E-Book, Italienisch, 192 Seiten, Format (B × H): 120 mm x 185 mm
Cavallini Le Maestre
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-6839-806-4
Verlag: Athesia-Tappeiner Verlag
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Piccole storie scolastiche d’altri tempi
E-Book, Italienisch, 192 Seiten, Format (B × H): 120 mm x 185 mm
ISBN: 978-88-6839-806-4
Verlag: Athesia-Tappeiner Verlag
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
I primi anni di scuola, per tutti, hanno rappresentato l’inizio dell’impegno. Come dimenticare il peso delle costrizioni? Seduti al posto per obbedienza nei nostri banchi di legno, ci sentivamo i forzati ai remi delle galee, condannati ad affrontare la burrasca delle nostre insicurezze. Le maestre erano strane creature un po’ misteriose. Nel nostro sentire infantile sostituivano la mamma a tempo determinato e questo bastava, a loro non era riservato altro interesse. Al contrario, con il sentire da adulti, aperto il cantonale lì nell’angolo dei ricordi, queste prime insegnanti si affacciano spesso alla memoria. Di loro proponiamo alcune storie. Sono tracce di vita di maestre trentine. Iniziano nel periodo della furia bellica del primo conflitto mondiale, per approdare ai tempi recenti. Un percorso nei precetti del “giusto insegnare” attraverso i fatti storici del nostro territorio. Uno sguardo rispettoso, ammirato, appena sfiorato da un sospetto di ironia.
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LEZIONI DI MONELLERIE
Ai miei tempi la scuola non si frequentava solamente per apprendere le regole dell’educazione. Noi bambine subivamo spesso i dispetti dei maschi, erano le prime lezioni di vita in comune con loro, un misto di ammiccamento e frustrazione. Spesso la maschiezza dei compagni di scuola insegnava a noi femmine le regole della diseducazione. Le occasioni d’incontro tra maschi e femmine erano ridotte al minimo. Ad esempio nella mia scuola elementare le aule erano separate e persino l’uscita alla fine delle lezioni avveniva da portoni diversi. Questo ovviamente aumentava la reciproca curiosità. Il primo incontro ufficiale tra maschi e femmine avveniva nell’ampio piazzale centrale delle scuole Crispi il giorno dell’inaugurazione dell’anno scolastico. Gli scolari maschi erano allineati sul lato a sinistra, le scolare femmine sul lato a destra. Ci separava solamente il vuoto del corridoio centrale sul quale vigilava con attenzione qualche bidello, responsabile di mantenere la separazione. Mi avevano insegnato che non era educato fissare a lungo le persone, era un gesto sfacciato e indiscreto da evitare. Quel primo giorno avevo trovavo soluzione alla mia curiosità sbirciando furtivamente verso le file maschili. In quello spazioso cortile la mia attenzione si era focalizzata su due figurine di scolaretti. Ero attratta dalla loro immobilità che, tra l’inquietudine dei compagni intorno a loro, risaltava anomala. Li osservavo di sottecchi e li ammiravo mentre compresi e seri ascoltavano il discorso inaugurale. Indossavano vestiti ordinati, i pantaloncini corti scoprivano le gambette diritte e, guarda caso, calzavano ai piedi sandaletti uguali ai miei, quelli con il laccetto. Uno dei due aveva i capelli scuri il visetto pallido e in contrasto la bocca spiccava di un sorprendente colore rosso ciliegia, il mio frutto preferito. L’estetica a quell’età è sempre legata al cibo. Da adulta, dopo anni di lontananza, al mio ritorno a Trento avrei riconosciuto quei lineamenti nelle figure di due noti professionisti cittadini. All’uscita da scuola chi osava avvicinare con una certa impudenza noi bambine erano “quelli delle Androne”, ragazzini che secondo la voce popolare andavano evitati perché pericolosi. Le cosiddette Androne, non lontane dalla nostra scuola, erano il quartiere popolare dietro le mura di piazza Fiera, una serie di vicoletti della vecchia Trento, all’epoca malfamati. La cattiva reputazione probabilmente era dovuta al fatto che in uno di questi vicoli aveva sede il bordello cittadino, inoltre nel quartiere le anziane prostitute in pensione esercitavano in casa le loro arti a prezzi concorrenziali, quindi il via vai di uomini e militari in divisa che si aggiravano nel quartiere infastidiva i cittadini benpensanti. Le Androne erano la casbah di Trento e le malelingue sussurravano per eccesso che chi ci entrava lo faceva a suo rischio e pericolo. Alcuni figli smaliziati delle Androne ci abbordavano con l’intento manifesto di attaccar bottone per subire i loro dispetti. Infastidire e possibilmente scandalizzare le femmine faceva parte dei primi ingenui rituali del corteggiamento. Ad esempio quasi tutte noi sapevamo che guardando con la testa piegata sul fianco destro il monte Chegùl, appariva un profilo umano che si diceva fosse quello di Dante Alighieri, il nostro “sommo padre”. Qualcuno aveva individuato casualmente il profilo chissà in quale tempo e la visione, tramandata oralmente, era diventata una tradizione trentina, forse un popolare tributo all’irredentismo. Alla domanda dei monelli delle Androne se noi bambine conoscessimo il profilo sulla montagna, rispondevamo con sufficienza certo che sì, al ché per riaccendere il nostro interesse quelle birbe davano fuoco alle polveri e ci declamavano sul muso una cantilena scandalosa: “Dante Alighieri co’l cul pien