Bender | L'inconfondibile tristezza della torta al limone | E-Book | www2.sack.de
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E-Book, Italienisch, 289 Seiten

Bender L'inconfondibile tristezza della torta al limone


1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-7521-403-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 289 Seiten

ISBN: 978-88-7521-403-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
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Alla vigilia del suo nono compleanno, la timida Rose Edelstein scopre improvvisamente di avere uno strano dono: ogni volta che mangia qualcosa, il sapore che sente è quello delle emozioni provate da chi l'ha preparato, mentre lo preparava. I dolci della pasticceria dietro casa hanno un retrogusto di rabbia, il cibo della mensa scolastica sa di noia e frustrazione; ma il peggio è che le torte preparate da sua madre, una donna allegra ed energica, acquistano prima un terrificante sapore di angoscia e disperazione, e poi di senso di colpa. Rose si troverà così costretta a confrontarsi con la vita segreta della sua famiglia apparentemente normale, e con il passare degli anni scoprirà che anche il padre e il fratello - e forse, in fondo, ciascuno di noi - hanno doni misteriosi con cui affrontare il mondo. Mescolando il realismo psicologico e la fiaba, la scrittura sensuale di Aimee Bender torna a regalarci una storia appassionante sulle sfide che ogni giorno ci pone il rapporto con le persone che amiamo.

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Mia madre rimaneva a letto fino a tardi perché dormiva male. Fin da bambina, mi confessò una volta che le avevo portato il suo bicchiere d’acqua del mattino. Aspettavo di sentire che mi addormentavo, mi disse mentre mi appollaiavo sulla sponda del letto; e aspettavo e aspettavo, diceva, perché volevo prendere al volo il momento in cui succedeva, come con il topolino dei denti. Non puoi prendere il sonno, dissi io, facendo ruotare il bicchiere sul sughero del sottobicchiere. Lei mi sorrise, con le palpebre appesantite. Ragazzina in gamba, mi disse.

La sentivo, a volte, quando mi rigiravo nel letto in piena notte; alle due non era raro sentir scattare l’interruttore della luce in cucina e il brusio del bollitore che si scaldava. Un accenno di luce in fondo al corridoio che gettava un flebile chiarore sulla parete di camera mia. Quei rumori davano conforto: rammentavano la presenza di mia madre, davano una sensazione di attività ed efficienza, anche se sapevo che una volta arrivato il mattino ciò si sarebbe tradotto in una madre dall’aspetto stanco, dagli occhi erranti, in cerca di riposo.

Di tanto in tanto, scendevo piano dal letto nel cuore della notte e la trovavo sulla grande poltrona a strisce arancione, una coperta sulle ginocchia. Io, a cinque o sei anni, mi arrampicavo fin sulle sue cosce, come un gatto. Lei mi accarezzava i capelli, come se fossi un gatto. Mi accarezzava e beveva qualche sorso. Non parlavamo mai, e io mi addormentavo in fretta fra le sue braccia, nella speranza che il mio peso, la mia sonnolenza le si potessero in qualche modo trasmettere. Mi risvegliavo sempre nel mio letto, così non ho mai saputo se lei tornasse in camera sua o se restasse lì tutta la notte, a guardare fisso le pieghe delle tende alle finestre.

Avevamo abitato in questa casa per tutta la mia vita. I miei genitori si erano conosciuti a Berkeley, da studenti al college, ma si erano sposati subito dopo il diploma, si erano trasferiti a Los Angeles perché papà frequentasse i corsi di legge, e mia madre aveva partorito Joseph poco dopo che si erano sistemati nella casa che avevano acquistato sulla Willoughby. Lei al college aveva avuto qualche problema a scegliere la materia in cui diplomarsi, incerta su quello che le piaceva davvero, ma la casa la scelse senza esitazioni perché era squadrata e dall’aria amichevole, con le tegole rosse e una massa di bougainvillea che ricascava dallo spiovente sopra la porta, e i disegni diagonali a forma di rombo delle finestre sulla facciata sembravano poter incorniciare soltanto una famiglia felice.

Papà studiava un sacco, prendeva bei voti agli esami, gli insegnanti gli stringevano la mano. Compilava fogli e fogli di liste su blocchi di carta gialla, liste che gli ricordavano di , , . non era in nessuna lista visibile, ma lui le aveva chiesto di sposarlo prima di quanto non facessero i suoi compagni, e parve che dentro di lui qualcosa venisse spuntato come «fatto» una volta che si furono sposati. Lui aveva comprato regali adatti agli anniversari e messo in cornice le migliori fotografie del matrimonio per l’ingresso, e per quanto e suonassero meglio su carta che nei pianti e nei cambi di pannolini giorno dopo giorno, mio padre si compiacque della combinazione primo figlio/seconda figlia. Il mondo era stato all’altezza di quello che aveva sognato, e lui si era lasciato andare dentro a quello che avevano costruito. Al rientro dal lavoro era allegro quanto bastava, ma in realtà non sapeva bene cosa fare con i bambini piccoli, così che non ci ha mai insegnato ad andare in bicicletta, o a metterci un guanto da baseball, e i cambiamenti della nostra statura non sono mai stati segnati sugli stipiti delle porte, e quindi siamo cresciuti per conto nostro e senza prove evidenti. Lui usciva alla stessa ora tutte le mattine e tornava alla stessa ora tutte le sere, e i miei primi ricordi di mia madre la vedono aspettare alla porta non appena l’orario si avvicinava, io in braccio, Joseph per mano, a guardare passare macchina dopo macchina. Lui non era mai in ritardo, ma lei si metteva comunque di vedetta in anticipo. Al pomeriggio, quando si era stancata delle faccende che doveva sbrigare per noi, a volte si metteva a giocare con una pallina bianca di plastica leggera e ci raccontava storie sui nostri primi anni. In particolare ci raccontava storie legate alla nostra nascita. Per chissà quale motivo papà si rifiutava di mettere piede in ospedale, così mamma ci aveva partorito entrambi da sola, mentre papà aspettava fuori sul marciapiede, seduto su una cassetta della frutta, cercando di leggere un giallo.

