Bender | La notte delle farfalle | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 276 Seiten

Reihe: Sotterranei

Bender La notte delle farfalle


1. Auflage 2021
ISBN: 978-88-3389-312-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 276 Seiten

Reihe: Sotterranei

ISBN: 978-88-3389-312-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



La notte in cui sua madre viene portata in un ospedale psichiatrico dopo un accesso di follia, Francie ha solo otto anni e rimane sola con la sua babysitter aspettando di poter prendere, la mattina dopo, il treno che la porterà a Los Angeles a vivere con gli zii. Accanto al divano sul quale dorme c'è una lampada con un paralume decorato di farfalle. Al risveglio, Francie vede una farfalla morta, identica a quelle sul paralume, che galleggia dentro un bicchiere d'acqua. Senza farsi vedere dalla babysitter, la deglutisce. Vent'anni dopo Francie si trova costretta a fare i conti con quel momento, immergendosi nel passato e ripescando nella memoria altri due incidenti, molto simili: la scoperta, in un quaderno di scuola, dello scheletro essiccato di uno scarafaggio, e la presenza di un bouquet di rose che riproduce il motivo floreale delle tende di casa. Mentre il mondo intorno a lei sembra quasi perdere di consistenza, i ricordi si fanno sempre più luminosi, e gli insetti e i fiori sembrano aprire lo sguardo verso una terza dimensione. Comincia una dolce battaglia, nella quale salvare e proteggere la farfalla, lo scarafaggio, le rose è forse l'unico modo possibile per ritrovare l'amore di una madre adorabile e folle, e poter ricominciare, una volta per tutte, a vivere. A dieci anni dal suo ultimo romanzo, Aimee Bender torna a esplorare, con una lingua unica per eleganza e limpidezza, un mondo nel quale gli oggetti più banali e quotidiani si trasformano in finestre verso un'altra dimensione e in amuleti di salvezza. E rinnova la dolce magia che ha fatto dell'Inconfondibile tristezza della torta al limone un libro di culto.

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4


Dopo la notte delle stanze chiuse a chiave, mamma bussò alla mia porta la mattina presto.

«Puoi uscire», disse. «Mi sento meglio».

La voce, tornata alla sua consolante musicalità, cantilenante e lieve. Io infilai la testa nella porta socchiusa, e lei mi abbracciò, mi accarezzò i capelli e mi disse che ero una bellissima bambina. «C’è un insetto dentro di me», le dissi, e lei reagì dicendo che no, «no, no. Non darmi retta. Piccola! No. Ero in preda alla follia. Non farci caso. È dentro di che c’è». «Non in te!», protestai. I suoi capelli erano ben spazzolati, e profumavano del prodotto al limone dolce che applicava quando si pettinava. Aveva indosso l’accappatoio migliore, un regalo di zia Minn, quello con le bordature di satin rosso e un’eruzione di increspature sul collo. Andammo in cucina secondo la nostra normale routine del mattino e insieme mangiammo uova al burro con il pane tostato e poi, dopo che ebbi riempito la padella con acqua saponata, e dopo essermi vestita, e lavati i denti, lei si sedette con me sugli scalini di cemento umido al primo piano ad aspettare la madre di Alberta, che mi accompagnava a scuola in macchina perché pareva avesse sentito qualche voce su mia madre da qualcun altro della scuola elementare, e la madre di Alberta aveva deciso che non voleva mettere Alberta nella nostra auto quando era il nostro turno, e così un bel giorno si era offerta di farlo sempre lei.

Fuori c’era nebbia ed era tutto grigio, con una promessa di pioggia per la tarda mattinata, inizio di marzo sul Willamette.

«Lo chiedi alla babysitter?», domandai. La babysitter, Shrina, veniva solo ogni tanto, ma quando veniva entrava decisa nel nostro appartamento con una sportina di tela zeppa di carta colorata, lustrini e colla stick, come una specie di fatina del bricolage.

Mia mamma mi lanciò un’occhiata. Posò un dito sull’angolo delle labbra, come stesse sforzandosi di ricordare qualcosa.

