E-Book, Italienisch, 271 Seiten
Reihe: Indi
Cantú Solo un fiume a separarci
1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-3389-062-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Dispacci dalla frontiera
E-Book, Italienisch, 271 Seiten
Reihe: Indi
ISBN: 978-88-3389-062-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Pronipote di immigrati, messicano di origine ma americano di nazionalità, Francisco Cantú si potrebbe considerare un esempio di perfetta integrazione. Laureato in diritto internazionale, borsista Fulbright, traduttore, sembrava avviato a una brillante carriera come giornalista e studioso. Finché un giorno, sfidando le paure e le perplessità della sua famiglia, ha deciso di iscriversi all'Accademia di polizia per diventare una guardia di frontiera, convinto che, per capire fino in fondo il fenomeno dei flussi migratori e le storie di ordinaria e straordinaria umanità che lo sottendono, non bastassero i libri, i manuali o le statistiche, ma fosse necessario vedere le cose in prima persona. Sono proprio gli incontri con i nuovi «dannati della terra» che Cantú racconta in Solo un fiume a separarci: i suoi «dispacci dalla frontiera», pubblicati per la prima volta nel febbraio 2018, mentre l'amministrazione Trump rilanciava con insistenza il progetto di un muro tra Stati Uniti e Messico, hanno suscitato clamore e un dibattito appassionato, che ha portato il libro alle prime posizioni nella classifica dei bestseller.
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Mia madre e io viaggiavamo verso est attraverso la pianura, lungo la vasta distesa di un antico lago salato. Eravamo arrivati nel Texas Occidentale per trascorrere il giorno del Ringraziamento nel parco nazionale in cui lei lavorava come ranger negli anni in cui si erano formati i miei primi ricordi di bambino – immagini di canyon alberati e rilievi rocciosi che si ergevano dal terreno, il suono del vento che frustava le basse colline del deserto, il calore del sole che infieriva sulle distese sconfinate di arbusti.
Mentre ci avvicinavamo alle Guadalupe Mountains, attraversammo una spianata di sale e io chiesi a mia madre di fermarsi. Accostò e ci incamminammo insieme su quella terra spaccata. Guardammo a nord, verso le Guadalupe, i resti torreggianti di una barriera corallina risalente al Permiano, un tempo sommersa dalle acque interne della Pangea. Il vento fresco di novembre spirava sui nostri corpi come una lenta corrente d’acqua. Mi chinai per toccare il terreno, ne staccai una zolla e la sbriciolai tra le dita. Sfiorai i polpastrelli con la lingua e guardai mia madre. «È salata», le dissi.
All’interno del parco, aspettammo nell’ufficio informazioni mentre una donna in divisa parlottava al bancone con due turisti, illustrando con pazienza le tariffe del campeggio e i diversi itinerari. Quando i due si voltarono per andarsene, la donna si accorse di noi e sul suo volto comparve un sorriso. Aggirò velocemente il bancone e corse ad abbracciare mia madre, poi arretrò di un passo per osservarmi. Restò immobile per qualche momento, incredula. «, l’ultima volta che ti ho visto non eri più alto di così», disse, agitando una mano all’altezza delle ginocchia. «Vivete ancora in Arizona?», ci domandò. «La mamma sì», risposi. «Io mi sono trasferito a Washington per l’università». Sgranò gli occhi. «Nella capitale?» Annuii. «. E cosa studi?» «Relazioni internazionali», le dissi. «Studia il confine», aggiunse mia madre. «Al ritorno ci fermiamo a El Paso, così potrà visitare Ciudad Juárez».
La donna scosse il capo. «Fate attenzione», disse. «Juárez è molto pericolosa». Mi squadrò con le mani sui fianchi, poi mi poggiò una mano sulla spalla. «Sai, ricordo ancora quando ti facevo da babysitter: eri un bimbetto». Abbassò lo sguardo verso le mie scarpe. «Volevi diventare un cowboy. Infilavi i tuoi piccoli stivali e il cappello da cowboy e correvi insieme ai miei bambini nel giardino sul retro, dove giocavate a inseguirvi con quelle pistole di plastica». Mia madre sorrise. «Me lo ricordo anch’io», disse.
