Bianciardi | Aprire il fuoco | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 253 Seiten

Reihe: Minimum classics

Bianciardi Aprire il fuoco


1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-3389-438-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 253 Seiten

Reihe: Minimum classics

ISBN: 978-88-3389-438-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Se ogni scrittore ha un proprio tramonto, Aprire il fuoco è il tramonto di Bianciardi, l'ultima lettera di un sinistrato politico, spiaggiato e in esilio. Lo vediamo mentre perlustra la campagna con un binocolo, abbassa le tapparelle, si versa un bicchierino di grappa. Sa di essere clinicamente morto, ora che è morta ogni insurrezione: primo o poi l'oppressore, e i tanti aguzzini che non hanno mai smesso di tormentarlo, arriveranno a prenderlo. Nell'attesa non gli resta che fumare una sigaretta, e rievocare la fine dell'inverno di dieci anni prima, il 1959, le sue gloriose cinque giornate, anche se la rivoluzione è ormai soltanto la memoria confusa di altri fallimenti: le discussioni al Giamaica con gli amici, Giorgio Gaber e Jannacci, la cameretta di Porta Tosa, le barricate a San Damiano. C'è appena il tempo per un ultimo appello, per dire il poco che ha imparato dalla sua vita agra: che fare all'amore non è vergogna. Vergogna è uccidere, morire di fame, chiudere la gente in prigione o al manicomio, giudicare. E non serve stampare i libri che nessuno legge, né costringere i giovani nelle scuole, né occupare le università. Bisogna occupare le banche, le vere cattedrali del nostro tempo. E poi spegnere la televisione. E alla fine lasciare tutto nel disordine. La valigia è pronta, così piena di carte, della sua alienazione quotidiana, di tutta la nausea che lo ha avvelenato per l'imbischerimento del mondo. Ma sulle spalle ha ancora il suo vecchio Mauser, ed è pronto a fare fuoco.

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Introduzione
(1976)


Di Luciano Bianciardi s’è detto troppo poco. Ovvero, durante la vita gli sono stati lesinati elogi e riconoscimenti che pure avrebbe meritato, e in morte, la sua atroce morte prematura, gli sono state elargite quelle testimonianze e quelle moine che non sono, nella loro insincerità, che il preludio di un imminente oblio. Poi tutti o quasi sono apparsi ansiosi di dimenticarlo. Bianciardi, infatti, costituiva uno scandalo per la letteratura e la cultura italiana in genere. Uno scandalo discretamente ingombrante con il quale non si aveva molta voglia di fare i conti.

Lo scandalo di Bianciardi era il suo modo di essere scrittore e di essere uomo. Lo scrittore era divertente, uno che non avrebbe mai ammesso di potere annoiare il prossimo. Ma neppure avrebbe mai ammesso di poterlo lasciar stare in pace, il prossimo, a poltrire tra luoghi comuni e idee ricevute. Il compito dello scrittore era per Bianciardi l’aggressione del conformismo in tutte le confezioni e sotto tutte le salse. Dotato d’un gran fiuto dell’ovvio e della malafede, ne perseguiva ogni manifestazione sfacciata o furtiva con quella tenacia che, forse, in un buon toscano non è neppure una virtù, ma è, forse, in un certo senso, addirittura un vizio.

L’ironia di Bianciardi, avevano cominciato presto a temerla in molti. A voce e per scritto, irriverente e intransigente, tagliava e cuciva i panni addosso agli altri senza concedersi tregue. Soprattutto senza concederne agli altri. Non gli sfuggiva nulla, mai, la falsità di una frase avventata, la presunzione d’un tono di voce impostato, la volgarità di un camuffamento ideologico. Non gli sfuggiva nulla, mai: puntualmente, all’uso toscano, lui rifaceva il verso all’interlocutore, ripeteva con apparente fedeltà quella frase avventata, quel tono di voce impostato, quel camuffamento ideologico. Sotto l’apparente fedeltà della ripetizione, in verità sempre esatta, al limite della pedanteria, serpeggiava, però, sia quando lui parlava sia quando lui scriveva, un brivido lieve d’incredulità: l’incredulità che si potesse essere talmente bischeri a questo mondo.

Il brivido era lieve, s’è detto. Eppure non c’era ottusità incancrenita che bastasse a preservare l’interlocutore dalla presa di coscienza della propria bischeraggine. Perché Bianciardi insisteva, e, alla lunga, di ripetizione in ripetizione di frasi avventate, toni di voce impostati, camuffamenti ideologici, persino l’interlocutore più ottuso finiva per convincersi non solo che si trattava di bischerate imperdonabili, ma anche e soprattutto che non si trattava di farina del sacco di Bianciardi, ma di farina del sacco suo. E, una cosa simile, a Bianciardi, non poteva perdonargliela. Così l’interlocutore più ottuso, appunto perché tanto ottuso, vedeva in Bianciardi l’avversario. E, invece di essergli riconoscente per l’aiuto a migliorare, invece di correggersi e rinunciare a certe frasi avventate, a certi toni di voce impostati, a certi camuffamenti ideologici di cui Bianciardi gli aveva rivelato la falsità, la presunzione, la volgarità, preferiva portar rancore all’autore delle rivelazioni.

Ma l’uomo Bianciardi com’era, in realtà, nella sua realtà? Anche l’uomo, non solo lo scrittore, era uno scandalo. Perché era un uomo sensibile che tutto poteva vulnerare. Ogni falsità, ogni presunzione, ogni volgarità colpivano lui per primo, come se a peccare fosse stato lui. Credo che, proprio mentre ripeteva quella data frase avventata, quel dato tono di voce impostato, quel dato camuffamento ideologico, si convincesse addirittura di esserne lui l’autore, e non risparmiava di sicuro la propria bischeraggine. Ci si accaniva contro con quell’arma crudele che era il suo linguaggio, la duttilità e la lucidità del suo linguaggio capace di mimesi e di parodie straordinarie come di intuizioni e di interpretazioni sconvolgenti.

