E-Book, Italienisch, 256 Seiten
Reihe: Intrecci
Bitetto Sacro niente
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-6243-597-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 256 Seiten
Reihe: Intrecci
ISBN: 978-88-6243-597-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
(Terlizzi, 1992) Insegnante, scrittore e giornalista culturale. Ha scritto di letteratura e società per numerose testate online. Ricopre il ruolo di editor in 'NEA Magazine', rivista di letteratura e fotografia. Con il suo romanzo d'esordio 'Scavare' (Italosvevo, 2019) ha vinto il Premio POP della Fondazione Mondadori.
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UN FIGLIO
A quanti non ho prestato attenzione, i loro volti si sovrappongono e si confondono i nomi dei cari che hanno raccomandato... Mi capita raramente di avvertire la necessità di protendermi, scrutare un cuore più misterioso degli altri. Mi capita ancor più di rado che di fronte a me non ci si curi della benedizione. Un pomeriggio d’aprile un ragazzo accigliato, tenendo lo sguardo basso, si abbandonò ai miei piedi in abito da cerimonia, dandomi le spalle e puntando la schiena contro il piedistallo. Non potevo scorgerne il volto, ma sentivo chiaramente i sospiri, sbuffi rabbiosi nel silenzio del parco. Ogni cavernoso respiro raccontava la sua parabola, alla quale non potevo fare a meno di votarmi.
Sì, lo confesso: ho ammazzato il cane di mio zio. E la cosa non mi provoca il benché minimo rimorso. Ho le mie buone ragioni e non ho intenzione di nasconderle, come non ho nessuna voglia di celare il delitto. Presto ammetterò tutto, quando sarà finita questa recita esporrò a mio zio le ragioni del gesto, gli descriverò nei minimi dettagli come ho cercato su internet il veleno più adatto, come sono bastate poche ore per ricevere il pacchetto, maneggiare la polvere urticante, riempirvi un paio di würstel. Allo stesso modo è stato facile lanciare la carne al barboncino, osservarlo sbranare il lauto boccone. Racconterò a mio zio ciò che non ha visto: il cane con il respiro pesante, la bava che bagna il cortile, i rantoli, il rigurgito, gli schizzi di sangue a sporcarne le zampe. Non sarà per cattiveria che dirò tutto questo, ma per amor di verità, riempirò le sue lacune, le ore trascorse prima di trovare il cane morto, con il muso ricoperto di tagli, il grugno sfondato, e i resti dell’ultimo pasto sparsi ovunque. Confermerò a mio zio i suoi sospetti: il cane è stato avvelenato e persino preso a calci, perché negli ultimi minuti, sentendo prossima la fine, ringhiando e abbaiando, aveva spinto il muso tra le sbarre, non sono riuscito a trattenermi, ho caricato una pedata per ricacciarlo indietro. Il muso si spaccava, sentivo il crac sotto la suola, la bestia barcollava e finalmente si accasciava, con un ultimo rantolo spirava, diventava la carcassa che, a poche ore dalla mia fuga, è stata ritrovata dallo zio.
D’altronde prendermela con il barboncino è stata una scelta razionale, quasi obbligata. Mio zio lo spazzolava ogni sera, per tutta la vita lo ha riempito di premure, nutrendolo con la migliore varietà di croccantini, lavandolo e profumandolo alla vigilia di ogni gara. Cosa avrei dovuto fare se non colpirlo nel suo punto debole? Prendersela con mia zia o mia cugina non avrebbe sortito lo stesso effetto. Non si può dire che mio zio sia particolarmente crudele, che tutte le volte che gli sfugge un pugno, uno schiaffo, nelle normali liti coniugali, lo faccia con particolare cattiveria, che non si penta subito dopo, regalando fiori o portando la zia fuori a cena, insomma che non distribuisca i canonici contentini di una salubre gerarchia di coppia. E non si può dire che non accudisca sua figlia dispensando premure, accortezze e dimostrazioni di affetto debitamente bilanciate dall’adorazione del padre forte. Mia zia, mia cugina, si sono uniformate al suo volere senza troppi patemi. Tuttavia il cane è sempre valso più di moglie e figlia, questo è un fatto.
Anche se non posso escludere che mio zio volesse bene a mio padre quanto al cane, che anzi l’acquisto del cane non fosse altro che un modo bizzarro per sopperire al vuoto lasciato dalla scomparsa del fratello. Le tempistiche sembrano suggerirlo: un cucciolo di barboncino, portato a casa otto giorni dopo il suo funerale. Credo che accudire l’animale fosse un modo per lenire il senso di colpa, per mettere a tacere quella voce della coscienza che, sepolta sotto una coltre di menefreghismo, gli imputava di non essere stato abbastanza vicino al parente più prossimo. In effetti, nel mese in cui lui fu allettato, in coma dopo la lite con mia madre, mio zio non fece molto per sostenerlo, per cercare di risvegliarlo con quei metodi pacchiani da film, tipo mettere la sua canzone preferita nello stereo – d’altronde non aveva idea di quale fosse – o parlargli per ore, poiché non avrebbe saputo di cosa parlare, neanche l’infanzia per quei due era terreno comune, mio zio non giudicava che fosse arrivato il momento, nell’ora più buia e bisognosa, di dismettere le vesti di uomo duro e provare a confidarsi con il fratello morente. Lo zio non si è preoccupato di consolare mia madre, non gli è mai venuto in mente che la cognata avesse bisogno di un cambio nei turni logoranti accanto al letto del malato, non si è mai degnato di discutere con i medici, sostenendo che non ne capisse molto, che la condizione di mio padre lo impressionava così tanto da spingerlo a eludere il referto sconfortante.
