Birgisson | La fonte della vita | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 301 Seiten

Reihe: Narrativa

Birgisson La fonte della vita


1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-7091-954-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 301 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 978-88-7091-954-7
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Sul finire del Settecento il giovane Magnús Árelíus, ambizioso rampollo della buona società danese, viene inviato dal suo governo in Islanda con un incarico importante: valutare l'opportunità di deportare dall'isola, a quel tempo devastata dalle eruzioni vulcaniche, dalla carestia e dal vaiolo, tutta la popolazione abile al lavoro, per trasferirla a Copenaghen e impiegarla come manodopera nella nascente industria nazionale. Fervente illuminista, Magnús Árelíus vede nel suo compito la missione dell'uomo di scienza, ansioso di esplorare quelle terre e quelle genti selvagge e di portare fino all'ultima Thule la luce della ragione. Ben presto però, nel corso del suo viaggio, questo perfetto esemplare dell'uomo moderno dovrà rendersi conto che la sua erudizione serve a ben poco per sopravvivere in una terra così difficile. Rimasto solo, non potrà che affidarsi all'aiuto della povera e incolta gente del posto, grazie alla quale si troverà coinvolto in una realtà inconciliabile con i principi della sua cultura e della sua ragione: a contatto con un mondo dominato da forze oscure e irrazionali, da una natura «matrigna» con la quale gli indigeni sembrano invece convivere in armonia, tutte le sue certezze vacilleranno. Tra realtà storica e finzione letteraria, con un dosaggio efficace di diversi piani narrativi, Bergsveinn Birgisson rivendica in questo romanzo l'orgoglio della sua Islanda, denunciando gli abusi del colonialismo, lo sfruttamento di uomini e risorse e insieme esplorando l'eterno dilemma umano tra ragione e sentimento, tra natura e cultura, tra individuo e società.

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Capitolo I


In quel tempo la vita della nazione islandese era appesa a un filo. Intorno al giorno di san Giovanni nell’anno del Signore 1783, la crosta terrestre si spaccò nei pressi dello Skaftárjökull, a ovest del grande ghiacciaio Vatnajökull, e una massa di lava incandescente investì gli insediamenti circostanti; dalla fenditura infuocata eruppero scariche di pomice e cenere che oscurarono il sole. Fiamme ardenti zampillarono verso il cielo, e si racconta che il fuoco si distinguesse da una distanza di sei o sette giorni di cammino,1 nonostante l’aria fosse avvolta in una densa caligine. E a causa delle emissioni di cenere che si produssero durante tali sconvolgimenti, nella lingua di tutti i giorni questo periodo di calamità fu chiamato móðuharðindi, «foschi patimenti». Un’altra caratteristica di quelle eruzioni fu la loro durata senza precedenti, poiché la terra continuò per quasi un anno intero a sputare fuoco e cenere, tanto che molti credettero, col passare del tempo, che il fuoco non si sarebbe mai spento.

Una massa dura di un colore tra il rame e il giallo-fanghiglia avvolse la terra, impedendo la crescita dell’erba nelle campagne del Sud e oltre; a est la gente combatteva contro il fuoco e la pioggia di lapilli, mentre a nord, a causa del prevalere dei venti da meridione, pomice e cenere ricoprivano le campagne soffocando la vegetazione, e si camminava nel fumo. La stagione seguente fu fredda, il sole era nero, come si dice in un antico poema.

Non che le eruzioni fossero inconsuete, tuttavia, in questo periodo della storia d’Islanda – anzi, ormai la gente stupefatta si chiedeva tra le labbra se non avesse «principiato a bruciare anche laggiù». Perché all’inizio di quello stesso secolo si erano verificati grandi sconvolgimenti nel vulcano Grímsvötn, e poi nei ghiacciai dell’Est, tanto che la terra sputò sabbia sulla Þingeyjarsýsla e sull’Eyjafjörður con boati e oscuramento del cielo. Quattro anni più tardi ebbe luogo una tremenda eruzione nella gola di Kötlugjá, con una spessa nube di sabbia, una cappa di denso fumo ed esplosioni infuocate, e una terribile inondazione sul Mýrdalssandur, che causò gravissimi danni e un prolungato periodo di miseria. Tre anni dopo eruttò il Krabla, come si scriveva all’epoca, e per qualche tempo il lago Mývatn si prosciugò quasi del tutto; l’eruzione continuò a lungo, nel Krabla e anche a Leirhnjúkur e Bjarnarflag.

E mentre si verificavano questi eventi, il ghiacciaio Öræfajökull esplose violentemente, tanto che vere e proprie montagne di ghiaccio rotolarono nella pianura sottostante seguite da zampilli infuocati. Tali calamità ripresero vigore verso la metà del secolo, quando il Mýrdalsjökull esplose una seconda volta provocando alluvioni glaciali e nubi di gas tossici uscite dalla bocca del Kötlugjá. La terra si scuoteva per i terremoti, si spaccava, e dalle fenditure erompevano scintille incandescenti, scagliando rocce in volo sui distretti circostanti. Dieci anni dopo, ovvero nel 1766, cominciò a eruttare l’Hekla, causando danni simili a quelli del Katla: i poderi venivano abbandonati, bestie e cristiani cadevano morti sul suolo coperto di pomice alzando piccole nuvole di cenere, il sole splendeva di un color rosso sangue attraverso il fumo e la caligine sabbiosa. I danni furono maggiori nei distretti di Húnavatn e di Skagafjörður, dove i venti da sud trasportarono il grosso della cenere fuoriuscita. Nello stesso anno in cui ebbero inizio i «foschi patimenti», si verificò un’eruzione al largo della penisola di Reykjanes. Dal mare sorse un’isola che il nostro re Cristiano VII battezzò semplicemente Nýey, «isola nuova». Ci rimane un editto regio in cui il cancelliere Levetzow e Magnús Stephensen sono invitati a tentare l’approdo e «intitolare l’isola al re», ma l’operazione non poté concludersi a causa delle eruzioni in corso, il che ne fa l’unico esempio in cui il sovrano danese abbia ampliato i propri confini senza bisogno di guerre. Qualche tempo dopo iniziarono gli Skaftáreldar, i «fuochi dello Skaftá» di cui si è detto, che ispirarono un curioso modo di dire assai diffuso, ovvero che «ormai bruciava anche laggiù» – ma ciò che nessuno aveva previsto furono l’entità e la durata di tali eruzioni, che superarono di gran lunga tutte le precedenti.