L’uomo, comunque, era buono e disperato. Disperato perché aveva bisogno di credere in qualcosa e, ogni volta che provava a crederci, a qualsiasi cosa o persona, finiva immancabilmente per sbattere il muso contro la peggiore delle delusioni. I suoi romanzi sono tutti rendiconti di delusioni, una peggiore dell’altra, la delusione successiva sempre peggiore della delusione precedente. Il trittico formato da (1957), (1960) e (1962) ci narra il deteriorarsi stesso della nostra vita tra gli infondati progetti di rivoluzione culturale dell’immediato dopoguerra e le ugualmente infondate convinzioni di benessere economico degli anni Sessanta. Sono tre testi convergenti e insieme divergenti, nei quali, dall’asciuttezza del documentario polemico al barocchismo della requisitoria tribunalizia, la vita di questo povero paese è ritratta con una deformazione troppo pericolosamente vicina alla realtà, almeno per la classe a cui apparteneva Bianciardi e a cui appartiene chi scrive le poche righe di questa nota.

Sinché era restato a Grosseto, Bianciardi aveva conservato più d’un legame con la sua gente. Tutta la sua gente senza distinzioni di classi. Sapeva sì di appartenere a una élite, ma, appunto, a quell’élite che si riprometteva di compiere la rivoluzione culturale entro il cerchio delle mura della cittadina d’origine ed entro il cerchio di quelle mura provinciali non perdeva il contatto con l’essenza della vita collettiva, della vita sociale. possiede ancora un certo convincimento di poter rimettere tutto in discussione, di potere tornare indietro per andare veramente avanti: , invece, già spalanca l’abisso della solitudine. Il protagonista resta spaccato definitivamente in due, tra quella parte che si aliena nell’accettazione dell’integrazione nella vita asociale della grande città, e quell’altra parte che si aliena nel rifiuto ugualmente asociale di qualsiasi tentativo di collaborazione a migliorare la vita della grande città. Milano, l’infido porto a cui è approdato il provinciale Bianciardi, è il cimitero di ogni residua illusione, anche se lo scrittore continua a coltivarne, a crearne, a inventarsene di sempre minore durata: Milano è la città de , la città della non vita.

Ancora a Milano è dedicato l’ultimo romanzo di Bianciardi, questo del 1969: il suggello anticipato della sua esistenza. A un certo punto, oppresso dal fatto che il notevole successo de gli aveva procurato soprattutto guai, attirandogli addosso invidie e processi, contestazioni e inimicizie, Bianciardi aveva pensato di cercar rifugio fuori. Si era stabilito a Rapallo, tentando di convincere a parole gli amici che quella era la soluzione migliore, che quella era l’unica, possibile salvezza. Ma a Rapallo non sapeva fare altro che pensare a Milano, la sua Samarra. In Rapallo si chiama Nesci, e il protagonista vi si considera in esilio. In esilio per qual motivo?

è la paradossale spiegazione di questo motivo. Paradossale sino a un certo punto. Il protagonista, infatti, si dice in esilio per avere partecipato in Milano all’insurrezione armata del 1959. Del marzo 1959. Già perché Bianciardi rifà la storia delle cinque giornate care alla retorica risorgimentale spostandole, però, in tempi più prossimi, e confondendo e rimescolando personaggi di allora con personaggi di ora. Il risorgimento, lo studio non conformista ma appassionato del risorgimento, costante della carriera di scrittore di Bianciardi, non meno della traduzione, l’esercizio non conformista ma appassionato della traduzione, serve come ne (1964) per un vertiginoso, dissacratorio e toccante confronto tra passato e presente. Radetzky, certo, è il Radetzky dei testi scolastici, ma il Bocca (Giorgio) che figura accanto al Correnti (Cesare) è un personaggio di oggi o di ieri? Eccetera, eccetera, eccetera. E il rammarico di Bianciardi a quale epoca si riferisce?

«...La persecuzione, d’accordo, c’è stata e io ne sono un esempio quasi vivente, ma fu una persecuzione sempre sorda e speciosa. Chi non ha dato bastevoli segni di ravvedimento, lo hanno tafanato con i pretesti più vari e più assurdi, incolpandolo dei delitti più incredibili: evasione fiscale, omessa denuncia dei redditi, porto d’arme abusivo, sosta vietata, vilipendio della religione, oltraggio al pudore, abigeato e via discorrendo. Lo so benissimo io, che pure avevo taciuto così a lungo, sperando magari nel cosiddetto reinserimento. Lo so per via delle tante e inique vessazioni che mi hanno inflitto, e che già ho raccontato con ira e abbondanza di particolari, tante e tali da indurmi, adesso, a impugnare la penna e a raccontare i fatti. Se queste pagine vedranno mai la luce, e io comincio a dubitarne per gli indugi che mi frappone il protonotaro Pautasso, esse costituiranno il primo contributo, sia pure di tipo meramente letterario, di parte italiana alla storia di quella italianissima rivoluzione. Rivoluzione che andò fallita...»

«Un esempio quasi vivente», è con un autentico sussulto che ho ritrovato questa frase di Luciano. Luciano, infatti, sarebbe morto assurdamente, e logicamente, poco tempo dopo, nel 1971. Era rientrato a Milano dall’esilio di Nesci. Aveva cominciato quasi con una scusa. Aveva accettato di sbrigare una rubrica di corrispondenza con i lettori sul settimanale . Così doveva per forza essere a Milano la domenica per veder le partite, e scrivere poi le sue risposte con un minimo di aggiornamento sui fatti sportivi...



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