Bojetu | Filio non è a casa | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 288 Seiten

Reihe: Amazzoni

Bojetu Filio non è a casa


1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-6243-585-7
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 288 Seiten

Reihe: Amazzoni

ISBN: 978-88-6243-585-7
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



In un'isola remota e dalla natura insolita uomini e donne vivono separati, ma i primi esercitano il loro dominio sulle seconde con la violenza. Tutti però sono sottomessi alle regole infami di un proprietario senza nome che risiede sulla terraferma. In questa realtà è cresciuta Filio, insieme alla nonna Helena e al giovane Uri: le tre voci alle quali Berta Bojetu affida il racconto di un inquietante altrove dominato dall'istinto di sopravvivenza e da sentimenti che non vanno oltre la paura, l'odio e il sospetto nei confronti del prossimo. Un'opera di sconvolgente crudezza in cui i protagonisti cercano di reagire alla progettata distruzione della loro individualità con forza vitale e creativa.

Attrice, poetessa e scrittrice, nasce nel 1946 a Maribor. Inizia in giovane età a scrivere poesie, pubblicate a partire dal 1976 su rinomate riviste slovene. Autrice anche di diversi racconti e opere teatrali, è però soprattutto riconosciuta e apprezzata per i suoi due romanzi: 'Filio non è a casa' (1990) e 'Pti?ja hi?a' [La casa degli uccelli] (1994). È morta a Lubiana nel 1997.
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PARTE II
IL DIARIO DI HELENA BRASS


Ha raccolto la frusta da terra e se n’è andato. Nell’angolo più lontano della stanza, rossa come il vino, ardeva una candela e offuscava l’alba che fuori stava spuntando. Mi sono seduta e ho aspettato. Non è successo nulla, anche se avrei voluto; qualsiasi cosa ma non questa immobilità. La stanza e il letto erano in disordine. Tutto era sparso qua e là. C’erano oggetti ovunque: vestiti, lenzuola, cuscini, libri, candelabri rovesciati, un armadio spostato, un copriletto. Cosa era capitato alle cose e a me, che eravamo lì, ferme, e aspettavamo?

Poche ore prima, tra tuoni e lampi, pioggia e vento, la porta di casa si era aperta. Sulla soglia si ergeva un uomo alto, con stivali e mantello. I suoi capelli corti, tagliati vicinissimi alla testa, erano fradici. Con una mano grande e nodosa si era strizzato la pioggia dai capelli in un gesto solo, da sinistra a destra. Aveva poi scrollato l’acqua dal palmo, mi si era avvicinato e in un paio di mosse ci aveva spogliati entrambi. Mi ero ribellata e più durava quella lotta bagnata, più io scalciavo, mi dimenavo e strisciavo per la stanza per sfuggirgli. All’improvviso, mi aveva afferrata, sottomessa e posseduta.

Stanotte non ho dormito. Continuo a starmene seduta e cerco di trovare un collegamento tra gli eventi, una via d’uscita. Terrorizzata, cerco un modo per fuggire dall’isola, anche se non agisco concretamente. C’è qualcosa che mi attira in questa stasi silenziosa.

Dopo quella notte, sono rimasta quasi sempre seduta. Facevo qualche lavoretto in casa, ma per lo più mi sedevo vicino alla finestra, guardando giù verso il mare, sulla riva, scrutando la collina e più avanti l’isola, forse per scorgere un cavaliere. Ricordavo il volto dell’uomo in sella, con la frusta in mano, che dava ordini quella notte quando, bagnata e infreddolita, mi avevano estratta dalla barca e mi avevano adagiata su una panca di pietra vicino alla casa. Mi ero tirata su per vedere se con me c’erano anche mia figlia e il bambino, una creatura di circa quattro anni, che mi ero trascinata dietro dall’imbarcazione che stava affondando. Mi ero sollevata sui gomiti e in alto, sopra di me, avevo visto il volto di un uomo. In sella al suo cavallo, si comportava da padrone.

