E-Book, Italienisch, 503 Seiten
Reihe: Narrativa
Axelsson / Larsson Io non mi chiamo Miriam
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7091-440-5
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 503 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7091-440-5
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
«Io non mi chiamo Miriam», dice di colpo un'elegante signora svedese il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, di fronte al bracciale con il nome inciso che le regala la famiglia. Quella che le sfugge è una verità tenuta nascosta per settant'anni, ma che ora sente il bisogno e il dovere di confessare alla sua giovane nipote: la storia di una ragazzina rom di nome Malika che sopravvisse ai campi di concentramento fingendosi ebrea, infilando i vestiti di una coetanea morta durante il viaggio da Auschwitz a Ravensbrück. Così Malika diventò Miriam, e per paura di essere esclusa, abbandonata a se stessa, o per un disperato desiderio di appartenenza continuò sempre a mentire, anche quando fu accolta calorosamente nella Svezia del dopoguerra, dove i rom, malgrado tutto, erano ancora perseguitati. Dando voce e corpo a una donna non ebrea che ha vissuto sulla propria pelle l'Olocausto, Majgull Axelsson affronta con rara delicatezza e profonda empatia uno dei capitoli più dolorosi della storia d'Europa e il destino poco noto del fiero popolo rom, che osò ribellarsi con ogni mezzo alle SS di Auschwitz. Io non mi chiamo Miriam parla ai nostri giorni di crescente sospetto verso l'«altro» interrogandosi sull'identità - etnica, culturale, ma soprattutto personale - e riuscendo a trasmettere la paura e la forza di una persona sola al mondo, costretta nel lager come per il resto della vita a tacere, fingere e stare all'erta, a soppesare ogni sguardo senza mai potersi fidare di nessuno, a soffocare i ricordi, i rimorsi, il dolore per gli affetti perduti: «Non si può dire tutto! Non se si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l'intero secolo.»
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È ancora notte, eppure splende il sole.
Nässjö riposa immobile sotto il cielo azzurro. Niente sussurri di vento tra le betulle del parco civico; niente rombi di motori lungo Rådhusgatan; niente sibili di treni diretti alla stazione. Regna un silenzio tale che un piccione solitario che attraversa a passetti dondolanti Stora Torget si blocca di colpo e ascolta quella stranezza. Rimane assolutamente immobile con la testa di lato, in vigile attesa, ma poi vede poco più in là un pezzo di pane da hot dog e dimentica tutto: una zampetta rossa davanti all’altra, si affretta da quella parte pregustandosi la mangiata con muta felicità. Non che soffra la fame. Ormai non la soffre nessuno a Nässjö, nemmeno gli uccelli o i topi. C’è cibo a sufficienza per tutti.
Eppure, Miriam sogna la fame. Sono più di sessant’anni che si nasconde in questa città e non ha avuto fame neanche per un’ora, eppure ogni notte sogna le privazioni della sua giovinezza. Non ha niente a che vedere con la vita che ha vissuto da adulta o con quello che è oggi, e tuttavia non riesce a sbarazzarsi di quei sogni: s’infilano nel sonno e se ne impossessano, proiettandola a forza sessantotto anni indietro nel tempo o anche di più e costringendola a chinare la testa e scappare, abbassare lo sguardo e curvare la schiena, rubare un tozzo di pane a chi non ha la forza di mangiare, cercare di imboccare un fratellino che non riesce più nemmeno a deglutire, mettersi vicina a Else all’adunata e snocciolare sottovoce l’alfabeto per poi fissare lo sguardo nei suoi occhi innaturalmente grandi, quegli occhi che…
Tutto questo si ripete, notte dopo notte. E se per di più a Kaiser, il pastore tedesco del vicino, salta in mente di mettersi ad abbaiare quando lo lasciano uscire in giardino la mattina presto, Miriam apre gli occhi con le viscere brucianti di terrore.
