E-Book, Italienisch, 216 Seiten
Reihe: Saggi
Bradley / Luke Contro i confini
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-6783-451-8
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 216 Seiten
Reihe: Saggi
ISBN: 978-88-6783-451-8
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
I confini danneggiano tutti. Separano i lavoratori e le famiglie, alimentano la divisione razziale e rafforzano le disparita?, incoraggiano lo sviluppo di tecnologie di sorveglianza e di controllo che hanno un impatto sia sui migranti sia sui cittadini. Bradley e de Noronha ci ricordano che i confini non sono solo quelli fisici che separano le nazioni, ma sono ovunque e li incontriamo ogni giorno: ci seguono e si mettono tra noi e gli altri per danneggiare sicurezza, liberta? e prosperita? collettive. Questo libro e? un appassionato manifesto per la loro abolizione, e una riflessione sul valore dell'abolizionismo come pratica speculativa e culturale, oltre che uno sguardo utopico su un futuro di liberta? e uguaglianza.
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INTRODUZIONE
I confini nel senso comune
Cosa fanno i confini? Nell’interpretazione convenzionale, stabiliscono dove finisce un Paese e dove ne inizia un altro. Sono linee su una carta, permanenti e, all’apparenza, razionali. I confini delineano il territorio di una nazione e fanno da filtro agli spostamenti in entrata e in uscita di persone e di beni. Tengono fuori ciò che è proibito: somme di denaro non dichiarate, animali, specie vegetali invasive, malattie, droghe e, ovviamente, persone non autorizzate.
I ricchi abitanti del Nord globale attraversano le frontiere con relativa facilità, salvo il breve fastidio del controllo via scanner dei bagagli e del passaporto, prima del caldo abbraccio con la famiglia lontana e del languore delle vacanze. I viaggiatori rispettosi della legge accettano di buon grado le perquisizioni personali e la scansione a raggi X perché ritengono di non avere nulla da nascondere. E, a dirla tutta, perché hanno un desiderio condiviso di controllo, ordine e sicurezza.
È tale bisogno di controllo e sicurezza a definire le politiche sull’immigrazione, e quindi i titoli sui giornali e i discorsi politici contro i pericoli di un’immigrazione incontrollata. Ma a quanto pare questi confini vengono violati di continuo. Da qui le metafore liquide – “diluvio”, “ondate” o “marea” di migranti – superate soltanto dall’espressione, barbarizzante, “orde”.
Gli immigrati vengono di solito messi a fuoco come un assortimento delle loro caratteristiche più minacciose, e il loro arrivo e la loro distribuzione sul territorio – troppi, troppo velocemente e del tipo sbagliato – sono visti soltanto come un rischio, che porta con sé insicurezza e declino di una nazione.
In un contesto simile, i governi sembrano costretti a impegnare risorse sempre maggiori e tecnologie sempre più sofisticate per rafforzare i propri confini. Il recente aumento di governi di destra è stato accompagnato dal proliferare di muri, reticolati, barriere galleggianti, droni destinati alla sorveglianza dei migranti che attraversano deserti e oceani, respingimenti ai confini dell’Europa e valutazione delle richieste di asilo attraverso campi di detenzione . L’intensificarsi di una politica di frontiera violenta e spettacolarizzata è intimamente connesso all’ascesa di governi razzisti e nazionalisti propria dell’attuale momento storico.1
Ma non si tratta di un problema della sola destra. Da tutto lo spettro politico si alzano voci che affermano la ragionevolezza e la necessità delle frontiere. Molti partiti e diversi sindacati ritengono che i confini proteggano la classe lavoratrice dall’abbassamento dei salari causati da un surplus di lavoro migrante, che evitino di sovraccaricare l’edilizia pubblica e i servizi al cittadino e preservino lo “stile di vita” e la “cultura nazionale” delle società meta di immigrazione. Si ritiene, inoltre, che le frontiere servano da contrasto al traffico di esseri umani e a quello a scopo sessuale, oltre a evitare che i talenti migliori abbandonino i Paesi più poveri. In tutte queste narrazioni, le persone in movimento vengono ridotte a numeri, unità di lavoro, minacce razzializzate, vittime disperate e categorie legali. La loro umanità viene cancellata e i “fattori di spinta” () che guidano la loro decisione di migrare rimangono sullo sfondo: una sorta di miasma fatto di guerre, persecuzioni e collasso ecologico completamente slegato dagli atti e dalle storie dei Paesi del Nord globale.