Il mattino dopo, mia madre e io ci alzammo presto per un’escursione lungo un canyon che si inoltrava nei boschi sul versante opposto delle Guadalupe Mountains. Mentre camminavamo, mia madre tornò a essere un ranger, indicando le tremolanti foglie gialle di un acero , sporgendosi per sfiorare la corteccia rossa e liscia di un albero madrone. Si chinò per raccogliere il guscio secco di una ninfa di libellula da un filo d’erba e se lo rigirò tra le dita sporche di terriccio. Guardò il sentiero verso le lente acque del ruscello e iniziò a parlarmi della libellula, spiegandomi che aveva completato la muta e adesso volteggiava nei venti vorticosi del canyon. Ne custodiva l’esoscheletro sul palmo come una reliquia. «Le libellule migrano proprio come gli uccelli», mi disse, «battendo le ali simili a carta per giorni e giorni, attraverso le pianure, oltre le catene montuose e fino all’oceano».
Mia madre abbandonò il sentiero e si sedette su una roccia sulla sponda del ruscello, prima di togliersi scarpe e calzini. Si arrotolò i pantaloni fino al ginocchio e infilò i piedi nell’acqua, irrigidendo le spalle per la temperatura. Mi invitò a fare come lei, ma io scossi il capo e mi sedetti in disparte sulla sponda, dove la luce del sole spioveva a chiazze tra la vegetazione. Mia madre si avventurò nel ruscello, poggiando i piedi su ciottoli e rami caduti, indicandomi la corrente che scorreva intorno a una radice esposta e il sole che splendeva su un ciuffo d’erba. Si chinò a sfiorare la superficie dell’acqua, poi si passò i palmi bagnati sul viso. Mentre raccoglievo alcune foglie di acero cadute, lei si chinò di nuovo per prendere una manciata di ciottoli calcarei dal letto del ruscello. «Vieni», mi disse, le mani ancora gocciolanti. «Vieni a toccare l’acqua».
Quella sera, seduti in un centro di ricerca in mezzo al nulla, mentre mangiavamo tacchino precotto con ripieno in scatola, le domandai perché avesse deciso di lavorare come ranger, anni prima. Affondò la forchetta nelle verdure. «Volevo stare all’aria aperta», mi disse, «perché là fuori, nella natura incontaminata, riuscivo a capire me stessa. Speravo che in qualità di ranger avrei potuto risvegliare nelle persone l’amore per la natura, convincendole a rispettarla e a proteggerla». Alzò lo sguardo dal piatto. «Volevo difendere il paesaggio», continuò, «proteggere i luoghi che amavo». Mi appoggiai allo schienale della sedia. «E che effetto ti fa ripensarci adesso?», le chiesi. Lei posò la forchetta e fece scorrere un dito lungo le venature del tavolo. «Non lo so. Non ancora», disse.
Il giorno seguente lasciammo il parco naturale e ci dirigemmo a ovest. Quando giungemmo a El Paso, quella sera, osservai le luci che punteggiavano il fondovalle desertico, cercando di capire dove finivano gli Stati Uniti e iniziava il Messico. Nel motel, l’addetto occhialuto iniziò una breve conversazione di circostanza con mia madre, mentre registrava i nostri documenti. «Cosa vi porta a El Paso?», le domandò. Mia madre sorrise. «Mio figlio sta conducendo una ricerca sul confine», gli disse. «Il confine?» L’uomo ci squadrò da sopra le lenti. «Ve la dico io una cosa sul confine», ribatté, indicando il versante erboso di una collina alla fine del parcheggio oltre le porte a vetri del motel. «Vedete lì? Un tempo osservavo l’erba muoversi ogni sera. Non impiegai molto a capire che non era il vento: erano quegli sporchi messicani che entravano illegalmente nel paese». L’uomo fece un sorrisetto trionfante. «Ma adesso l’erba non si muove più, non so se mi spiego. Non si vedono più clandestini nascosti nei giardini delle case della gente perbene, al giorno d’oggi». Mia madre e io annuimmo imbarazzati quando l’uomo ci consegnò la chiave della nostra stanza, sogghignando.