Certo, nell’ora dell’incidente, mentre mio padre giaceva sul fondo delle scale inchiodato al suolo dal trauma cranico, e mia madre si disperava, inciampava sui gradini pur di abbracciare quel corpo, io, impossibilitato a preoccuparmi dei risvolti di quello a cui avevo appena assistito, non avevo avuto altra idea che chiamare mio zio. Difatti l’uomo si era precipitato assieme all’ambulanza e, una volta aperto il portone ai medici, ci aveva scortato in ospedale, schiaffeggiando mia madre con veemenza pur di levarle di dosso lo stordimento del trauma. Eppure alle prime fasi è succeduta una quieta accettazione. Ogni giorno si presentavano in terapia intensiva verso le sei di pomeriggio, lui, la moglie e persino la figlia: mentre mia zia teneva testa alla stanchezza di mia madre, e mia cugina sussurrava qualcosa sulla provvidenza che io faticavo a interpretare, l’uomo si avvicinava al letto, buttava giù due lacrimoni, si soffiava il naso in maniera patetica e rumorosa, dopo quarantacinque minuti di quella commedia tornava indietro, si informava da mia madre sui saliscendi del coma, guardava l’orologio distratto e, con finta gravità, ci dava appuntamento al giorno dopo, sparendo nell’angolo del corridoio. Secondo lui saremmo stati tenuti a scusarlo, giacché era “impressionabile” e “non a suo agio con l’aria pesante della corsia”; insomma, a parte la breve parentesi quotidiana, era meno zelante di quanto lo sarebbe stato negli anni a venire con il suo dannato cane.
L’unico aspetto che, anche a distanza di giorni, destava in lui sincero interesse era appurare le circostanze dell’incidente. Superate le prime concitate fasi di soccorso, in cui mia madre ebbe modo di rispondere ai medici, sostenendo che mio padre era inciampato sull’ultimo gradino delle scale, mentre saliva, di ritorno dal garage, e il mazzo di chiavi che stringeva in mano confermava questa versione, peraltro avallata dal sottoscritto, una volta attestata la condizione comatosa, mio zio si mise in testa di ricostruire con minuzia il fatidico scenario. Allora per settimane, invariabilmente, a latere delle visite sbrigative, si sedeva accanto a noi, e simulando una calma che non aveva mai avuto, ci chiedeva di raccontare ancora l’accaduto, di ricordare ogni momento, di aggiungere un ulteriore dettaglio, giustificandosi con la fandonia che, magari, conoscere di preciso la dinamica della caduta avrebbe aiutato i medici. Erano propositi fantasiosi, ne eravamo ben consci, ma allo stesso tempo avevamo paura che un nostro rifiuto avrebbe tramutato in certezza il suo sospetto. Dunque in ogni occasione, tacitamente, senza esserci mai consultati, ripetevamo la storia del capitombolo fortuito, spiegando nel dettaglio il momento in cui aveva messo il piede in fallo, o come aveva mancato di aggrapparsi alla ringhiera. Coprivamo le contraddizioni accampando la scusa della confusione, dell’emozione del momento, l’ammissione di non aver visto il frangente della caduta, ma di averlo ricostruito a freddo. Mentre mia madre piangeva, e con tono altalenante raccontava la solita versione, mi guardava di sottecchi, come a dire salvami, stai al mio gioco. Sotto lo sguardo inquisitore dello zio ripetevo i passaggi, confermavo le ulteriori minuzie date in pasto alla sua curiosità malsana. Non potendo appigliarsi ad alcunché, sebbene poco convinto, era costretto ad accettare la versione ufficiale. Finché, dopo tante di quelle scenette, smise di indagare, stanco di perpetuare l’estenuante interrogatorio quotidiano.
Non gli spiegherò ciò che in effetti aveva già intuito, ovvero che gli mentivamo, non confesserò nessun delitto – se ciò che è successo si può definire tale – se non quello del suo cane, non voglio dargli altri elementi per recriminare, si deve concentrare solo sui propri errori. Mio zio non può comprendere le ragioni dell’incidente e l’origine della nostra omertà, perché lui è troppo simile a mio padre.
Da destra verso sinistra, da sinistra a destra: il suo piede oscilla come un metronomo, traccia un solco semicircolare, l’impronta del suo nervosismo. Non riesco ancora a guardarlo in faccia, eppure ne leggo ogni movimento interiore.
I due uomini erano cresciuti allo stesso modo, figli di una civiltà contadina che li aveva legati per sempre alle proprie fatiche, ma che aveva donato loro il privilegio di un’origine certa, immutabile. Mio nonno amministrava con mano di ferro una ricca azienda agricola, e nella prospettiva di tramandarla li aveva fatti studiare: entrambi ragioneria e poi economia all’università. Non si può dire che, al di là dell’educazione familiare improntata all’esercizio del potere, i due fratelli, pur nel contesto disastrato di un Sud non proprio all’avanguardia, non avessero potuto apprendere o entrare in contatto, in ambito cittadino, universitario, con un diverso sistema valoriale. Ma loro avevano scelto: non avrebbero mai messo in discussione il codice di condotta appreso dal padre, avrebbero forgiato la...