E-Book, Italienisch, 257 Seiten
Reihe: Minimum classics
Bianciardi Da Quarto a Torino
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-3389-518-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Breve storia della spedizione dei Mille
E-Book, Italienisch, 257 Seiten
Reihe: Minimum classics
ISBN: 978-88-3389-518-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Da Quarto al Volturno di Giuseppe Cesare Abba era stato uno dei primi libri che gli aveva regalato il padre, perché imparasse a leggere. Quando, per celebrare il centenario dell'unità, la casa editrice Feltrinelli gli chiede di raccontare la spedizione garibaldina in Sicilia, Bianciardi si convince che il libro dei Mille, nel 1960, vada riscritto. Lo fa in un mese, con il gusto del narratore e la serietà dello storico. Di quell'avventura irripetibile e arruffata ci restituisce tutto: i numeri, gli uomini e i paesaggi, gli intrighi e le battaglie, il tono dei dialoghi, le contraddizioni e gli errori. Quella commissione felice non gli darà soltanto il pretesto per inaugurare un piccolo ciclo sull'epopea risorgimentale: segnerà d'ora in poi tutta la sua scrittura. Bianciardi non si interroga soltanto sul nostro passato ma trova un metodo e un arsenale: sperimenta sguardo e stile; mette a punto una concezione della letteratura come antistoria; unisce le passioni e gli affetti dell'infanzia al suo disincanto di adulto in un equilibrio emotivamente doloroso, ma fertilissimo. Ancora non lo sa, ma si apre qui il cantiere che lo porterà due anni dopo al suo capolavoro. Sono proprio le ultime pagine, amarissime, di questo libro che lo traghettano alle prime della Vita agra: l'imbroglio del plebiscito, Garibaldi che dopo l'incontro di Teano scende a un'osteriola e sputa un sorso d'acqua indigesta, le storture su cui nasceva l'Italia, la chiusa sul «tremendo equivoco» dell'unità e sulla tragedia della questione meridionale.
Autoren/Hrsg.
Weitere Infos & Material
Prefazione
Fare il lavoro culturale è rischioso. Per chi ha un’idea così infelice, ci sono trappole dovunque. C’è l’insuccesso, la fame, l’oblio. Ci sono gli editori avari, i colleghi invidiosi. Il blocco, la secca, la crisi creativa. E infine il macero, destinazione finale, che prima o poi ci inghiotte tutti. Pazienza.
Eppure, in mezzo a tanti rischi, nessuno è pari all’ultima eventualità, sottile, insidiosa, l’unica in grado di privare l’autore persino di ciò che gli è più caro: la parola, il pensiero, se stesso. No, non c’è dubbio: per uno scrittore, il rischio più grande è quel fenomeno drammatico che viene chiamato «riscoperta». Disgrazia e rovina inappellabile, è un fatto.
Un giorno si viene ripescati, post-mortem. Si viene apprezzati e analizzati, senza poter mettere bocca. Si viene fraintesi, celebrati, assecondati. E infine si viene mitizzati e dunque (a quel punto è inevitabile) si viene resi una macchietta. Inoffensiva quanto basta per poter essere «Maestri».
Ecco, Bianciardi è uno degli autori a cui è capitata una disgrazia del genere. Proprio a lui, sì, che col successo non è mai andato d’accordo; proprio a lui, schivo e refrattario a ogni catalogazione, a ogni generalizzazione, a ogni corteggiamento dell’industria culturale, doveva toccare questa santificazione in ritardo. Si era tra il 2000 e il 2010, grossomodo, quando un’intera generazione di operatori culturali in bolletta (in cui mi ascrivo volentieri, confesso) iniziò a leggere le cronache di un uomo che faticava a vivere in mezzo a bozze e traduzioni in un’Italia anni Sessanta, stupendosi: «Vedi, non è cambiato niente!» E iniziò a identificarcisi, a imitarlo, a sentirsi così, tale e quale: e allora eccoci, corsari anarchici al bar Jamaica col cappottone e la barba mal fatta, come se ci bastasse quello per trasformarci in Bianciardi. Eccoci, pronti a sbarcare il lunario, eccoci contro il Pirellone! Tutti Bianciardi, incendiari e sfruttati, senza che lui potesse smentire. Bianciardi era un santo protettore per chi si sentiva affamato e ribelle. E se ti chiedevano: «Bianciardi?», tu rispondevi: «». Ovviamente.
