E-Book, Italienisch, 300 Seiten
Reihe: Figure
Butler La forza della nonviolenza
1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-7452-826-4
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Un vincolo etico-politico
E-Book, Italienisch, 300 Seiten
Reihe: Figure
ISBN: 978-88-7452-826-4
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Judith Butler definisce le dinamiche psicosociali che determinano il campo di forza della violenza mettendo in luce la mistificazione linguistica e la strumentalizzazione operate dal potere nei suoi confronti. Nel far questo, smonta le posizioni che ammettono, in alcuni casi e con determinate finalità, la violenza come strumento per combattere la violenza stessa e, allo stesso tempo, la concezione per cui la nonviolenza sarebbe una scelta morale individuale caratterizzata dalla passività. Centrale, in quest'analisi, è l'idea che esista una radicata distinzione biopolitica tra vite degne di lutto ? dunque meritevoli di essere preservate e difese ? e vite dispensabili - per questioni razziali, identitarie, collegate al gender o di altro tipo: in questo senso, la violenza è connessa all'esperienza della disuguaglianza e la nonviolenza non può che essere una pratica collettiva di contestazione delle disuguaglianze, del tutto sganciata da un approccio individualista. Recuperando ? analiticamente e criticamente ? Foucault, Fanon, Gandhi, Benjamin e, tra gli altri, soprattutto Freud e Klein, Butler delinea cosí un'idea di nonviolenza che, prendendo coscienza e sovvertendo attivamente le forme di aggressività che caratterizzano il sé e i suoi legami sociali, costituisca una tattica politica tutt'altro che passiva, una forza in grado di contrastare la violenza che pervade la società contemporanea senza riprodurne la distruttività, un vincolo etico e politico che sia tutt'uno con le lotte condotte dai movimenti che ogni giorno si battono per l'interdipendenza, l'uguaglianza e la giustizia sociale.
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Introduzione
La nonviolenza1 è uno di quei temi che incontrano reazioni scettiche trasversali nell’intero spettro politico. Alcuni, a sinistra, sostengono che solo la violenza può dar luogo a una radicale trasformazione sociale ed economica; altri, in maniera piú moderata, ritengono che la violenza dovrebbe rimanere uno dei mezzi a nostra disposizione per conseguire un tale cambiamento. Si possono certo avanzare una serie di argomenti in favore della nonviolenza o, viceversa, dell’uso strumentale o strategico della violenza; tali argomenti, tuttavia, possono essere sostenuti pubblicamente solo se vi è un generale accordo su ciò in cui consistono la “violenza” e la “nonviolenza”. E una delle obiezioni piú grandi che deve fronteggiare chi è a favore della nonviolenza dipende proprio dal fatto che “violenza” e “nonviolenza” sono termini controversi. Per esempio, alcuni definiscono “violenti” quegli atti linguistici che mirano a offendere; altri, invece, sostengono che il linguaggio non possa mai essere definito propriamente “violento”, a meno che non contenga minacce esplicite. Altri ancora si aggrappano a una concezione restrittiva della violenza, intendendo la “percossa” come suo momento fisico definitorio; altri insistono sul carattere “violento” delle strutture economiche e giuridiche, sul fatto che esse agiscono sui corpi, pur non assumendo sempre la forma di violenza fisica. La figura dello scontro fisico, in effetti, ha tacitamente strutturato alcuni dei piú importanti dibattiti sulla violenza, finendo cosí col veicolare l’idea secondo cui la violenza sarebbe qualcosa che può accadere solo tra due parti nel corso di un conflitto corporeo diretto. Eppure, se non mettiamo in discussione l’idea di violenza intesa solo come scontro fisico, risulta poi difficile sostenere che le strutture o i sistemi sociali, compreso il razzismo sistemico, siano violenti. Anche perché, molto spesso, l’attacco fisico alla testa o al resto del corpo è esso stesso espressione di una violenza sistemica, e occorre dunque comprendere quale relazione intercorra tra l’atto individuale e la struttura o il sistema. Per comprendere la violenza strutturale o sistemica, tuttavia, occorre spingersi oltre quelle posizioni assolute che limitano la nostra comprensione del modo in cui opera la violenza. E bisogna anche trovare cornici interpretative piú ampie di quelle diadiche – quelle per cui una parte colpisce e l’altra viene colpita. Ciò, chiaramente, non esclude che una spiegazione della violenza che non tenga in considerazione lo scontro fisico, le percosse, la violenza sessuale (stupro incluso), o che non riesca a comprendere in che modo la violenza stessa operi intimamente nella forma diadica o nello scontro a viso aperto, fallisca dal punto di vista descrittivo e analitico nel chiarire cos’è la violenza – e dunque di cosa parliamo quando dibattiamo su violenza e nonviolenza2.
