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E-Book, Italienisch, 352 Seiten

Reihe: Frontiere

Bass Nashville chrome


1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-5649-182-7
Verlag: Mattioli 1885
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 352 Seiten

Reihe: Frontiere

ISBN: 979-12-5649-182-7
Verlag: Mattioli 1885
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Alla fine del 1959, i fratelli Brown - Maxine, Bonnie e Jim Ed - godono di un successo internazionale senza precedenti, eguagliato solo dal loro amico Elvis Presley. Tra le mani hanno un pezzo da cifre folli, in cima alle migliori classifiche di musica country e pop, e destinato a dare origine alla multimilionaria industria musicale dei nostri tempi. Incantati dai Browns, persino i Beatles cercheranno di scoprire i loro segreti, per scoprire che la straordinaria armonia del trio scaturisce dal loro profondo legame familiare. Come scrive Rick Bass: 'I Browns sono persone reali e ciò che hanno dato alla musica americana e il modo in cui l'hanno fatto sono reali; Nashville Chrome, però, è un'opera dell'ingegno.' Questo è il loro romanzo, la loro ascesa e la loro caduta: in un mondo in continua evoluzione, la loro fama non è destinata a durare, e i legami fraterni cominciano a sgretolarsi così come il loro successo. Una storia profondamente americana di creazione, distruzione e rinascita.

Rick Bass (1958) è nato e cresciuto in Texas, ha lavorato come geologo petrolifero in Mississippi, e ha vissuto nella Yaak Valley, in Montana, per quasi trent'anni. I suoi racconti sono apparsi su prestigiose riviste come The New Yorker, The Atlantic, Esquire, GQ, e The Paris Review, e sono stati più volte pubblicati sull'antologia annuale The Best American Short Stories. Finalista ai National Book Critics Circle Awards con il suo saggio Why I Came West, Rick Bass ha vinto diversi O. Henry Awards e Pushcart Prizes, oltre a ottenere la NEA Fellowship e la Guggenheim Fellowship. È 'writer in residence' presso la Montana State University.
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Il ponte


La vocazione doveva essere emersa inaspettatamente, là sulle rive del Poplar Creek, limitandosi ad attraversarli. Si trattava senz’altro di uno scherzo della natura, un prodigio, una mutazione della storia. Come se qualcuno di rango superiore avesse deciso di usarli come marionette – di tenerli in ostaggio di quel dono potente che era ora di far venire alla luce, e come se quel dono, quel sound, alla fine fosse stato tirato fuori da un momento chiave fatto di miseria, fame, squallore e dal desiderio di una metamorfosi più raffinata. Nessuno sforzo va mai sprecato e ogni attesa alla fine viene ripagata.

Il padre, Floyd Brown, aveva un rapporto intimo con la bottiglia, non lo si poteva negare, e anche questo era stato sicuramente uno degli elementi che avevano contribuito al loro sound, affinando la capacità del trio di stemperare e moderare la voce, ciascuna in armonia e in sintonia con le altre, persino sui mezzi toni, quando tutte e tre si attorcigliavano e si avvolgevano l’una intorno all’altra finché non ne usciva un suono vorticante e fumoso. Ognuno ascoltava gli altri attentamente, con una sensibilità sviluppata anche grazie al tentativo di comprendere in fretta – immediatamente – e solo dai dettagli più vaghi, di che umore fosse Floyd. Aveva già perso una gamba in un incidente mentre tagliava la legna e aveva una paura tremenda di perdere anche l’altra, ma non era quello il motivo per cui adesso beveva; aveva iniziato molto prima.

I Brown non sarebbero stati i primi a essere nati per fare grandi cose pur vivendo all’ombra di un genitore alcolizzato. Ma il loro sound non veniva da Floyd, né dalla madre Birdie. Quel sound era così legato alle forze della natura che avrebbe potuto scegliere chiunque.