«Se posso andare a stare da lei», spiegai.

«Non c’è bisogno che tu vada a stare da nessuno».

«Lo chiami il tuo medico?»

«Mi sento molto meglio oggi».

Sull’altro lato della strada passò un vicino, rimorchiato da due cagnetti bianchi. Sotto di noi le scale scendevano a zigzag, e quasi giù in fondo un pesciolino d’argento sbucò da un gradino per andare a brillare in un clamore di felci.

«Zia Minnie probabilmente l’ha già chiamata», dissi.

«Con zia ci parlo dopo».

La mamma di Alberta arrivò con la sua auto bordeaux. Alberta era seduta dietro. Reggeva contro il vetro del finestrino la figurina di carta di un soldato dell’esercito. Suo padre era via in un altro paese, per questioni di guerra.

«Ciao», dissi a mia mamma.

Mi baciò sulla guancia e mi augurò di passare una magnifica giornata.

«Fa’ che sia divertente», si raccomandò. «Fallo per me, ok?»

Annuii mentre scendevo le scale. Era proprio tipico di lei compartimentare il suo umore dalla giornata, così, come se non facesse alcun effetto su di me.

Se ricostruisco la successione degli eventi, lei si spappolò la mano con un martello meno di un’ora dopo, perché, aveva raccontato al dottore, era stata sopraffatta dall’idea che ci fosse non so cosa che le strisciava nelle ossa, e voleva vedere cos’era. «O schiacciarlo», disse al dottore, che poi l’aveva riferito a mia zia. «Sa, come si schiaccia un ragno». «Ma chi prende a martellate un ragno?», sussurrò zia a zio, nel corridoio di casa loro una volta messo giù il telefono in cucina dopo la conversazione con lo psichiatra dell’ospedale. A quel punto mi trovavo a casa loro più o meno da una settimana. Le pareti del corridoio erano scandite da piccoli ricami incorniciati che raffiguravano animali di fattoria; zia li aveva trovati durante una gita in Vermont per degustare formaggi, e aveva pensato che fossero le immagini più carine che avesse mai visto. Erano molto carine. Erano anche piuttosto difficili da vedere, tanto erano piccole. Ogni tanto, quando non avevo di meglio da fare, trascinavo fin lì uno sgabello per riuscire a stabilire se, ad esempio, una era un agnello o una capra. «Tu stai applicando una logica di buon senso», mormorò di rimando zio. «Ma in tutta questa faccenda c’è qualcosa che ha senso?», e zia scosse la testa con movimenti brevi e duri e quando trovai il coraggio di sgattaiolare oltre di loro dal mio avamposto in cucina, lei stava appoggiata con tutto il peso al petto di lui, a occhi chiusi. Dov’era la piccola Vicky? In un marchingegno su ruote, sotto una cappottina, avvolta in una coperta.

Con la mano che ancora funzionava mia mamma era riuscita a chiamare il numero d’emergenza, che aveva mandato un’ambulanza, l’avevano trattata per lo shock, poi per le ossa rotte, e una volta stabilizzata in ospedale l’avevano indirizzata al reparto psichiatrico, dove l’avevano dichiarata in preda all’ennesimo episodio psicotico, non idonea alle cure parentali. Zio era saltato sul primo volo per Portland. Zia, che aveva passato la mattinata a chiamare prima la babysitter e poi diversi ospedali dato che nessuno rispondeva al telefono di casa, era entrata in travaglio con un paio di settimane di anticipo, e dopo essere atterrato zio arrivò in auto dall’aeroporto, salì di corsa le scale della scuola come il protagonista di un film, mi prese tra le braccia, e poi tirò fuori una pila di carte e programmò tutto quanto prima di volare di nuovo verso casa per rientrare in tempo per la nascita della figlia. Credo sia arrivato in ritardo per l’ingresso di Vicky in questo mondo, ma che ce l’abbia fatta per la prima poppata. In segreteria si inginocchiò e mi chiese di partire con lui il giorno stesso, per «unirti a noi, per essere insieme a noi in questa grande occasione», ma io mi rifiutai perché a) l’idea di dovermi trasferire in un’altra città era ancora troppo nuova, b) non è che vedessi lui/loro poi tanto spesso, e c) non sarei mai salita su un aeroplano. «Mi metto a strillare», ho detto, accanto alla lunga panca dell’ufficio dove di solito ci facevano aspettare, circondata da segretarie dallo sguardo preoccupato, sotto a una serie di acquarelli tutti sul tema del tramonto prodotti da un allievo di un altro anno. «Mi metto a strillare, e poi la smetto, e poi mi metto a strillare di nuovo». Lo dissi con semplicità, ma sapevo che i miei occhi potevano fissare un adulto ed ero in grado di sostenere qualsiasi sguardo senza batter ciglio. I suoi occhi, che sfarfallavano aprendosi e chiudendosi, sembravano stanchi, orlati di rosso.