Ma stanotte Kaiser non abbaia, dorme ancora nel letto del suo padrone grassoccio, e così lei può concedersi di svegliarsi lentamente e indugiare nel vestibolo tra sonno e veglia. È la stanza che predilige: una stanza molto reale, sebbene esista solo nella sua fantasia, una stanza in cui è in grado di governare i sogni e addolcirli, una stanza in cui tutti i morti sono ancora vivi, in cui lei è libera di essere chiunque e ovunque, libera di fluttuare tra epoche e luoghi, tra ricordi, sogno e realtà. Però non lo fa. Non stanotte. Al contrario, si ferma e si guarda intorno notando che questa mattina il vestibolo è sferico e che tutti gli sportelli sono socchiusi. Ieri erano ottantaquattro, ma oggi sono diventati ottantacinque e lei lo sa senza bisogno di contarli. Inoltre sono tutti in teak e provvisti di maniglie lucide. A dire il vero somigliano ai pensili della prima cucina davvero sua, quella che ha amato più profondamente e ardentemente di quanto non abbia mai amato Olof, il che non è poco. Ma non è a questo che pensa adesso. Sta davanti ai suoi sportelli e li scruta cercando di risalire a quali sono i primi e quali gli ultimi ma guardandosi bene dallo spalancarne qualcuno. Ed ecco che dietro un’anta scorge un lembo di cotone a righe. Le basta: allunga una mano e la chiude con forza, ripetendo l’operazione sui quindici sportelli precedenti e i cinque successivi, che sbatte con colpi brevi e secchi. Bang-bang-bang! Poi si guarda intorno e rilassa le spalle, sorride e si appoggia sulla spalla la lunga treccia bianca per poi passarsela sotto il naso come se fosse un animaletto domestico in cerca di coccole. Ecco fatto: è il momento di festeggiare il compleanno da sola, prima che il resto della famiglia si svegli e disturbi i suoi ricordi.
Per quasi mezz’ora sbircia nei molti sportelli della sua memoria. Ecco il piccolo Thomas correrle incontro e lei stringerlo forte tra le braccia e farlo girare in tondo, in tondo, mentre la gonna a pois le si solleva intorno alle gambe e la risata infantile la trascina con sé. Eccola damigella d’onore al matrimonio di Hanna, con il bouquet che le trema in mano quando la sposa scoppia in un pianto dirotto nell’istante in cui Egon le infila l’anello al dito. Sono così felice, biascica Hanna passandosi in modo del tutto inopportuno la destra inguantata sotto il naso. Scusate! È solo che sono così felice! E tutti sorridono. Sorride Egon e sorride Olof, sorridono il sindaco e l’ufficiale dello stato civile e sorride Miriam, ma a un tratto Thomas si mette a piagnucolare e lei si affretta a rimboccargli intorno la copertina di cotone azzurro. Dietro l’anta successiva è lei la sposa e si accorge di essere molto bella mentre percorre la navata in abito bianco. Molto giovane, molto scura di capelli e molto bella, ma accanto a lei Olof ha l’aria vagamente ansiosa. Forse ripensa al suo primo matrimonio, quello vero, che si è celebrato nella cattedrale in città ma è durato poco più di un anno, fino al giorno in cui la sua giovane moglie ha partorito Thomas e ha smesso di respirare e far battere il cuore, senza lasciarsi riportare alla vita in nessun modo. A meno che non sia preoccupato per il fatto che Miriam, senza dirgli una parola, è andata dal pastore il giorno dopo che lui le aveva chiesto di sposarlo e ha dichiarato di voler rinnegare la fede dei suoi avi ed entrare a far parte della Chiesa di stato svedese, se possibile. E certo era possibile. Il pastore Klintberg quasi sbavava per la gioia e aveva messo in programma il battesimo già la domenica dopo. Olof sa che Miriam non è poi così sicura che un Dio esista davvero e oltretutto condivide i suoi dubbi, eppure è tormentato dalla sua decisione. Possibile che si sia convertita solo per quel matrimonio, perché vuole percorrere la navata della cappella di Sankta Valborg in abito bianco e velo con la coroncina di mirto, perché all’uscita vuole ritrovarsi sulla scalinata avvolta nella sua adorata pelliccia di morbido coniglio mentre amici e parenti gettano il riso addosso a entrambi? E se è così, che genere di persona la rende tutto questo?