All’inizio, nei giorni in cui ancora non sospettavano che su di loro gravasse il fardello di un dono raro – in cui non sapevano di essere stati scelti per portarlo – il mondo li stava comunque preparando per quel viaggio e mostrava loro, tramite le lezioni più difficili, le strade che avrebbero preso le loro vite.

C’era un vecchio ponte di legno che univa le due sponde del Poplar Creek nel punto in cui una valle si stringeva contro un’altra. I Brown vivevano in una di quelle valli e i distillatori clandestini da cui Floyd comprava o barattava il whisky vivevano nell’altra. Chiunque si avvicinasse alla valle dei distillatori doveva attraversare quell’unico ponte; quindi, era impossibile che vi fossero visitatori a sorpresa. C’era solo la clientela abituale.

Floyd in genere beveva la sua scorta fino quasi all’ultima goccia – a volte fino a esaurirla – e poi raggranellava abbastanza monete o uova oppure un carico di legna e guidava di là dal ponte per l’acquisto successivo. Quando veniva il momento di andare, non importava se i ragazzi stavano tornando dalla chiesa, se stavano andando da suo fratello per la serata di musica del sabato oppure in città a fare provviste: se aveva bisogno di un goccio, aveva bisogno di un goccio.

La volta in cui i Brown capirono cos’erano i ponti si trovavano in macchina tutti e sette – e quella lezione si impresse in modo indelebile nelle loro giovani menti, nell’architettura del mito o del destino.

Floyd aveva finito anche l’ultima goccia di whisky e voleva fare un salto a una delle distillerie locali, portandosi dietro, per qualche motivo, tutta la famiglia. Era primavera e pioveva da una settimana senza interruzioni. Il bosco era troppo fangoso per tagliare gli alberi e a ogni modo lui non aveva carburante per far funzionare la segheria. Aveva bevuto per tutta quella settimana piovosa, raschiando il fondo del barile, perciò, quando arrivò al ponte, il fatto di trovarlo sommerso non lo dissuase affatto dal suo proposito. Riusciva ancora a scorgerne la forma sotto le acque ingrossate, perché le increspature ne indicavano approssimativamente l’ubicazione, e con la famiglia stipata sulla Model A proseguì la marcia, mentre la pioggia veniva giù a scrosci. Birdie, seduta davanti, brontolava tenendo in braccio la piccola Norma, mentre Maxine, Jim Ed, Bonnie e Raymond erano ammassati sul sedile posteriore.

Scendeva il crepuscolo e Floyd andava avanti, orientandosi a naso, gli pneumatici che cercavano il legno invisibile sotto trenta centimetri di acque mosse. Al centro il ruscello era profondo tre metri e mezzo. Floyd disse che dovevano passare allora o mai più, che il livello dell’acqua non avrebbe fatto altro che salire e che se non ci fosse riuscito in quel momento, forse non avrebbe più potuto attraversare il ponte per una settimana.

Non era arrivato nemmeno a metà del ponte quando perse la presa e la macchina si inclinò, fece un testacoda e piegò verso valle. I passeggeri furono scaraventati fuori.

I bambini sembravano essere ovunque: spuntavano dall’acqua, galleggiavano e si aggrappavano alle parti della macchina che riuscivano ad agguantare – la maniglia di una portiera, il telaio di un finestrino aperto, un fanale. Dal radiatore saliva vapore come dallo sfiatatoio di una balena. La pioggia li sferzava in volto. Birdie gridava tenendo Norma per la collottola come una gattina. Solo Floyd rimase sull’auto, aggrappato al volante come se fosse momentaneamente disorientato ma ancora convinto di potercela fare.

La macchina rimase lì, con un lato sommerso e un solo pneumatico che toccava le tavole centrali rialzate del ponte, che vibravano nella corrente. Questa faceva girare le ruote libere come se la macchina si stesse sforzando, simile a un animale ferito, di riprendere il viaggio.