Oggi è il ventisettesimo giorno da quando è stato in questa stanza con me, ed è sera. Non dovrei desiderare che venisse di nuovo, potrebbe succedere di tutto.

***

Sono passati ottanta giorni dal mio arrivo sull’isola. Continuo a rimanere seduta. Ho pregato più volte la donna che si occupa delle faccende nella casa in cui siamo alloggiati di farmi parlare con qualcuno che possa dirmi cosa ne sarà di me e dei bambini. L’isola, a quanto pare, è fuori da ogni rotta. In tutti questi giorni non ho visto attraccare un’imbarcazione di dimensioni rispettabili né una nave. In una lingua che era un lontano prolungamento della mia, lei mi ha risposto che dovevo aspettare. Che mi avrebbero cercato al momento giusto e mi avrebbero parlato.

Mi ha risvegliata un pianto. Il bambino che avevo portato con me dalla barca pestava i piedi davanti alla porta chiusa che dava sulla strada e intanto urlava. La governante cercava di spiegargli che uscire non era permesso, si era accovacciata accanto a lui e gli asciugava le lacrime con l’orlo della gonna corta. Ho capito che stava cercando di portarlo nel cortile davanti casa. Se ne sono andati e il pianto è cessato. Ho aspettato. Lei è tornata, agitata e rossa in faccia, quasi in lacrime, e si è fermata:

“Rimanete in casa, nel cortile interno, tutti e tre; aspettate, non so niente” ha sillabato.

A causa della rabbia e dell’incertezza in cui ci trovavamo ho faticato a capirla. Mi rimbombavano e fischiavano le orecchie. La collera che negli ultimi mesi fermentava da qualche parte dentro di me stava sgorgando, repressa, senza urla, ribollente e diversa. Avevo la fama di essere impaziente e irascibile. Fino a quel momento – con la vendita della casa e del negozio – mi era sembrato di aver accantonato alcune preoccupazioni e – una volta dato il benservito ai dipendenti in negozio e a casa – di aver dimenticato cosa fossero la rabbia, il nervosismo e la fretta. All’improvviso mi trovavo di fronte, faccia a faccia, la governante, e il mio volto era ancora più arrossato e agitato del suo poco prima. “Voglio sapere dove mi trovo e cosa ci succederà. Mi porti da qualche parte, mi accompagni in città così capirò cosa sta succedendo” le sibilai e aprii il portone con un gran frastuono.

Non avevo idea di dove andare, volevo incontrare qualcuno che mi dicesse dove eravamo e chi erano le persone che si preoccupavano così poco di noi tre.

Di colpo volevo sapere tutto e in un solo momento mi si era fatta chiara l’intera situazione. Mi sentivo sotto pressione, avevo un cerchio alla testa e i crampi, e mi ero resa conto della stranezza, della bizzarria di ciò che mi circondava. Siamo in mezzo a persone diverse, straniere, che vivono qualcosa a me sconosciuto, oppure gli eventi si susseguono secondo un ordine per me alieno e minaccioso. Avevo paura e ho deciso di informarmi su questo mondo ignoto, per riconoscere in cosa mi era estraneo e così forse ridurre l’ansia. Questa era la mia vecchia tecnica e mi sono riproposta di seguirla senza esitazione.

Sono corsa in strada, tra le persone che mi avevano portata via dalla tolda dell’imbarcazione che stava affondando; la vita da reclusa in casa mi era diventata insopportabile, dovevo riprendere le redini della mia esistenza.

Divieti di uscire non ne avevo notati, allora. In quelle dieci settimane avevo vissuto in uno stato di torpore emotivo, in me nulla si muoveva salvo due pensieri che si alternavano, di giorno e di notte. Sapevo dove trovarli e li facevo giostrare. Con lui e senza di lui. Mi bastavano, non interferivano con le mie preoccupazioni su ciò che sarebbe accaduto, risvegliavano in me alcune fantasie che io, vedova, non mi aspettavo più.