Sembrerebbe facile opporsi semplicemente alla violenza lasciando che quest’affermazione sintetizzi la propria posizione sulla questione. Ma nel discorso pubblico, d’altronde, possiamo osservare come “violenza” sia un termine labile e come ci si appropri delle sue sfumature semantiche in modi che richiedono di essere analizzati criticamente. Talvolta, per esempio, gli stati e le istituzioni pubbliche definiscono “violente” molte espressioni di dissenso politico, o di opposizione a questa o quella autorità statale o istituzionale. Dimostrazioni pubbliche, occupazioni, assembramenti, boicottaggi, scioperi: sono tutte forme di dissenso suscettibili di essere definite “violente”, anche quando non ricorrono affatto allo scontro fisico, né tantomeno alle forme di violenza sistemica o strutturale che ho menzionato sopra3. Quando gli stati o le istituzioni compiono questa operazione, tentano di rinominare pratiche nonviolente come violente, conducendo una battaglia politica a livello di semantica pubblica. Se una manifestazione a sostegno della libertà di espressione – che esercita dunque quella stessa libertà per cui si batte – viene definita “violenta”, ciò può accadere solo perché questo abuso del linguaggio da parte del potere mira ad assicurare il proprio monopolio sulla violenza, screditando chi si oppone a esso, o giustificando il ricorso alle forze di polizia, all’esercito o alla sicurezza pubblica contro coloro che invece cercano di esercitare e di difendere in tal modo quella libertà. L’americanista Chandan Reddy, per esempio, ha sostenuto che la modernità politica liberale negli Stati Uniti ha assunto una forma che pone lo stato a garanzia della libertà dalla violenza che dipende fondamentalmente da un’aggressività dispiegata contro le minoranze razziali, contro tutte le persone caratterizzate come “irrazionali” o comunque come esterne alle norme nazionali4. Secondo Reddy, lo stato si fonda sulla violenza razziale, e a sua volta continua a infliggerla sistematicamente nei confronti delle minoranze. La violenza razziale, in altre parole, viene intesa come funzionale all’autodifesa statale. Quante volte succede, d’altronde, negli Stati Uniti e altrove, che le persone non bianche5 vengano definite “violente” dalla polizia, sia per strada sia nelle loro abitazioni, e arrestate o uccise anche se sono disarmate o stanno solo camminando, o scappando, o tentando esse stesse di sporgere denuncia, o semplicemente dormendo6? È interessante, e terrificante, osservare come opera la difesa della violenza nel momento in cui il bersaglio deve essere presentato come una minaccia o come un veicolo di violenza reale e imminente, al fine di far passare l’azione omicida della polizia per “autodifesa”. E se la persona in questione non stava facendo nulla di palesemente violento, può essere sufficiente rappresentarla come violenta, come un tipo di personalità violenta, o addirittura come la violenza allo stato puro incarnata in una persona - e da una persona. Quest’ultima definizione, il piú delle volte, denota razzismo.
Ciò che inizialmente sembrava un dibattito morale sull’essere pro o contro la violenza, si trasforma quindi rapidamente in un discorso su come può essere definita la violenza e su chi viene definito “violento” – e per quali fini. Quando un gruppo si riunisce nello spazio pubblico per opporsi alla censura o all’assenza delle libertà democratiche e questo viene definito come “disordine di massa”7 o percepito come una minaccia che porterebbe caos o distruzione nell’ordine sociale, quel gruppo viene sia nominato sia rappresentato come potenzialmente o concretamente violento, in modo che lo stato possa essere giustificato nel difendere la società da quella minaccia violenta. Quando ciò che ne consegue è l’incarcerazione, un danno fisico o l’uccisione, la violenza messa in campo emerge come “violenza di stato”. Possiamo definire “violenta” l’azione dello stato anche quando questo esercita il proprio potere per nominare e rappresentare come “violento” l’esercizio del dissenso nei suoi confronti da parte di un gruppo sociale. Allo stesso modo, una manifestazione pacifica come quella che ebbe luogo al Parco Gezi di Istanbul nel 20138, o un appello per la pace come quello sottoscritto da molte e molti intellettuali turchi nel 20169, possono essere effettivamente rappresentati come atti “violenti” solo se lo stato dispone di propri media o se, quantomeno, esercita un sufficiente controllo su di essi. In tali condizioni, l’esercizio del diritto di riunirsi nello spazio pubblico viene definito una manifestazione di “terrorismo”, con tutto ciò che ne consegue: censura statale, manganellate e uso di idranti da parte della polizia, licenziamenti, detenzione a tempo indeterminato, incarcerazione ed esilio.
Renderebbe senz’altro piú facili le cose riuscire a definire la violenza in modo chiaro e incontestabile; ciò, tuttavia, risulta impossibile in una congiuntura politica in cui il potere di definire il dissenso come violento diventa esso stesso un mezzo per l’accrescimento del potere statale, per screditare gli obiettivi di chi si oppone a esso, o addirittura per giustificare la radicale deprivazione dei diritti civili, la detenzione o l’omicidio. Una simile definizione del dissenso dovrebbe essere contrastata per il semplice fatto che è falsa e ingiusta; eppure, come si può pensare che ciò possa accadere se nella sfera pubblica è stata immessa la piú totale confusione semantica su ciò che è violento e ciò che è nonviolento? Dovremmo forse arrenderci a una serie di opinioni fumose su violenza e nonviolenza, costringendoci ad ammettere il piú generico relativismo? O potremmo invece cercare di stabilire una distinzione tra l’attribuzione tattica della violenza che falsifica e inverte la sua direzione, da una parte, e quelle forme di violenza, spesso strutturali e sistemiche, che invece sfuggono alla denominazione diretta e di cui quasi nessuno si preoccupa, dall’altra?
Ai fini di un’argomentazione a favore della nonviolenza è necessario comprendere e valutare i modi in cui la violenza viene raffigurata e attribuita nel campo del potere discorsivo, sociale e statale, le...




