Bianciardi | Garibaldi | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 152 Seiten

Bianciardi Garibaldi


1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-3389-212-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 152 Seiten

ISBN: 978-88-3389-212-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Il poncho è poco piu? di una coperta da cavallo; il dialetto, quello ligure; l'elenco dei lavori fallimentare: bovaro, sensale, insegnante privato, fabbricante di candele. Che il lettore si metta comodo: la storia di quest'uomo e? stata raccontata molte volte, ma Bianciardi lo fa a modo suo. Con il tono clandestino delle confidenze, la pazienza dello storico, la vivacita? dello scrittore. Il suo Garibaldi non e? soltanto una biografia, e? il romanzo di un ribelle deposto dal piedistallo e restituito alla vita, ai suoi intrecci pieni di slanci, di sofferenze, di errori, di delusioni. La stagione da corsaro, l'epopea del Rio Grande, la laguna delle anatre, l'assedio di Montevideo e di Roma, il gaucho Aguyar, la morte di Anita, il pittoresco esercito dei Mille... Ma e? anche l'omaggio di un anarchico ormai vinto dall'alcol e dalla «vita agra» all'eroe della sua infanzia. Perche? questo e? l'ultimo libro che Bianciardi scrisse, l'ultima camicia rossa che indosso?, come un'allegria postuma, l'ultima affabulazione contro un'Italia da sempre vigliacca, ipocrita, irriconoscente e perbenista. Del resto, nell'elenco ufficiale dei Mille, Garibaldi non risulto? neppure fra gli italiani. E cosi? Bianciardi ce lo descrive, come uno straniero in patria, un istintivo, un generoso, un idealista. «In tutti i posti di mare c'e? almeno un ragazzo fatto cosi?, quello che non si tira indietro, quello che offre da bere, quello che sa le canzoni, quello che si arrampica per primo in cima a un albero, o sulle sartie delle navi. Al porto lo conoscono, tutti lo chiamano per nome».

Bianciardi Garibaldi jetzt bestellen!

Autoren/Hrsg.


Weitere Infos & Material


L’ultima camicia rossa
profilo bio-bibliografico di Luciano Bianciardi


«È stato l’ultimo bohémien possibile. Seduto sulle macerie di un romanticismo perduto»,1 disse di lui a Pino Corrias Giovanni Arpino, che gli voleva molto bene. Il 26 ottobre 1971, di sera, fu ricoverato all’ospedale San Carlo di Milano, stanza 305, con una diagnosi irrevocabile: cirrosi epatica. Morì diciannove giorni dopo: non aveva ancora quarantanove anni. Il suo nome era Luciano Bianciardi.

Era nato a Grosseto, nel 1922. Portava la provincia nei maglioni scuri, nelle Nazionali sempre accese, nella battuta fulminante, nella tosse. In quello stare al mondo come per sbaglio. Un fuori misura, sin da bambino. A scuola lo chiamavano Piedone, per l’enormità dei piedi su cui innestava un passo pigro, curvo e pericolante. Ma era uno studente modello.

Sua madre, maestra elementare, amministrava e regolava la casa, e sovrintendeva con scrupolo ossessivo alla sua educazione. Per lui sarà come avere una «maestra a vita», di cui è allievo prima che figlio, «e le maestre a vita non sono comode». Più marginale il padre. Uno di quegli uomini di una volta: alto, taciturno, onesto. Un impiegato di banca che trasmette al figlio due passioni: il calcio e il Risorgimento. Aspetta che impari a leggere e compia otto anni, poi gli regala di Giuseppe Bandi. Luciano ci perde la testa, si chiude in camera, ne impara lunghi passi a memoria. Nessun libro gli darà felicità maggiore né lo influenzerà di più. Per tutta la vita, cercherà di mantenersi fedele a questa scoperta dell’avventura, del coraggio, dell’idealismo generoso e senza condizioni, nel tentativo disperato di restare fedele alla propria infanzia. Di quel periodo, in tutti i suoi futuri traslochi si porterà dietro anche il violoncello che aveva iniziato a studiare, chiuso in una custodia arancione.