Con questo non s’intenda, d’altra parte, che tutte queste eruzioni siano state le uniche calamità ad affliggere gli islandesi in quel periodo storico. Sarebbe opportuno, infatti, citare il vecchio adagio per cui le disgrazie non vengono mai sole. Ingenti alluvioni inondarono gli insediamenti nei pianori fino a mille e cinquecento braccia2 verso l’interno e il pack circondò l’isola per gran parte dell’inverno, che fu talmente freddo da congelare il mare – era un mare concretum, come gli antichi chiamavano l’oceano Artico. Da Reykjarvík si poteva raggiungere Akranes a piedi senza bagnarsi, così come andare da un’isola all’altra del Breiðafjörður. Ne risultò una generale carenza di pescato, a partire dal giorno dell’Esaltazione della Santa Croce del 1783 fino alla fine dell’anno successivo, che si aggiunse al crollo totale del numero di capi di bestiame. Esistono registri sorprendentemente accurati tenuti dagli eruditi del tempo, relativi al calo della popolazione e delle bestie. La scarsità di foraggio portò i cavalli a nutrirsi di altri cavalli morti, o del legno delle pareti, dei pilastri e dei pannelli delle fattorie abbandonate, mentre le pecore si cibavano della propria lana; gli uni e le altre si ammalavano fino a morire. La gente non aveva niente da mangiare se non le vecchie carcasse dei cavalli, si ammalava e periva, mentre i bovini morivano in primo luogo d’inedia e di malattie interne, o per l’ostruzione delle vie respiratorie. Un pastore che non era fuggito dalla regione dello Skaftá dichiara nella propria biografia che nelle aree più popolose i cadaveri venivano accatastati senza una bara in fosse comuni, e ricoperti di terra.

Si diceva «imbucare» i cristiani.

I numeri parlano chiaro. Nell’anno 1784 gli abitanti scesero a 4289 unità, i cavalli a 28.000, i bovini si ridussero a 11.461 e gli ovini a 190.488. Sono cifre straordinariamente precise, e in un certo senso è ammirevole quante informazioni sulla morte e sulle sue vittime si siano conservate, considerando quello che la popolazione dovette passare.

A coronamento di tanta devastazione, nello stesso periodo si scatenò una delle peggiori epidemie di vaiolo che si siano mai registrate nel nostro paese, oltre a dissenteria, scorbuto, infezioni da streptococco e parotite, mentre i bambini morivano più che altro di asma e tosse, varicella, gastriti e morbillo. Poi ci fu la polmonite, che seguì a breve il vaiolo. Il numero di lebbrosi crebbe a dismisura, e ciò a causa di trascuratezza e scarsa igiene, secondo quanto riteneva il nostro landfýsikus Bjarni Pálsson.3 Tutte queste calamità attraccarono nei porti del nostro paese con le navi straniere: le loro merci avranno pur salvato qualcuno dalla fame, ma in verità furono letali per molte più persone.

Non bisogna dimenticare che fin dall’anno 1781 la povertà costrinse la popolazione a comperare orzo di scarsa qualità dalla Compagnia della camera delle Finanze danese, che si era impegnata a inviare i cosiddetti «cereali della carestia». Ma a causa della malnutrizione e dei consigli sbagliati, item di una carenza di informazione generale da parte della Reale Compagnia dei Commerci, la gente trascurò di setacciare i culmi e la crusca e consumò l’orzo intero, il che causò la diffusione in molte campagne di dissenteria e altre malattie intestinali che decimarono la popolazione. Un eccessivo consumo di carne di squalo, inoltre, uccise molte persone nelle aree occidentali e nord-occidentali del nostro paese – per lo più a causa della mancanza del brennivín, liquore necessario ad accompagnare questo tipo di alimento, in particolar modo se durante i periodi di carestia lo si consuma direttamente dalla pila messa a fermentare.4 Dopo di che, nel 1784, nella misera vegetazione che riuscì a germogliare sotto la cenere e la pomice entrarono i vermi, che spazzarono via i boschetti di betulle. Gli alberi da frutto scomparvero. I tentativi di coltivare dei cereali non portarono alcun risultato e nessuno pensò alle piante di tabacco, che parevano le uniche in grado di resistere alla cenere e al fumo. Le balene spiaggiate fornivano un conforto di breve durata, perché le loro carcasse si riscaldano dall’interno quando iniziano a decomporsi e gli intestini esplodono infettando le carni; in tal modo, un gran numero di brave persone perse la vita a causa delle balene spiaggiate, quando invece pensava di aver salva la vita.

La cosa più tragica fu che mentre la miseria generale conseguente ai disastri naturali colpiva per lo più indigenti e fannulloni, vecchi decrepiti, feccia emarginata e sudicia, dissoluti e ammalati, consumatori di carne di cavallo, infingardi e vagabondi – ci pensò la pestilenza a uccidere i migliori, gente nel fiore della giovinezza, persone robuste che avevano sopportato le peggiori privazioni.

Ogni forma di...



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