La prima cosa da fare era semplicemente resistere, ma non potevano resistere per sempre. Floyd cominciava a capire la situazione – l’acqua gli arrivava ormai al petto – quindi allungò un braccio e iniziò a riportare uno alla volta i bambini nell’abitacolo allagato. Erano fangosi, perciò ogni tanto sfuggivano alla sua presa e mentre cercava di afferrare quello che gli era scivolato via, gli altri rimanevano liberi per un attimo e lui doveva radunarli e farli rientrare di nuovo. Altre volte il fuggiasco afferrava la mano tesa di uno degli altri bambini e così, per un momento, allungati nella corrente, sembravano la coda di un aquilone fatto di bimbi, e chi avesse visto la scena non avrebbe certo scommesso che le cose potessero finire bene.

Nella penombra del crepuscolo, però, e sotto quella pioggia, sull’alto promontorio comparve un vecchio. Era scalzo e con una barba di due giorni, indossava un cappello di paglia fradicio di pioggia che ormai si era sformato e assomigliava a un ciuffo di fieno marcio. Fumava una pipa di pannocchia dalla quale si levava eroicamente un filo di fumo azzurrognolo, così splendente nel crepuscolo che la combustione pareva prodotta non da semplice tabacco ma da un miscuglio di trucioli di corteccia e legno intrisi di benzina. Il vecchio tirava dalla pipa come se da ogni boccata sempre più profonda ricavasse il nutrimento necessario per mantenersi in piedi in mezzo a quella tempesta.

Aveva sentito la macchina che faticava per attraversare il ponte, Floyd ubriaco che faceva andare a tutto gas il motore e le grida e gli strilli dei passeggeri quando la macchina aveva perso la presa ed erano finiti fuori. Il vecchio teneva in mano una corda logora e fangosa, all’estremità della quale aveva legato un mulo bianco e sporco. La testa del mulo era piegata all’ingiù come se fosse sconfitto, battuto dalla pioggia incessante, o forse perché lamentava o piangeva già la disgrazia di cui era testimone e che si stava consumando più in basso.

Per un tempo che parve molto lungo, il vecchio e il mulo rimasero lì, a fare da spettatori. E mentre se ne stavano fermi, il crepuscolo scivolò ulteriormente nell’oscurità; ma alla fine, come se fosse venuto a capo di un ragionamento faticosissimo, il vecchio si avviò lungo la strada ripida che scendeva a tornanti verso il fiume, portandosi dietro il mulo come per un sacrificio rituale.

Giunto sulla riva del torrente, il vecchio recuperò il tratto arrugginito di un pesante cavo per il trasporto del legname che era avvolto a spirale vicino a un albero e un tempo veniva usato come cavo di traino improvvisato per le barche a remi che andavano avanti e indietro dalle terre dei distillatori clandestini. Dopo averlo fatto passare intorno al collo del mulo senza finimenti né tirelle, un semplice cappio di metallo intorno al petto muscoloso dell’animale, il vecchio entrò nel fiume, andando dritto verso le assi coperte dalle rapide che ormai definivano a malapena il ponte.

A guardarlo sembrava che camminasse sulle acque. Pareva non importargli affatto della macchina o della propria situazione e non si affrettava, ma si limitava ad avanzare come se stesse facendo una passeggiata o pensasse che un approccio più rapido potesse scombussolare la fragile presa che la vettura e i suoi occupanti avevano stabilito sul ponte. Come se credesse che muovendosi in fretta, lui – il soccorritore miracoloso – avrebbe rischiato di spaventarli tutti e di farli finire nel torrente, tartarughe sorprese che si crogiolavano al sole e di colpo cadevano da un tronco, scivolando via come un mazzo di carte nuove mischiato con poca perizia.

Il vecchio raggiunse la macchina e vi si inginocchiò davanti gentilmente, come se stesse somministrando un farmaco a un animale ferito – un...



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