Il mattino dopo parcheggiammo al Santa Fe Street Bridge e ci incamminammo in direzione sud, verso il confine. Seguimmo il consistente flusso di persone sul ponte pedonale protetto da inferriate sopra il canale di cemento che separa El Paso da Ciudad Juárez, nel quale scorrevano le acque quasi immobili del Rio Grande. Mentre ci avvicinavamo al capo opposto del ponte, vidi un uomo dallo sguardo annebbiato salutare la moglie e il figlio. Il bambino stava piangendo, immobile, accanto a un tornello cigolante, mentre i genitori si stringevano in un lungo abbraccio. Varcato l’ingresso, un agente di frontiera messicano in divisa nera ci fece segno di oltrepassare la postazione dei controlli. «Non vogliono vedere i documenti?», mi chiese mia madre. Mi strinsi nelle spalle. «A quanto pare, no».
Lasciammo il valico di frontiera e ci incamminammo lungo Avenida Benito Juárez in mezzo a una folla di tassisti e venditori ambulanti. Passammo di fronte ad altoparlanti a tutto volume e facciate di negozi dai colori vivaci – rivendite di alcolici e banchi dei pegni, dentisti e discount farmaceutici, locali di e agenzie di cambio, insegne che pubblicizzavano assicurazioni, abbigliamento, stivali. Dopo diversi isolati mia madre mi chiese se potevamo cercare un posto per sederci. Attraversammo la strada verso Plaza Misión de Guadalupe, dove subito si abbandonò su una panchina. «Devo prendere fiato», disse. «Ho il cuore che batte all’impazzata». «Stai bene?», domandai. Lei fece un respiro e si guardò intorno, poggiandosi una mano sul petto. «Sto bene. Sono solo un po’... stordita». Io guardai verso il sole. «Vado a prenderti dell’acqua». Le toccai una spalla e indicai un piccolo market sull’altro lato della strada.
Alla cassa mi ritrovai dietro due donne che parlavano di politica. «Sono felice che vincerà Calderón», disse una delle due. «Abbiamo bisogno di un presidente molto duro nei confronti del crimine, qualcuno che sbatta dentro i delinquenti e ripulisca le strade». L’altra scosse il capo con vigore, mentre pagava una stecca di sigarette e una confezione di . «», rispose all’amica. «Il problema non nasce nelle strade».
Mia madre bevve con avidità, sospirando profondamente quando consultai la cartina della zona che avevo preso nel motel. «Siamo vicini a Mercado Juárez», le dissi, «potremo sederci là e mangiare qualcosa, così potrai riposarti». Lei annuì e si attardò a scrutare la strada prima di alzarsi dalla panchina. Ci incamminammo pian piano sul marciapiede, superando la struttura in mattoni della Aduana Fronteriza, poi svoltammo in Calle 16 de Septiembre. A un solo isolato dal mercato, ci fermammo a un incrocio soffocato dalle auto, in attesa che il semaforo diventasse verde. Poi, mentre attraversavamo le quattro corsie invase dal traffico, mia madre emise un urlo e cadde carponi in mezzo alla strada. Mi voltai, in preda al panico, e mi inginocchiai accanto a lei, cingendole le spalle con un braccio. «Stai bene?», le domandai. Respirava a denti stretti e si indicò un piede, finito in una buca. «Devi alzarti», le dissi, «dobbiamo toglierci dalla strada». Guardai il semaforo, che adesso mostrava una mano rossa lampeggiante. Provai a rimetterla in piedi, ma lei urlò di nuovo...