All’università si iscrive a Pisa, facoltà di Lettere e Filosofia. È alto più di un metro e ottanta e cammina impacciato. Per sopravvivere gli basta poco. Si nutre di quello che la madre gli stipa nella valigia, a ogni ritorno a Grosseto, riempie la stanza di mele. A Pisa impara a fumare, scopre il liberalsocialismo, ma a fine gennaio del 1943 arriva anche per lui la cartolina con la chiamata alle armi. Viene spedito in Puglia, dove assiste ai bombardamenti di Foggia. Descrive la città in poche incisive righe: «Gli alberi tutti mozzati alla stessa altezza, i lampioni, i pali dell’elettricità, tagliati netti a un metro da terra. E poi le case sventrate, le macerie sparse per terra, dappertutto, in un disordine così completo che poteva sembrare fatto apposta. E poi, in mezzo a tutto, i morti [...] Erano centinaia di morti, un mucchio di carne macellata e cotta».

La guerra è «una sconclusionata tragedia» in cui, come tutti gli altri, è costretto a crescere. Gli americani li incontra poco dopo. Superata una collinetta sono ferme su un prato due fortezze volanti, e intorno bulldozer, jeep, soldati. Luciano ha la divisa sgualcita di allievo ufficiale in grigioverde, uno zaino sulle spalle «che doveva pesare cento libbre»; loro, camicie color sabbia inamidate e la cravatta dentro al secondo bottone. Sorridono, non sembrano avere mai patito la fame o la fatica. Hanno sigarette «che sanno di miele». Quel poco che sa di inglese, ora gli torna utile. Lo prendono come interprete, presso la 508a Compagnia nebbiogeni dell’esercito britannico. È la sua prima prova da traduttore.

Nel dopoguerra legge Verga, vota per il Partito d’azione, si laurea. E nel 1948 si sposa con Adria Belardi, una donna semplice e buona, «la figlia della cappellaia», dalla quale spera di ricevere un po’ di dolcezza e di cura. L’anno dopo nasce Ettore, che porta il nome del più sfortunato degli eroi omerici. A Grosseto gli viene assegnata la cattedra di storia e filosofia nel suo vecchio liceo, insegna per un po’, e nel 1951 accetta dal Comune la nomina di direttore della Biblioteca Chelliana. Ci sono settantamila volumi da ripulire dal fango delle alluvioni e dei bombardamenti.

Iniziano anni intensi, dove matura la sua coscienza letteraria, sentimentale e politica. Anni felliniani di «vitellini» di provincia, passati tra cineforum e giornalismo, iniziative culturali, trattorie e interminabili discussioni. Incontra Carlo Cassola: insieme si battono contro la legge truffa del 1953, avviano un’inchiesta sulle condizioni di lavoro dei minatori della Maremma in una serie di articoli sull’ e su , inventano il Bibliobus, la biblioteca ambulante, per portare i libri alla gente, e non aspettare che la gente entri in biblioteca. In una foto si vede questa vecchia autovettura, con un pannello che si solleva di lato, che avanza in mezzo ai lunghi viali alberati della costa e pare provenire da un altro mondo. Quel mondo per lui è l’America. L’incrocio delle quattro strade di Grosseto ai tenenti dell’esercito americano aveva ricordato Kansas City ed è così che Bianciardi prenderà a chiamare la sua città.

Nel 1953, al convegno annuale della Federazione dei circoli del cinema a Livorno, a cui è invitato come segretario del cineclub di Grosseto, Luciano conosce Maria Jatosti, comunista e barricadera. A cena, recita a memoria una poesia di fissandola. Lei dirà che tutto, per loro, comincia in quel momento di comunione segreta ed esclusiva, e nell’abbraccio che si daranno alla stazione il giorno dopo. Ma ci vorranno ancora molti mesi perché quell’abbraccio abbia delle conseguenze e sfoci in una relazione vera e propria.

Il 1954 è l’anno spartiacque. A maggio un’esplosione di grisou in una miniera di lignite uccide quarantatré minatori e Ribolla si incide per sempre nel suo personale atlante figurato del pianto. Si tratta di una tragedia annunciata: i lavoratori avevano denunciato tante volte il pericolo ma vanamente, perché alla Montecatini, come alle altre compagnie minerarie, interessava soltanto il massimo profitto. I corpi vengono portati nella sala del cinema, dove si allestisce una veglia funebre. Alcune famiglie colpite sono meridionali. Bianciardi ne resta segnato a vita: con Cassola li avevano conosciuti uno per uno. Meno di due anni dopo, la loro inchiesta diventa un libro per Laterza, e un classico di letteratura civile.