Una persona che ti amava, risponde Miriam in un sussurro più di sessant’anni dopo. Una persona che aveva già perduto tutto, perfino se stessa, e sapeva di non poter sopportare di perdere anche te; una persona pronta a mentire e giurare il falso per indurti a non lasciarla mai e che nella sua immensa innocenza pensava che una cerimonia religiosa avesse più valore per te, fosse più importante e rendesse il matrimonio più saldo e resistente di quella civile. Non potevo permetterti di andartene! Per questo dovevamo sposarci in chiesa. Nonostante Dio. Per sicurezza.
Sicurezza era la parola più importante dell’epoca, e lei l’aveva già capito. Tutti quegli svedesi al sicuro volevano più sicurezza, maggiore sicurezza, una sicurezza sovrumana, insomma. I fantasmi del passato li assediavano senza mai smettere di ululare ciò che era stato. L’ultima grande carestia risaliva a quattro decenni prima! La miseria e l’umiliazione della disoccupazione solo a due! E poi la guerra, che soltanto dieci anni prima aveva sfiorato le frontiere del paese, quella stessa guerra in cui oltreconfine tanti esseri umani erano stati fucilati e crivellati, oppure uccisi dalla fame, dal gas, dalle botte e dai lavori forzati. Niente sembrava in grado di far sbiadire il ricordo delle loro terribili urla, ma nessuno in quel paese aveva più la forza di ascoltarli, nessuno voleva pensare che c’erano stati momenti in cui erano state voltate loro le spalle, ed erano stati tanti; no: al massimo erano disposti a pensare ai tardivi attimi di eroismo, ed erano stati tanti anche quelli; ma soprattutto volevano pensare che tutti, operai compresi, potevano ormai concedersi una bistecca la domenica, e polpettine e salsicce di Falun invece delle aringhe nei giorni feriali; che tutti, ma proprio tutti, avevano tre settimane di ferie pagate ogni estate e alcuni operai particolarmente solerti potevano addirittura permettersi un’automobile. Un’auto tutta loro! Una minuscola utilitaria parcheggiata davanti alla minuscola casetta di proprietà. Dunque il futuro non era soltanto in arrivo. Era già arrivato.
E lo stesso valeva anche per Miriam: lo vede guardando dietro le ante che si aprono subito dopo le nozze. Eccola che esce sorridendo in giardino reggendo un vassoio. Intorno a lei è estate. Le rose color albicocca fioriscono nell’aiuola, le peonie rosa si sono schiuse e un timido gelsomino appena piantato ha aperto i primi boccioli mettendo a nudo le sue stelle bianche. Sul vassoio c’è lo sciroppo di rabarbaro preparato da lei l’anno prima, la torta marmorizzata appena sfornata e le rigonfie girandole alla cannella di cui ultimamente va molto orgogliosa. Olof le sorride e dice che berrebbe volentieri un bicchiere di sciroppo di rabarbaro prima del caffè, perché lo sciroppo di rabarbaro di Miriam è il più buono del mondo. E Thomas le si stringe addosso e dice che è proprio così: lo sciroppo più buono del mondo.
Dietro l’anta successiva è già diventato più grande e spigoloso, ma è ancora il suo bambino. Mai che le risponda male o faccia le smorfie alle sue spalle, ma d’altra parte lei si guarda bene dall’essere invadente. Lo bacia sulla guancia solo ogni tanto, se lo prende per mano è per controllare che i guanti gli vadano ancora bene, e quando gli stanno stretti gli chiede quale colore vuole per il nuovo paio che gli farà a maglia. Grigio? Bene. Allora gliene confezionerà un paio grigio.
Ma dietro lo sportello dopo si vede seduta nel suo bel soggiorno, nella bella villa che Olof ha ereditato, con i bei mobili che ha comprato perché guadagna bene; Olof fa il dentista e nessun dentista di Nässjö guadagna quanto lui, e lei è sul suo bel divano Carl...