Che fortuna, diceva, mentre faceva rotolare verso di noi la pallina ballonzolante. Vi ho incontrati io per prima.

Quando papà arrivava a casa, percorreva in fretta e a balzelloni il vialetto d’ingresso e spalancava la porta, baciava lei, baciava noi, si toglieva le scarpe e le riponeva in buon ordine, sfogliava la posta. Se qualcuno aveva pianto per un qualsiasi motivo, lui tirava fuori un fazzolettino di carta e ci asciugava le guance e diceva che il sale era fatto per le bistecche, non per le facce. Poi gli si esaurivano i riti di saluto e cominciava a guardarsi attorno a casaccio finché non andava in camera sua a cambiarsi. Quello in cui mio padre riusciva con più facilità e con maggior profitto era starsene inattivo in quelle lunghe ore mentre mia madre ci faceva il bagno e ci dava da mangiare e ci vestiva e ci faceva fare il ruttino, vedendo il mondo in generale come il più grande di tutti i college, una replica del problema che in precedenza aveva avuto nel decidere la materia di laurea. Le sue possibilità le sembravano ridursi sempre di più. A me piace tanto tutto, mi diceva quando ero ancora abbastanza piccola da starle seduta in braccio. Non so cosa mi piace!, diceva vivace, dandomi un bacio sul naso. Sei così carina!, diceva. Così carina! Tu! Proprio tu!

Non conoscevo quasi nessuno dei miei altri parenti. O vivevano lontano o erano morti. Tre dei miei nonni erano già passati a miglior vita prima che compissi quattro anni, ma la madre di mia madre sembrava avere la salute di un olimpionico anche se non aveva mai fatto ginnastica neanche un giorno in vita sua. Abitava a nord, nello stato di Washington.

Detestava viaggiare, non veniva mai a trovarci, ma un sabato pomeriggio, quando avevo otto anni, arrivò a casa nostra un grande scatolone marrone con l’indirizzo del mittente che diceva solo NONNA in stampatello. Un pacco!, esclamai, trascinando i miei genitori alla porta. Qualcuno compie gli anni? No, rispose mamma con freddezza, e lo spinse dentro con il piede.

Al suo interno, sotto strati di gommapiuma, trovai uno strofinaccio da cucina con su scritto il mio nome. , aveva scritto, con una calligrafia assai esile su un foglietto di carta appiccicato allo strofinaccio stesso con del nastro adesivo. Era tutto consumato, con i disegni scoloriti. Lo tolsi dallo scatolone e me lo appoggiai alla guancia. ’sta roba?, chiese papà, gettando strisce di gommapiuma sul pavimento e tirando fuori una tazza da tè a fiori sbeccata, anch’essa con il suo bel foglietto appiccicato: . La sua tazza da tè rotta?, domandò. Il regalo per Joseph era una serie di federe azzurre fresche di bucato, e il nome di mia madre era attaccato a un sacchetto di plastica pieno di scatolette di fard incrinate. È diventata vecchia, aveva detto mamma, spandendosi un cerchio di fard sul dorso della mano. La nonna abitava da sola, e probabilmente a quel punto aveva perso buona parte del comprendonio, ma nessuno osava spostarla. All’ufficio postale ce la fa ancora ad arrivarci, giusto?, sosteneva mamma, sistemando il sacchetto con le ciprie in fondo a un cassetto in cucina. Papà si tolse manciate di monete dalle tasche. Caspita!, esclamò. Non corre certo buon sangue tra voi due! Gettò tutte le monetine nella tazza da tè, così che nessuno avrebbe mai potuto berci niente.

A me il mio strofinaccio da cucina piaceva un sacco. Aveva due tonalità di base, e da un lato aveva ricamate delle grosse rose viola su uno sfondo color lavanda, e dall’altro delle grosse rose color lavanda su uno sfondo viola. Che lato si doveva usare? Un’illusione ottica che replicava il mio nome, con cui avrei potuto asciugare i piatti. Era morbido e consunto, e profumava di sapone da lavatrice senza tanti fronzoli.

Dato che non veniva a trovarci di persona, nonna telefonava una volta al mese, di domenica pomeriggio, e mia madre ci chiamava a raccolta, sistemava il telefono al centro del tavolo in cucina e metteva il viva voce. Era burbera, nonna, ma buffa. Le piaceva raccontare delle sue feste per le «rocce geologiche», alle quali aveva invitato gente in casa a etichettare sassi scavati dal giardino, con la richiesta esplicita che dal momento che entravano in casa nessuno proferisse verbo.

A volte gli tappo perfino la bocca col nastro adesivo, diceva. Se me lo lasciano fare. È il massimo. Tu mi capisci, Joseph, giusto?

Sì, rispondeva Joe.

Abbiamo bevuto un sacco, diceva nonna, in tono meditabondo. Sei tu, Rose? Ci sei?

Ciao nonna, rispondevo.

Sei troppo silenziosa, diceva nonna. Fatti sentire.

Io arrotolavo una tovaglietta di plastica fino a trasformarla in un tubo.

Ti voglio bene, dissi, brandendo il tubo come un megafono.

Ci fu una pausa. All’altro capo della stanza, dove ascoltava infilata nell’angolo più lontano, mamma ebbe un sussulto.

Bene?,...



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