E-Book, Italienisch, 190 Seiten
Reihe: Cronache
Castellina Amori comunisti
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7452-719-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 190 Seiten
Reihe: Cronache
ISBN: 978-88-7452-719-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
In Amori comunisti, Luciana Castellina mette in luce e racconta un aspetto poco conosciuto delle vite 'non pubbliche' dei comunisti: quello sentimentale. Parlando degli amori tra Nazim Hikmet e Münevver Andaç, tra Argyrò Polikronaki e Nikos Kokulis e tra Sylvia e Robert Thompson, l'autrice costruisce un racconto intessuto di ricordi effettivi e incontri personali, articolato intorno alle storie di tre coppie provenienti da paesi molto differenti, Turchia, Grecia e Stati Uniti: vite complicate e amori incredibili che hanno percorso la seconda metà del secolo scorso, accomunati dal fatto di essere osservati e spiati, in un clima di grande difficoltà e pericolo. Sullo sfondo, risaltano i contesti culturali e politici nei quali i personaggi si muovono, che restituiscono alcuni passaggi cruciali di tre paesi dalla storia molto diversa. Come nella Scoperta del mondo e in Siberiana, il percorso politico e intellettuale di Luciana Castellina si bagna nella vita e nella memoria, recuperando dall'oblio vicende e ritratti indimenticabili.
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Sono passati quasi tre anni da quando Nâzim ha lasciato Istanbul e moltissime cose da allora sono cambiate. Il sultano se ne è andato a bordo di un incrociatore britannico verso il suo esilio a Sanremo ed è nata la nuova Repubblica turca di Atatürk. Che per ora ha lasciato qualche margine di libertà: i giornali comunisti sono ammessi e Nâzim, tornato in patria, scrive su quelle pagine.
Per poco: col pretesto di una rivolta curda, il regime scatena una repressione feroce, impiccagioni e cadaveri esibiti nelle piazze con un cartello al collo che li indica come nemici della patria; arresti; chiusura di ogni foglio d’opposizione.
L’intero gruppo dirigente del Partito Comunista finisce in prigione, salvo Nâzim che sfugge alla cattura perché è stato inviato a Smirne per mettere su una piccola tipografia clandestina. Lí – in quella casupola senza finestre né luce, descritta poi nel suo romanzo Gran bella cosa è vivere, miei cari –, affamato, morso da un cane forse rabbioso ma impossibilitato, per ragioni di sicurezza, a recarsi in ospedale per farsi fare il vaccino, resta fino a quando, imbarcandosi di nascosto su una nave che passa per il Bosforo, torna in Unione Sovietica. È stato condannato a quindici anni di reclusione in contumacia.
A Mosca per la seconda volta, ora non è piú un viaggiatore, è un rifugiato, al suo primo periodo di esilio. È il settembre del 1925.
Nella città sempre effervescente, dove tuttavia Nâzim registra le prime difficoltà da parte degli artisti, riallaccia i suoi rapporti con gli intellettuali dell’avanguardia, in particolare con Mejerchol’d, assieme al quale apre un teatro: il METLA, acronimo di “solo teatro leninista di Mosca”, ma anche parola russa per “scopa”. Un nome intenzionale: vuol indicare la necessità di fare piazza pulita degli stupidi melodrammi che infestano le scene. Il METLA diventa l’avanguardia dell’avanguardia, negli spettacoli vengono inseriti anche spezzoni cinematografici, recitano attori in tuta, come accadrà poi con Brecht.
E torna l’amore. Per Lena, una giovane russa, con cui si sposa. Di lei non si sa molto, c’è chi dice che sia un’attrice di teatro, chi, invece, che sia una dentista. Si sa però che quando in Turchia è proclamata, nel ’26, un’amnistia che fa cadere la condanna di Nâzim e il partito decide di rimandarlo a Istanbul a ricostruire un’organizzazione decimata, forte di soli 350 iscritti in tutto il paese, lui tenta disperatamente di portare con sé la moglie.
Anche per sé ha difficoltà a ottenere un passaporto dalla Turchia, e infatti non riuscirà a partire prima del 1928. Ma a Lena continuano a negare il visto sicché, nella speranza di accelerare la procedura, va ad aspettare piú vicino alla frontiera, a Odessa. Dopo un anno è ancora lí, come prova un’ultima disperata lettera al suo uomo, che però, al rientro nel suo paese, è nel frattempo stato arrestato. Di Lena non si saprà piú niente: forse è stata vittima di una delle tante epidemie che colpiscono il paese, o forse ha trovato la morte nel tentativo di raggiungere clandestinamente Istanbul.
L’incarcerazione di Nâzim, vista la motivazione – ingresso nel paese senza i documenti richiesti – sarebbe dovuta durare tre giorni, come previsto dalla legge. E però la precedente condanna, sebbene amnistiata, insospettisce la polizia, che cerca pretesti per tenerlo in gabbia. Fra questi trovano una poesia in cui si parla di Eraclito, non solo un greco e perciò comunque sospetto, ma un nome che vuol dire “minoranza”, l’ossessione dei nazionalisti che perciò ritengono si tratti di un invito alla rivolta. Un pretesto ridicolo, che serve comunque a non rilasciarlo dalla prigione prima di sei mesi. La prima di una lunghissima serie di detenzioni.
Istanbul, tuttavia, è ancora una città viva, dove una dialettica di posizioni è tuttora ammessa; e dove, nonostante il partito unico imposto da Kemal Atatürk, vige una certa libertà, almeno sul piano culturale. Che finisce per diventare il terreno su cui si esprime la critica al regime. Tanto piú che il lavoro politico vero e proprio, oltre che proibito, è in crisi per via delle divisioni che lacerano il PCT. Nâzim stesso resta isolato rispetto alle faide interne e alla diaspora di molti dei suoi amici piú stretti, che finiscono per convincersi che in questa fase è meglio sostenere la battaglia anticlericale e modernizzante di Kemal Atatürk piuttosto che puntare a una rivoluzione socialista. Non è tempo di Lenin, dicono, ma di Kemal.