«Verissimo», si intromise stridula la signora Washington, la caposegretaria dal rossetto lucido rosa, smettendo di digitare sulla tastiera. «È dall’inizio dell’anno che dice di essere terrorizzata dagli aerei».

Avevo otto anni allora, e come parte del programma di quell’anno c’era un’unità educativa dedicata al trasporto: su autobus, treni, aeroplani, biciclette. Io avevo avuto così tanta paura della parte dedicata agli aerei che la maestra mi aveva concesso di fare dei compiti aggiuntivi sul trasporto ferroviario, compresa un’intervista proprio con la signora Washington della segreteria, che aveva un fratello che faceva il macchinista sulla linea ferroviaria tra Atlanta e Washington D.C. A quel tempo, nonostante ripetute rassicurazioni, presumevo che un aereo volasse talmente veloce che dal finestrino si potessero vedere solo strie di colore, mentre in quei giorni avevo soprattutto bisogno di capire bene dove mi trovavo e dove stavo andando. E per questo percepivo me stessa e i miei valori prioritari come alquanto diversi da quelli degli altri bambini. La signora Washington mi aveva descritto per filo e per segno quale fosse il ruolo del fratello sul treno, il suo sedile che era il primo di fronte, il diploma in ingegneria, e tutte le fermate – diciotto – compresa quella di Charlotte, che peraltro era il nome di una delle mie compagne di classe, e io avevo stilato il mio rapporto, con tanto di illustrazioni, ed era finita lì.

Ma il bisogno di tenere traccia della mia esistenza non si esauriva a questo punto; a volte, a ricreazione, mentre gli altri bambini salivano su scivoli e altalene e si lanciavano gioiosamente nello spazio, io me ne stavo tutta sola in fondo al cortile, e restavo immobile per capire bene quale fosse il ruolo della mia sagoma fisica nel mondo. Era un modo per ricordare me stessa a me stessa, per attingere al mondo esteriore: piedi sul selciato, sapore di cracker, inferriata color argento, aria che si smuove alla brezza, e si trattava di un’attività utilissima per me, se pure poteva parere alienante agli altri. Per mia grande fortuna non avevo mai incrociato gli occhi dei bulli più duri, così sapevo solo di essere chiamata Statua o Gnocco, oppure venivo presa in giro perché Palla Avvelenata era finita da un pezzo e una compagna di classe diceva qualcosa tipo «Per favore, c’è qualcuno che prova a resuscitare Francie?», mentre tornava in classe di corsa dopo la campanella, e magari qualcuno le dava retta e mi batteva colpetti sulla spalla nel passare, e io usavo quel minimo contatto, quel contesto bello e sbagliato per riportarmi dalle profondità di me stessa a quel grumo di umanità a cui si diceva io appartenessi. Di solito mi sentivo molto molto meglio allora, seguendoli, rientrando in classe chiassosamente, molto più sicura di me stessa dopo essermi resa conto che potevo risistemarmi al mio posto e ringraziare le guance rubizze e gli occhi lustri di Luther o di Janie o di chiunque mi avesse liberato, e ci mettevamo tutti a ridere della mia estrema svagatezza anche se si era trattato...



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