Parte del problema è che il sistema degli Stati-nazione viene semplicemente dato per scontato, come se i Paesi e le ineguaglianze fossero naturali e permanenti. La cittadinanza – il sistema politico-legale che assegna gli individui agli Stati – non viene messa in discussione. E non solo: la cittadinanza è vista come un bene universale, segno di inclusione politica e soggettività, e si presuppone che ciascun individuo sia un cittadino a “casa propria”, lì dove ha legami culturali e sociali radicati, un luogo a cui, quindi, “appartiene”. In un simile contesto, il controllo dell’immigrazione è percepito come mirato esclusivamente all’applicazione di coerenti distinzioni legali e spaziali tra le varie popolazioni nazionali, tramite meccanismi burocratici quali visti, passaporti, controlli alle frontiere e accordi tra gli Stati. I confini tra gli Stati-nazione sono considerati vitali per la democrazia: delimitano il
Per sostenere una simile visione delle frontiere, tutti gli Stati-nazione devono essere immaginati come formalmente uguali e sovrani. Ma una tale presunzione richiede un’amnesia storica per quel che riguarda il colonialismo, e una volontà precisa di non tener conto delle attuali relazioni di dominio economico. Ovviamente le cittadinanze non sono tutte uguali: i cittadini svedesi, neozelandesi o statunitensi hanno maggiori opportunità di una vita migliore e una ben diversa libertà di movimento rispetto ai cittadini del Bangladesh, della Repubblica Democratica del Congo o del Kirghizistan. Dunque, il controllo dell’immigrazione non si limita a dividere il mondo, ma rafforza distinzioni di spazi e diritti tra popolazioni nazionali estremamente ineguali.
Questo libro, rifiutandosi di basarsi su un mondo scontato di Stati-nazione grottescamente disuguali, sfida la logica alla base dell’attuale ordine globale, e sostiene che la cittadinanza e i confini, ben lungi dal proteggere la democrazia e i diritti, non fanno che riprodurre varie forme di ineguaglianza, ingiustizia e sofferenza.
I confini sono ovunque
Il problema più evidente di queste narrazioni dominanti è che i confini non sono efficienti nell’ottenimento dei loro presunti scopi. Le persone li attraversano con o senza autorizzazione, documenti validi o status. Le frontiere costringono i migranti a prendere strade diverse, più lunghe e pericolose, a usare documenti altrui e a pagare qualcuno perché faciliti il loro viaggio. Privando le persone di percorsi più sicuri e diretti, i confini le espongono a pericoli – rapine, estorsioni, sfruttamento e violenza – ma non impedisce loro di muoversi.
E quindi, le persone arrivano. Stringono amicizie, si innamorano (di altre persone e dei posti) e, certe volte, decidono di rimanere. Se tutto ciò accade senza che abbiano il giusto status, rischiano di essere escluse dal diritto al lavoro, dalla possibilità di affittare legalmente un’abitazione e dall’accesso ai servizi pubblici, come la sanità e l’educazione, o costrette ad accettare lavori all’interno di settori specifici, spesso con pessime condizioni contrattuali e ambientali e, non di rado, con il rischio di essere criminalizzate.
In alcuni casi anche i migranti con un permesso legale non hanno il diritto di cambiare impiego, lasciare il coniuge o rimanere al termine dei loro corsi universitari. Tutto ciò ne limita la possibilità di esprimersi liberamente, di far valere i propri diritti sul lavoro o di abbandonare relazioni violente. I loro cari potrebbero non essere in grado di raggiungerli o persino di incontrarli. I non-cittadini rischiano di essere obbligati a sottomettersi a regolari controlli biometrici, a sborsare somme importanti di denaro – oltre alle tasse abituali – per poter accedere ai servizi essenziali e a pagare tasse onerose per mantenere il proprio status di immigrati. I lavoratori migranti, i richiedenti asilo e le persone prive di documenti sono spesso esclusi dai sussidi e dalla sanità pubblici, anche nel corso di una pandemia globale.
Inoltre, è sempre possibile essere privati dello status e dei diritti di cui si è goduto per decenni, come dimostra il cosiddetto scandalo Windrush, in cui ad anziani immigrati caraibici residenti nel Regno Unito è stato impedito di beneficiare dei servizi socio-sanitari, mentre alcuni sono stati persino deportati negli stessi Paesi che avevano lasciato negli anni Sessanta e Settanta.2
Coloro che possiedono un’autorizzazione a risiedere da qualche parte possono scoprire da un giorno all’altro che le regole sono cambiate e che, all’improvviso, sono diventati “illegali”. Non facciamo l’errore di credere che si tratti di aberrazioni, è parte di ciò che fanno le frontiere: seguono le persone, escludendole in modi diversi, in momenti differenti, producendo in questo modo quella precarietà e quella alienabilità che caratterizzano la condizione migrante.
Tutto ciò ci ricorda che i confini non acquistano concretezza solo ai bordi dei territori nazionali, negli aeroporti o sui muri tra le frontiere: i confini sono quotidiani e ubiqui, determinano il modo in cui le persone interagiscono con i loro datori di lavoro, la polizia e i partner, dove vivono e lavorano, e il loro accesso alla sanità e ai sussidi pubblici.3
Le frontiere non hanno conseguenze soltanto su coloro che si muovono o su coloro che si percepiscono come migranti, ma spesso colpiscono individui da lungo tempo stanziali, che vengono “illegalizzati” – trasformati in immigrati – insieme alle loro famiglie e ai loro amici. Le pratiche prodotte dai confini hanno ricadute negative molto più frequenti sui cittadini appartenenti a minoranze, che si trovano a essere razzializzati come “immigrati” o “di origine...