Presa dalla foga mi sono ritrovata nella piazza davanti alla chiesa. Sopra di me, in alto su una scala senza ringhiera, si ergeva una donna. Nella mia confusione non avevo capito che mi stava attendendo.

“La fantesca non vi ha detto di non venire in città, tra la gente, finché non sarà stato deciso cosa farne di voi?” mi ha chiesto, perentoria.

“Voglio parlare con qualcuno che mi spieghi dove mi trovo e quando continueremo il viaggio per raggiungere la mia meta” ho replicato, ma lei mi ha dato sulla voce, inesorabile e brusca.

“Taci e torna alla casa che ti è stata assegnata. Ti chiameremo.”

Sono rimasta lì, con le braccia flosce e le labbra strette, impotente. Girando sui tacchi ho osservato la piazza, e ho visto donne che – andando ognuna per la propria strada – fingevano di ignorarmi, mentre occhieggiavano, come se non fosse loro permesso guardarmi. Con la testa china si affrettavano qua e là. Che impressione straziante. Si comportavano come se questo gridare nella pubblica piazza non fosse un avvenimento, e al tempo stesso tremavano per paura che accadesse qualcos’altro.

È sera. Mi sono messa a sedere già nel primo pomeriggio e non mi sono più alzata. Il fatto che non dispongano di un trabaccolo o di qualcosa di simile o più grande con cui provvedere al nostro spostamento non mi sembra una spiegazione soddisfacente. C’è qualcosa che mi disturba. C’è qualcosa intorno a me che mi lascia perplessa. In questi giorni darò un’occhiata in giro per la città.

È a causa dell’eccitazione e dell’angoscia che strade e persone mi sembrano così lontane e diverse, oppure è colpa delle settimane di assenza spirituale, che mi fa cercare spiegazioni assurde a questioni perfettamente ordinarie?

***

È sera. Uscirò in strada e passeggerò. Non ce la faccio più. Ho bisogno di sapere dove mi trovo.

Sono tornata. Sono rimasta a lungo nell’ingresso, appoggiata alla porta. Mi giravano in testa immagini e frasi disordinate, saltavano l’una nell’altra, e solo dopo molto tempo si sono ricomposte.

Avevo mosso un passo nell’oscurità, per una strada stretta e lastricata che fiancheggiava le case lungo il bordo di un canale in pietra. Ero avanzata lentamente, toccando qua e là il muro mantenuto freddo dai venti di primavera. Era buio, da nessuna parte un lume acceso, ma riuscivo a vedere abbastanza, anzi, dopo qualche minuto vedevo tutto, tanto chiara era la notte.

Sono arrivata ai margini dell’abitato e in basso è apparso il mare con le piccole barche vicino al molo, la città laggiù era illuminata qua e là, si distinguevano bene due piazze con alcune persone sedute davanti alle case, ma era troppo lontano per riconoscerne i volti. Nella quiete però mi sono sentita turbata quando girandomi ho visto che quassù non c’erano luci, che tutti erano a letto, mi si è insinuato nella mente qualcosa di oscuro che non riuscivo a spiegare. Vedevo due piccole città, una qui accanto a me, muta e buia, come messa a tacere, e anche l’altra più in basso era silenziosa, ma in un modo diverso. Davvero, entrambe immote, come sotto minaccia. Questo pensiero costituiva una certezza. Due città, una ai piedi di una parete di sabbia, come al fondo di un dirupo, e in riva al mare, e l’altra in alto con gli uccelli a fare da sentinelle. Sembrava che qualcuno le avesse colte a litigare e non avesse mai provato a riconciliarle.

Ero voluta uscire e fare una passeggiata e quindi, nonostante avessi il cervello sotto pressione, ho continuato.

All’udire uno scalpiccio mi sono immersa nell’oscurità. Un uomo mi è passato accanto ed è entrato in un’abitazione. Ho aspettato che chiudesse la porta e ho proseguito. Ero davanti alla casa che conoscevo. In alto, su, sopra...



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