Butler | L'alleanza dei corpi | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 276 Seiten

Reihe: Figure

Butler L'alleanza dei corpi


1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-7452-618-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 276 Seiten

Reihe: Figure

ISBN: 978-88-7452-618-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Al centro di questo libro di Judith Butler è l'indagine sulla 'politica della strada' e sul diritto plurale e performativo di apparizione del corpo all'interno del campo politico, attraverso l'esperienza del raduno collettivo. Dal movimento Occupy alle proteste di Atene, dalle cosiddette 'primavere arabe' al Parco Gezi di Istanbul, dalle mobilitazioni queer a quelle degli immigrati irregolari, negli ultimi anni abbiamo assistito al moltiplicarsi delle manifestazioni di dissenso contro le logiche neoliberiste o contro governi e poteri repressivi. Al di là delle differenze, l'alleanza dei corpi in queste azioni collettive affronta ed 'espone' all'attenzione di tutti una serie di temi interconnessi come la precarietà, la vulnerabilità, la rivendicazione di una vita vivibile e l'esclusione dalla sfera pubblica di apparizione. La tesi di Butler è che, nelle lotte democratiche, questi raduni possano esprimere forme di resistenza e solidarietà radicali da cui emerge una nuova idea di 'popolo' - un popolo che sperimenta una ricomposizione contro la frammentazione e le disuguaglianze indotte, interrogando in modo inaggirabile le frontiere dell'etica.

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Introduzione


Le manifestazioni di massa di piazza Tahrir, nell’inverno del 2010, hanno riacceso l’interesse di studiosi e attivisti per le forme e gli effetti degli assembramenti pubblici. Il tema è al tempo stesso vecchio e nuovo, e il fatto che gruppi molto numerosi di persone si radunino pubblicamente può essere fonte di speranza, come di paura; eppure, se ci sono sempre buone ragioni per temere i rischi delle azioni di massa, ce ne sono altrettante per cercare di comprendere il potenziale politico dei raduni di massa imprevedibili. In un certo senso, pur avendo ripetutamente affermato l’importanza dell’espressione della volontà popolare, anche nelle sue forme meno disciplinate, le teorie della democrazia hanno però sempre avuto paura della “folla”. La letteratura è vasta e comprende autori anche diversi tra loro, come per esempio Edmund Burke o Alexis de Tocqueville, i quali si sono chiesti esplicitamente se le strutture democratiche sarebbero sopravvissute dinanzi a forme sregolate di sovranità popolare o se, in quel caso, il potere del popolo non sarebbe degenerato in tirannia della maggioranza. Questo libro non intende ripercorrere tali importanti dibattiti interni alla teoria democratica, né giudicarli negativamente; piuttosto, mira a suggerire che ogni discussione relativa alle dimostrazioni popolari tenda a essere governata o dalla paura del caos o da una radicale speranza per il futuro, anche quando paura e speranza s’intersecano in modi complessi.

Se pongo in evidenza queste tensioni ricorrenti in seno alla teoria democratica è per sottolineare fin da subito l’esistenza di una frattura tra la forma di governo della democrazia e il principio della sovranità popolare, in quanto essi non sono la stessa cosa. È anzi importante tenerli separati, se vogliamo comprendere come determinate espressioni della volontà popolare possano mettere in dubbio una particolare forma di governo, specialmente quando essa si definisce “democratica” nonostante i suoi critici mettano in discussione proprio quest’autodefinizione. Il principio è semplice e ben noto, ma i suoi presupposti si impongono in modo pressante alla nostra attenzione. Potremmo dilungarci su quale dovrebbe essere la forma migliore di democrazia o, al contrario, sulla sua polisemia. Se “democrazie” sono tutte quelle forme di governo che si definiscono democratiche, o che vengono regolarmente definite democratiche, allora stiamo adottando un approccio di tipo nominalista. Ma là dove gli ordinamenti politici sedicenti democratici vengono messi in crisi da forme di azione collettiva – piú o meno spontanee o orchestrate – che affermano di esprimere la volontà popolare, di rappresentare il popolo e di essere portatrici di una concezione piú reale e sostanziale di democrazia, il significato stesso della democrazia è lacerato da un’aperta lotta, che non sempre può trovare una piena restituzione teorica. Anche senza esprimere un giudizio su quale assembramento popolare sia “davvero” democratico e quale invece non lo sia, possiamo comunque osservare come la lotta intorno alla parola “democrazia” caratterizzi attivamente diverse situazioni politiche. E il modo in cui definiamo questa lotta sembra essere di grande rilievo, dato che a volte un movimento può essere tacciato di antidemocraticità, finanche di terrorismo, mentre in altre occasioni, o in altri contesti, viene concepito come uno sforzo popolare volto a realizzare una democrazia piú inclusiva e sostanziale. Il tavolo può girare abbastanza rapidamente, come sappiamo, e quando le alleanze strategiche hanno la necessità di etichettare un gruppo come “terrorista” oppure come “alleato democratico”, a seconda delle occasioni, la parola “democrazia” può essa stessa trasformarsi facilmente in termine discorsivo strategico. Di conseguenza, a parte i nominalisti, i quali pensano che le democrazie siano le forme di governo chiamate “democrazie”, esistono poi gli strateghi della comunicazione che si affidano a modalità del discorso pubblico, al marketing e alla propaganda per decidere quali stati e quali movimenti popolari possano o meno essere definiti democratici.