Una tendenza che si rafforza quando Atatürk prende una decisione spettacolare: la trascrizione della lingua turca in caratteri latini, abbandonando in questo modo quelli arabi (molto piú numerosi) e con ciò anche la cultura tradizionale di cui erano espressione. Nâzim non è indifferente all’ardita riforma della scrittura, che rende ora la lingua turca ufficiale piú vicina a quella parlata e dunque alla tradizione orale cui lui si ispira nelle sue opere.
“Quel che amo nelle parole,” scrive, “è che sono proprietà comune di ognuno. Possono usarle un poeta e un facchino”.
Capisce, insomma, che l’introduzione del nuovo alfabeto è un colpo contro le élite, ma resta lucidamente diffidente. Anche se è proprio lui a diventare il principale protagonista di questo trapasso letterario. Ha intuito, a differenza dei suoi amici sedotti dal kemalismo, che l’idea che Kemal ha di come inventarsi un popolo turco è molto diversa dalla sua.
Nâzim non segue dunque nella deriva “modernista” i suoi amici di un tempo, fra cui c’è anche il piú antico, Vâ-Nû. Pur non essendo piú membro del Partito Comunista turco, perché espulso per “deviazione borghese” in occasione di una delle tante faide interne, continua a dichiararsi comunista. Quando apprende del suicidio di Majakovskij, nel ’30, ne è disperato, perché gli era molto legato, ma il suo giudizio sulla scelta dell’amico è durissimo: “L’infelicità personale,” scrive, “ha indotto in lui un revival del vecchio individualismo. È il vecchio Majakovskij che ha ucciso il nuovo Majakovskij”.
L’impegno preminente di Nâzim non è tuttavia piú direttamente politico, ma rivolto soprattutto a colpire il vecchio ceto intellettuale conservatore che continua a dominare il paese. “Demolire gli idoli” diventa il titolo di una serie di articoli della rivista Resimli Ay (“Mensile illustrato”), quasi tutti scritti da Nâzim, che attaccano con velenoso sarcasmo i vecchi letterati turchi lontani dalla realtà. “Come si può definire qualcuno poeta nazionale se non ha mai dato voce alle lotte del suo popolo?” scrive in uno di questi, e la polemica cresce in violenza, anche perché attraverso il bersaglio dei letterati conservatori è sempre piú facile individuare gli esponenti del nuovo regime kemalista.
Gli anni dal ’29 al ’33 sono anni felici per Nâzim: è il piú lungo periodo di libertà di cui gode nel suo paese. Dalla Mosca effervescente dei primi anni venti ha riportato un’inedita libertà di invenzione letteraria, una provocazione per la stantia e conservatrice cultura turca.
Scrive fra l’altro, abbattendo la separazione fra prosa e versi, una stravagante pièce teatrale di grande successo, intitolata Gioconda e Si-Ya-U. Gioconda è quella del quadro, Si-Ya-U è un cinese amico di Mao Tse-tung che ha studiato alla Sorbona. Gioconda scappa dal Louvre su un monoplano nel tentativo di raggiungere il suo innamorato poeta cinese, che però è stato ucciso durante la sfortunata insurrezione comunista di Shangai del ’27. Gioconda diventa a sua volta una rivoluzionaria e alla fine la tela di Leonardo viene bruciata in Cina. La morale dell’opera: l’arte non deve languire in un museo, ma essere parte attiva nelle rivoluzioni.
A Istanbul Nâzim è ormai diventato molto popolare; le sue poesie, i suoi romanzi, le sue pièce teatrali sono editi con successo in patria e all’estero. La sua fama arriva persino a New York, dove viene pubblicato dalla prestigiosa rivista Bookman. A presentarlo, la docente di un’università americana di origine turca che di lui scrive, dopo averlo conosciuto: “Oggi ho incontrato un uomo. Bello, coraggioso, generoso, modesto ma sicuro di sé, dedito a una causa”. E di Hikmet poeta dice:
I suoi versi sono audaci, illuminati dalle sue metafore tratte dal mondo delle macchine, delle fabbriche, delle ferrovie, dei ponti. Come Byron con la sua scura bellezza è stato, con il suo romantico pessimismo, il simbolo del XIX secolo, cosí Nâzim Hikmet, con i suoi luminosi occhi azzurri e la sua ottimistica visione del mondo e dell’umanità che vi vive, è il simbolo del XX secolo.
Il fascino personale di Nâzim contribuisce certo alla sua popolarità. È attraente, alto, imponente, giovane: non ha ancora trent’anni. Ma è tutt’altro che un intellettuale da salotto. La sua vita è faticosa: morto improvvisamente il padre, presso cui era andato ad abitare al suo rientro, con la madre da anni a Parigi, si trova a dover mantenere la nuova moglie del padre e i due figli che Hikmet Bey ha avuto dal suo secondo matrimonio, piú sua sorella Samiye. Lo fa traducendo e scrivendo mille cose sotto pseudonimi, perché rifiuta di piegarsi, come non pochi dei suoi amici hanno finito per fare, accettando di entrare nella redazione di qualche giornale borghese. Per far fronte alle ristrettezze va a vivere con questa sua ampia tribú in un casale periferico affacciato sul Mar di Marmara, oltre Kadiköy, sul lato asiatico della città, separato dal centro dal lungo tragitto marittimo sui battelli che attraversano il Bosforo. A questa comune sui generis si unisce a un...