Il suo nome inizia a circolare. Un giovane e ricchissimo imprenditore, Giangiacomo Feltrinelli, soprannominato , lo chiama a Milano a partecipare alla sua nascente avventura editoriale. Bianciardi ci arriva con «la testa piena di minatori e di garibaldini», un pullover giallo con i cervi, la giacca fuori moda, le scarpe esagerate. Prende una stanza in un alberghetto di Porta Venezia, frequentato da puttane e da rappresentanti di commercio. Poi si trasferisce in una pensione di via Solferino. Per l’umidità delle camere, l’aria malsana del capoluogo lombardo, la malaria avuta da ragazzino e le venti Nazionali al giorno, la bronchite gli diventa presto cronica. Si ripara dal freddo con un montgomery blu, indossa calze di lana, maglie pesanti. Ha per compagni di stanza fotografi squattrinati e giocatori di pelota baschi. Passa le sere al Bar Jamaica, nel quartiere di Brera, il caffè degli artisti, ritrovo di pittori dalla «faccia bislacca e asimmetrica», poeti, scrittori. Bianciardi ci va a bere una grappa gialla, cattiva ma a buon mercato.

Nel 1955 nasce a Grosseto la sua seconda figlia, Luciana. Ma la sua storia con Adria è ormai alla fine. Maria lo raggiunge a Milano: prendono una matrimoniale in piazza del Duomo, e due mesi dopo vanno a Brera. Sembrano una coppia anomala, ma soltanto in apparenza, dirà lei.

Il 1956 è un anno di separazioni. Il matrimonio si rompe drammaticamente. Adria, messa sull’avviso dalle voci che circolano in città, sale su un treno e va a trovarlo. Dopo ventiquattro mesi di bugie, a Milano scopre la verità: suo marito vive con un’altra donna. Passano una giornata intera a discutere, ma da quella sera Luciano non la vedrà più.

L’altro strappo è con la vita d’ufficio. Non è fatto per i corridoi delle case editrici. Viene licenziato dalla Feltrinelli per scarso rendimento, ma continua a collaborare come traduttore e autore. Va via anche da Brera. Inizia in questo periodo un’attività frenetica, anche perché gli servono soldi per far fronte ai suoi guai privati. Il primo titolo che traduce è di Lord Russell. Alla fine, la mole di lavoro sarà impressionante: 114 libri tradotti, di cui una ventina non pubblicati, più tutti gli articoli e racconti scritti per i giornali. E poi ci sono i libri suoi.

Ma questi sono ancora anni pieni di speranza. Con Maria ha un altro figlio, Marcello. E se l’Italia cambia, fra autostrade, automobili e televisioni, Luciano continua a vestire pullover senza camicia, cappotti logori, impermeabili. Dalla scrivania, la sua tosse incancellabile e il fumo saturano la casa. Traduce Bellow, Conrad, Stevenson, Faulkner, Steinbeck, London, il ribelle irlandese Brendan Behan, alcuni autori giapponesi e cinesi dalla versione inglese, i narratori della beat generation. E soprattutto i due di Henry Miller. È l’incontro più fecondo della sua carriera. Un innamoramento, e una sfida. La prova generale per mettere a punto, una volta per tutte, la propria voce.

Aveva già cominciato a pubblicare. Dopo (1956), era uscito il suo primo romanzo, (1957): una storia di formazione di un intellettuale di provincia nel dopoguerra, e tre anni dopo (1960). Sono i primi due atti di una ideale...



Ihre Fragen, Wünsche oder Anmerkungen
Vorname*
Nachname*
Ihre E-Mail-Adresse*
Kundennr.
Ihre Nachricht*
Lediglich mit * gekennzeichnete Felder sind Pflichtfelder.
Wenn Sie die im Kontaktformular eingegebenen Daten durch Klick auf den nachfolgenden Button übersenden, erklären Sie sich damit einverstanden, dass wir Ihr Angaben für die Beantwortung Ihrer Anfrage verwenden. Selbstverständlich werden Ihre Daten vertraulich behandelt und nicht an Dritte weitergegeben. Sie können der Verwendung Ihrer Daten jederzeit widersprechen. Das Datenhandling bei Sack Fachmedien erklären wir Ihnen in unserer Datenschutzerklärung.