Già, perché il fatto è che la canonizzazione funziona così, per parole d’ordine, per schemi: un unico titolo, un unico aspetto che ci piace. La regola vuole che tutti gli altri elementi si escludano: rendono il santo complicato, sfaccettato, sfuggente. La confusione non ci serve: , il Jamaica, e nient’altro. Ecco perché il libro che tenete in mano poteva essere un problema, ad esempio. : che significa? Un saggio sul Risorgimento. A che serve? Bianciardi, il ribelle col cappotto liso, aveva scritto ben tre libri dedicati a un soggetto che a noi, nel 2000 e passa, pareva pesante, destrorso e stantio: L’Unità d’Italia, Garibaldi e i Savoia. E non si sapeva dove metterli, sfuggivano, e ci creavano imbarazzo. Forse perché, a noi fan d’accatto, questa seconda produzione metteva il sospetto che forse non fosse tutto lì, nell’anarchia, nell’alcol e in certi cappottoni, il punto. E che per essere Bianciardi toccasse fare un passo in più (...). Che forse la posa non bastava, ma che servisse qualcos’altro. Dico per dire: la conoscenza approfondita delle origini etrusche di Grosseto (vedi dissertazione a tempo perso in apertura a ). O la capacità di correggere Luchino Visconti per una battuta su Custoza inserita in , perché smentita da uno storico di cui si è invero appassionatissimi. E tutto ciò dava l’idea che si fosse Bianciardi non soltanto quando si fanno traduzioni a cottimo, ma se si è in grado di incontrare, in questi lavori che ci sfiancano, il nome di Ferdinand de Lesseps, grande ingegnere del canale di Suez, e ricordarci, prima di crollare sul letto e crepare, che trattò lui la pace tra il generale Oudinot e Garibaldi e Mazzini nel 1849, anche se questa informazione non ci servirà proprio a niente, a nientissimo, perché siamo svuotati, perché siamo stanchissimi. E però siamo Luciano Bianciardi soltanto se la conosciamo.
Ecco, Bianciardi era anche questo. E noi, noi, santo cielo, noi, che volevamo assecondare e quasi addomesticare un intellettuale immenso; noi che lo semplificavamo per renderlo proprio uguale a noi. Noi, tutti noi, che campavamo alla Bianciardi, forse non eravamo lui. Forse eravamo un po’ il problema. Forse eravamo il Pirellone.
Dai tempi della riscoperta, sono passati altri vent’anni. Morire di fame non ci sembra più eroico, e forse possiamo domandarci perché sfogliamo questo libro. Cosa cerchiamo, esattamente? Un saggio sul Risorgimento? Oppure un libro di Bianciardi (cioè del Bianciardi come vogliamo che sia)? Siete davvero interessati a Cavour, o conta il nome in copertina, perché per voi è talmente un’icona che siete disposti anche a sorbirvi una cronaca storica con Nino Bixio e Garibaldi e Crispi, purché ve la racconti lui, il solito mito incappottato ecc., ecc.?
Essendo più vecchi e complicati, e ora che il mondo culturale è cambiato, io spero nell’ultima possibilità: che voi abbiate preso perché avete voglia di liberare Bianciardi. Che abbiate accettato che, per tutta la vita, quest’uomo tragico e complesso abbia voluto dedicare dei libri ai moti risorgimentali. E, ancora incerti su che fare con questa strana informazione (così apparentemente assurda, così in contrasto con la macchietta ribelle), abbiate voglia di esplorare, e capire. Quasi che intuiate che è proprio in questa sua passione per l’Italia che fu – o che poteva essere – e per tutti i sogni traditi e delusi che risiede l’unico senso della ribellione. Come pure la passione, le speranze, l’erudizione a tempo perso, le battaglie politiche da darsi in fronte a Milano, e un nuovo modello di vita e di società più equa. Perché non sarebbe mai stata, se quell’uomo splendido e spiantato che era il reale Luciano Bianciardi non fosse stato anche l’autore puntuale e coltissimo di e di altri libri sull’Italia unita, e che non sono un incidente, ma parte integrante e irrinunciabile della sua opera complessa.