de péri, co’l cul pien de nós, Dante rabióss” (Dante Alighieri con il sedere pieno di pere, con il sedere pieno di noci, Dante arrabbiato). Pronunciare la parola cul sul musetto delle bambine era il primo maschile pizzicore di una sessualità in embrione. Noi bambine per civetteria fingevamo di offenderci, era una nostra astuzia. Convinti di averci scandalizzate ben bene, i monelli ignoravano che una volta arrivate in classe, prima dell’arrivo della maestra, li avremmo beffati ripetendo la cantilena con il piacere sguaiato di pronunciare la parola cul a volontà. Prendeva forma già in quei primi scontri infantili la difficoltà maschile di comprendere le femmine. Quando arrivarono in città i film di cowboy e indiani, la domenica pomeriggio i bambini del mio quartiere, me compresa, si recavano tutti al cinema San Marco a guardare per l’intero pomeriggio il medesimo assalto alla diligenza o lo stesso cerchio dei carri dei coloni che con il fazzoletto al collo si difendevano dall’assalto degli Apaches. Gli indiani girando a cavallo intorno ai carri scoccavano montagne di frecce. I coloni nascosti dietro i carri sapevano difendersi bene, eliminavano con un solo colpo di fucile una decina di pellerossa. Gli indiani una volta colpiti sapevano cadere nella polvere con le piume d’aquila e le collane di artigli di orso che volavano al vento. Cadevano sulla schiena in una maniera che incantava anche i loro magnifici cavalli bianchi a macchie nere e marrone. Qualche colono veniva colpito da una freccia, solitamente alla spalla, ma quando uno di loro, colpito in mezzo al petto, esalava l’ultimo respiro tra le braccia dell’innamorata, con tempismo perfetto arrivava l’eroica cavalleria e quasi tutti i maschi in sala scattavano in piedi urlando per l’incontenibile gioia. Era lo sfogo dalle ristrettezze che l’America ci regalava. Stranamente, ma non troppo, tra noi ragazzini qualcuno iniziò a individuare nel monte Chegùl non il profilo di Dante ma quello di un grande capo indiano. Purtroppo anche gli eroi hanno una scadenza. I maschi attingendo al repertorio delle monellerie organizzavano una trappola nella quale per fortuna si cadeva una sola volta. Era per davvero una sconfitta dovuta alla nostra dabbenaggine. Quando uno di loro si avvicinava e domandava a una di noi: “Vuoi vedere Venezia?” Chi non portava ancora le orecchie d’asino accettava, soprattutto se provava nei suoi riguardi una qualche simpatia. Allora il birbante prendeva tra le mani la testa della malcapitata all’altezza delle orecchie. La poverina per un attimo sognava qualche delicatezza, invece sentiva tirare forte verso l’alto. Quando il prediletto lasciava la presa chiedeva ridendo: “Hai visto Venezia?”, allora bisognava tenersi il dolore del corpo e la delusione dell’anima. Tutt’al più si cercava di ammollare un calcio al traditore che ridendo lo evitava con abilità. L’offesa bruciava parecchio, confesso di essere caduta anch’io nel tranello. L’idea di vedere Venezia mi era sembrata accattivante, pensavo alla sorpresa di una cartolina o qualcosa di simile, che ne sapevo io... C’era anche una squadra di monelli che fingevano erudizione. Per farsi belli ai nostri occhi mostravano il livello della loro cultura recitando filastrocche sulla storia dell’antica Roma. Due burle per sbeffeggiare gli eroi romani, solitamente noiosi perché insegnavano con coraggio a soffrire e a difendere da soli la loro città. La prima cantilena recitava: “Muzio, Muzio Scevola si bruciò una mano, si fece una vescicola sul palmo della mano”. La seconda, più divertente, recitava: “Orazio, Orazio Coclite, cadde giù dal ponte si fece una brugnòcola sulla romana fronte”. Il termine dialettale brugnòcola merita un commento a parte, probabilmente si tratta di una derivazione dalla parola brugna, prugna. I bambini conoscevano a fondo il suo doloroso significato perché le brugnòcole, di colore bluastro tendente al verde e poi al giallo, che decoravano la fronte rappresentavano le medaglie d’onore per i numerosi ruzzoloni. Più la fronte ne era decorata, più alto era il coraggio. I maschi procuravano alle bambine lezioni di anatomia quando facevano la pipì in piedi contro i muri all’uscita della scuola, qualcuno lo faceva anche per manifesto esibizionismo. Credo si trattasse della fase intima del corteggiamento. Per le bambine scoprire di essere prive dell’organo principale per la minzione in quella forma era frustrante e causa di invidia. Mentre io passavo dando un’occhiata di sottecchi, ricordo Elisabetta, una bella bambina dai lunghi capelli biondi ondulati con cura, mia compagna di classe e vicina di casa, che si avvicinava con insistenza per curiosare. Voleva apprendere il metodo e ripetere il gesto. Tornata a casa la vedevo dalla finestra della cucina mentre insisteva nell’applicarsi. Cercava un po’ di inutile privacy sul lato destro della costruzione in cemento dove gli inquilini depositavano le immondizie. In piedi e in vista, trafficava inutilmente con le mutandine. Non ho mai capito perché Elisabetta si ostinasse a praticare l’impossibile, però da un lato ammiravo la caparbietà che mostrava con noncuranza in barba a tutti. Sua madre, signora tanto per bene che ostentava eleganza e buon gusto nel vestire sé stessa e la figliola, non avendo “hitchcockiane” finestre sul cortile, per sua fortuna...