Sarebbe senza dubbio allettante poter dire che un movimento è democratico quando è definito come tale, o se si autodefinisce come tale, ma ciò significherebbe recedere proprio dal concetto di democrazia. Nonostante, infatti, la democrazia implichi il potere dell’autodeterminazione, ciò non significa che ciascun gruppo che voglia determinarsi come rappresentativo possa rivendicare a buon diritto di essere “il popolo”. Nel gennaio del 2015, per esempio, il movimento tedesco Pegida (Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente), apertamente contrario all’immigrazione, attraverso l’espressione “noi siamo il popolo” mise in atto una pratica autodefinitoria precisamente volta a escludere gli immigrati musulmani dall’idea vigente di nazione (e lo fece stabilendo un’associazione tra il suo atto linguistico e una frase divenuta popolare nel 1989, che rischia oggi di gettare un’ombra sull’“unificazione” della Germania). Angela Merkel rispose dicendo che “l’Islam è parte della Germania”, ma solo quando il leader di Pegida fu costretto alle dimissioni dalla circolazione di alcune sue foto che lo ritraevano vestito da Hitler. Un caso come questo ha la capacità, finanche grafica, di sollevare la seguente domanda: chi è davvero “il popolo”? E quale operazione di potere discorsivo interviene a circoscrivere “il popolo” in un determinato momento, e per quale fine?

“Il popolo” non è una data popolazione. Esso, piuttosto, è costituito dalle linee di demarcazione che implicitamente, o esplicitamente, stabiliamo. Di conseguenza, nel caso in cui dobbiamo verificare se una certa modalità di posizionamento del “popolo” sia inclusiva, possiamo solo indicare le fasce di popolazione escluse grazie a ulteriori demarcazioni. L’autocostituzione è dunque qualcosa di particolarmente problematico da prendere in considerazione, a tali condizioni. Non tutti gli sforzi discorsivi volti a stabilire chi è “il popolo” raggiungono i propri obiettivi. Quest’asserzione è piú spesso una scommessa, una dichiarazione di egemonia. Di conseguenza, quando un gruppo o un assembramento spontaneo o una collettività orchestrata si definisce “il popolo” sta esercitando una certa modalità discorsiva, sta operando delle supposizioni su chi sia incluso e chi no, e dunque si sta involontariamente riferendo a una parte di popolazione che non è “il popolo”. Infatti, quando la lotta per decidere chi debba appartenere al “popolo” si fa piú intensa, un gruppo contrappone la propria versione di “popolo” a chi è fuori, a coloro che si ritiene minaccino “il popolo” o si oppongano alla versione di “popolo” proposta. Cosí, abbiamo: a) coloro che tentano di definire il popolo (un gruppo molto piú ristretto del popolo che tentano di definire), b) il popolo definito (e demarcato) nel corso di questa scommessa discorsiva, c) un gruppo di persone che non sono parte del “popolo”1, e d) coloro che tentano di affermare che pure quest’ultimo gruppo fa parte del popolo. E anche quando diciamo “tutti”, nello sforzo di ipotizzare un gruppo pienamente inclusivo, in realtà stiamo implicitamente operando delle supposizioni su coloro che sono inclusi – e stiamo dunque pesantemente obliterando ciò che Chantal Mouffe ed Ernesto Laclau hanno giustamente descritto come “l’esclusione costitutiva” attraverso la quale si determina ogni nozione specifica di inclusione2.

Ne consegue pertanto che il corpo politico viene a essere pensato come un’impossibile totalità. Questa, tuttavia, non dovrebbe costituire una conclusione cinica. Coloro che, animati dallo spirito della Realpolitik, ritengono che, essendo ogni formazione del “popolo” parziale, si dovrebbe semplicemente accettare tale parzialità come un dato di fatto politico, si trovano a essere chiaramente avversati da altri che tentano invece di evidenziare e di contrapporsi a tali forme di esclusione, sapendo spesso che una piena inclusività non è possibile, ma che proprio per questo bisogna continuare a lottare. Le ragioni per farlo sono almeno due: la prima è che molte forme di esclusione sono messe in atto senza una piena consapevolezza, dato che l’esclusione viene spesso naturalizzata, fatta passare come “stato delle cose” e non come un problema esplicito; la seconda ragione è che l’inclusività non è l’unico obiettivo della politica democratica, specialmente della politica democratica radicale. Chiaramente, ogni versione del “popolo” che escluda alcuni non può essere inclusiva, né, di conseguenza, rappresentativa. Ma è anche vero che ogni determinazione del “popolo” sottende un atto di demarcazione che traccia una linea, di solito sulla base della nazionalità o comunque sullo sfondo dello stato-nazione, e quella linea diventa immediatamente un confine controverso. In altre parole, nessun “popolo” sarebbe possibile in assenza di un confine discorsivo tracciato da qualche parte, che sia lungo le linee degli stati-nazione esistenti, delle comunità razziali o linguistiche, o dell’appartenenza politica. La strategia discorsiva volta a istituire “il popolo” è, in un modo o nell’altro, una scommessa affinché vengano riconosciuti taluni confini, che siano quelli nazionali o, al contrario, quelli della frontiera che delimita la classe di persone considerata “riconoscibile” in quanto popolo.

Dunque, uno dei motivi per cui l’inclusività non costituisce l’unico obiettivo della democrazia, e specialmente della democrazia radicale, è che la politica democratica dovrebbe innanzitutto prendere in considerazione chi conti come “popolo”, in...



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