Perciò parliamo di Risorgimento. E, come eroi garibaldini, spezziamo i gioghi della schiavitù a Bianciardi.
Nell’anno 1960 si festeggiava il primo secolo dalla missione garibaldina. La Feltrinelli decide di celebrare l’anniversario con un libro e (dopo il rifiuto di Manlio Cancogni) affida la cosa al suo ex collaboratore, autentica autorità autodidatta del campo e da sempre appassionatissimo del tema, che si butta a capofitto e termina il lavoro in un mese. Ciò che ne uscirà è da un lato una ricerca documentata e puntuale, un’impresa dei Mille quasi minuto per minuto, in cui vengono riportati gli scontri, i dialoghi, i cibi, i vestiti, gli incidenti, i qui pro quo e i tanti compromessi dell’avventura che aveva fatto l’Italia; dall’altra una cronaca, gustosa e disarmante come soltanto Bianciardi sa fare, con una tesi ben precisa. Più o meno: la fede ingenua, pasticciona, eroica e sognatrice di Garibaldi venne ostacolata e utilizzata da Cavour per regalarci quest’agra Italia di oggi. Si parte da Quarto con un sogno, si arriva a Torino da burocrati.
Ora, con queste coordinate, proviamo a distinguere il Bianciardi vero dal falso; dico dal mito e la macchietta. Dovessimo stare al bar Jamaica, diremmo che il punto di è il suo essere cronaca ribelle, un’antistoria del Risorgimento. Diremmo che è in questo l’originalità, e che Bianciardi si divertiva a smontare e a impoverire il mito dell’Italia unita per essere «contro» e per cercare lo scandalo. Insomma, sviliremmo tutto.
La verità è che, nel 1960, una tesi del genere non era affatto una sorpresa. Non faceva più scandalo il racconto dei brogli del plebiscito, o delle trame sabaude per arrestare Mazzini, della spoliazione del Sud e delle piccole meschinerie di corte. Anzi, piuttosto, nel Sessanta, era il libro più giusto per l’editore più giusto, e si inseriva a meraviglia in una visione storiografica che stava tenendo acceso il dibattito. Non era passato neanche un anno da quando proprio Feltrinelli aveva vinto il Premio Strega con . Da almeno dieci anni si riparlava di «revisionismo» unitario, e c’era quello liberale di Gobetti da riscoprire, quello marxista di Gramsci, quello federalista e meridionalista di Salvemini. Nel 1954 Denis Mack Smith definiva Cavour «disonesto» e insomma: il fatto che il Risorgimento non fosse stato quel cammino eroico, sacrale e compatto che ci era stato presentato fino alla noia tra Grande guerra e fascismo non era mica Bianciardi a scoprirlo: quasi era il tema del momento! Dunque il valore di qual era?
Non la demitizzazione, macché. Direi l’opposto. Era l’amore. Il fatto che per tutta la sua vita Bianciardi continuasse sempre a trattare di questo identico tema, parallelamente ai suoi romanzi ribelli. Il vero punto era che il genio sbandato e l’outsider continuasse a adorare i moti, i canti, «La bella Gigogìn», e la Repubblica Romana e (sì, ma usiamo la parola) il patriottismo, bello e buono, e tutto questo materiale che oggi ci sembra polveroso e in cui lui invece trovava un po’ il senso della sua opera ideale. E questo sì che fa lo scandalo.
Perché Bianciardi lo faceva? C’è una questione generazionale, anzitutto. C’è il...