’uomo allo stato di natura è uno schifo; senza leggi e regole non c’è niente, solo l’anima che fa brulicare le bestie nel sottobosco.
“Oh Guidìno, ’ndó tu vai?”
Guido si volta a guardare Amerigo, suo fratello maggiore che lo chiama dalla strada, e si accorge solo in quel momento di aver lasciato il cestino coi funghi nel bosco, poi nota la direzione in cui il fratello si sta muovendo e calcola l’ora dalla posizione del sole. “Ma che hai bell’e finito?”
Amerigo si toglie il cappello e si massaggia il cranio precocemente calvo. “Che vòi, s’è leticato co’ i’ Pacciano… dice che noi i’ fieno ’un gli se n’è dato dieci quintali e vòle che la ciccia la si paghi di più, e allora son venuto via pe’ ’un compromettimi. Poi lui dice che c’ha da sposassi. Ora sento icché dice i’ babbo”.
Guido guarda il fratello più grande, un vigliacco col culo già aperto dalla vita. “’Ndó sono?”
“’Un fare i’ bischero,” gli raccomanda il fratello.
Guido s’incammina verso Vicchio. “Ci vo a ragionare e basta,” afferma respirando a fondo e visualizzando ciò che accadrà a breve. “Gli faccio capire che ’un è giusto fa’ a codesta maniera”.
Amerigo scorge negli occhi del fratello una determinazione nuova. “Sono da i’ Nigi, ’ndó vòi che le lavorino le bestie…”
Guido si avvia senza più voltarsi e Amerigo resta solo in mezzo alla strada, guarda il cielo terso e sorride a tutte le traversie che finora è riuscito a superare più o meno indenne, poi scaccia ogni preoccupazione residua pensando al vino che si berrà prima di andare al bar e riprende il cammino con passo addirittura lieto.
Guido sa bene chi è Pietro, un altro che s’è fatto partigiano credendo di diventare un eroe per due smitragliate sparate alle spalle dei tedeschi in ritirata; un infame e un laido. Guido deve fargli capire fino a che limite può spingersi altrimenti lo rifarà, deve educarlo come si fa coi cani. Sa che vive coi suoi all’Aiaccia, sulla strada per Paterno, così s’è infrattato su una curva con ampia visuale su due rettilinei, in un punto da cui passerà di certo, e lì l’aspetta.
Il tempo passa e il sole declina fino a lambire l’orizzonte quando Guido sente un fischiettio lontano alle sue spalle. Per avvicinarsi attraversa un pezzo di bosco e si affaccia su una vigna che cresce lungo una piaggia: in fondo, a una cinquantina di metri, cammina un ragazzo basso nel quale riconosce subito Pietro.
Guido corre fino ad arrivare all’ultimo filare, poi scende lungo il declivio più velocemente possibile cercando al contempo di non fare troppo rumore. Arriva in fondo e si accorge di non sentire più il fischiettio di prima.
“Vien fòri!” gli urla Pietro. “Bada che c’ho i’ cuttello! Che vòi da me? Perché tu mi vieni dietro?”
Guido balza fuori dal filare e gli si lancia contro. Pietro scappa facendo galoppare le gambe a una velocità inaspettata, vociando ogni tipo di bestemmia e improperio, poi si butta dentro uno stretto sentiero che si apre nella boscaglia e Guido esita per un momento, fa un passo e lo vede fiondarglisi contro col coltello da potìno teso in avanti; indietreggia evitandolo per pochi centimetri e scarica un pugno sul cranio del Pacciani.
Pietro finisce a terra e resta steso a pancia in giù senza dire niente, con le gambe nel bosco e il busto nel campo, poi si trascina un po’ avanti, si volta e guarda frastornato il nemico. “Ma icché tu vòi da me!?”
“E tu lo sai!”
“Ma icché tu dici, io gliel’ho spiegato a Amerigo!” urla massaggiandosi il capo. “E tu m’hai spaccato i’ capo… Guarda!” urla inorridito rivolgendogli il palmo sporco di sangue.
“Te lo spacco davvero se ’un tu mi dai i sòrdi o la ciccia!” minaccia Guido puntandogli il pugno contro.
“Madonna ’mpestata!” bestemmia Pacciani scoppiando a piangere. “Ma icché tu vòi da me! Sono un poer’omo come te, e tu lo sai! Ma perché tu ce l’ha’ co’ me!? Devo sposammi e ’un ho una lira pe’ fanne due, eppure...