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E-Book, Italienisch, 294 Seiten
Axelsson La tua vita e la mia
1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-7091-580-8
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 294 Seiten
ISBN: 978-88-7091-580-8
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Ex giornalista di successo e vedova solitaria nella sua amata Stoccolma, Märit si trova costretta a tornare a Norrköping, nella casa d'infanzia di cui non sente nostalgia, per festeggiare insieme al suo gemello Jonas il settantesimo compleanno. Un impulso irresistibile durante il viaggio in treno la spinge a scendere a Lund, dove non mette piede da cinquant'anni, e a cercare la tomba dei «malati» di Vipeholm, il grande manicomio in cui finì suo fratello maggiore Lars. Lars-lo-Svitato, lo Sgorbio, come lo chiamavano tutti: di colpo Märit non può più trattenere i ricordi e le domande rimaste senza risposta fin da quel tragico giorno in cui sua madre morì, quando lei era appena quattordicenne, e il fratellone che era sempre stato con loro venne fatto sparire. Perché Märit non riesce ancora a dimenticare, o addirittura a fingere che niente sia successo come tutti a casa hanno sempre fatto? Cosa accadde veramente in quel lontano 1962, quando lei entrò a Vipeholm e scoprì ciò che vi avveniva, domandandosi chi ne portava davvero la colpa, senza poter opporre altro che rabbia e vendetta al muro di solitudine che separava ogni membro della sua famiglia? Con il suo occhio clinico e ipersensibile alle sottili crepe nell'edificio della società svedese, e con la capacità di calarci nei percorsi ad alta tensione emotiva dei suoi personaggi, Majgull Axelsson indaga la fragilità dei legami famigliari in un Paese rigorosamente improntato all'emancipazione dell'individuo. E attraverso la ricerca di verità della sua protagonista affronta un tabù della socialdemocrazia scandinava, risalendo all'epoca della sua fioritura come modello di uguaglianza e solidarietà sociale per dare voce a coloro che ne furono tagliati fuori, privati perfino dei diritti umani.
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Allora, dice l’Altra, che sembra essere tornata arzilla da quando siamo rientrate in albergo, ci siamo infilate nel morbidissimo letto da principessa sul pisello e abbiamo chiuso gli occhi. Adesso posso cominciare a svolgere il mio compito? Eh?
È convinta, infatti, che spetti a lei occuparsi dei miei ricordi, preservandoli e salvaguardandoli. Sostiene che io sono negligente e che lo sono da una vita, che mescolo ricordi e fantasie, che mento e altero, tolgo e aggiungo. Lei sarebbe insomma la testimone obiettiva mentre io non sono affidabile, dato che mi piace troppo dare un’immagine lusinghiera di me stessa.
È verissimo, sussurra.
Piantala, rispondo. Piantala e chiudi il becco!
Non credo proprio, ribatte. Perché nei tuoi ricordi sei quasi sempre quella che compie buone azioni in silenzio, anche se alcune di queste azioni potrebbero apparire malvagie, a vederle da fuori. Ma su questo possiamo ritornare più avanti. Negli altri casi sei la parte lesa, la vittima innocente che mai si sognerebbe di guardare in faccia un osservatore esterno, ma che al contempo si assicura che questo osservatore noti come sanno velarsi di lacrime i tuoi occhi. Il muto rimprovero, in effetti, è il tuo cavallo di battaglia. Mai e poi mai ammetteresti che in quegli occhi c’è spazio per molto altro. Sete di vendetta, per esempio. O disprezzo. Per non parlare di rabbia, odio, avidità, superbia e invidia. Solo per fare un breve elenco dei tuoi peccati.
Grazie tante, rispondo muta girandomi nel letto. Grazie davvero!
La mia mostriciattola sbotta in una risata secca. Ormai non la ferma più nessuno.
D’altra parte non voglio affatto essere ingiusta, continua. Dentro di te volta s’apre dopo volta, proprio come in tutti noi, e sotto alcune di quelle volte ci sono pure la tua empatia sincera, la tua umiltà, il tuo amore – anche se ormai si concentra principalmente su un’insignificante nipotina –, la tua capacità di perdonare, che onestamente è abbastanza scarsa, e – va detto! – il tuo senso dell’umorismo. Solo che non hai mai il coraggio di riconoscere le tue virtù nemmeno con te stessa. Sei convinta che scoppierebbero come bolle di sapone se ammettessi anche solo una volta la loro esistenza. E forse hai ragione. Inoltre la lista dei miei peccati è lunga più o meno come la tua. Sono pronta a riconoscerli tutti tranne la bugiardaggine, perché io non mento mai.
Mi rigiro nel letto e sibilo: Ah, certo! La dote principale dell’abile mentitore è proprio quella di mentire così abilmente da convincere perfino se stesso.
L’Altra sospira. Proprio così. Quindi di cosa può vantarsi? Di ben poco, ma dipende più che altro dal fatto che non è mai vissuta sul serio, che non ha nemmeno potuto trarre il suo primo respiro…
Alla faccia dell’autocommiserazione, rispondo io, però poi stringo gli occhi e mi vergogno un pochino. È un pensiero malevolo. In effetti ha ragione. Non ha avuto modo di vivere.
Entrambe diamo la colpa a Jonas. Almeno la maggior parte delle volte. L’Altra ritiene di avere ottime ragioni, dato che è convinta di ricordare quell’attimo ancora più nitidamente di quanto ricordi il nostro concepimento. Fu colpa di Jonas se il cordone ombelicale le finì intorno al collo, dunque fu colpa sua se rimase strozzata e se dovettero mettere il suo corpicino in una piccola bara di pino invece che in una delle culle in masonite che si usavano all’epoca nel reparto maternità di Norrköping. Lei però si trasferì subito nella mia testa. Era più che giusto, sostiene: per qualche ora, dopo il concepimento, eravamo state una cosa sola; poi eravamo diventate due e infine tornammo a essere una creatura unica. Non fu un processo del tutto indolore e io mi misi a lanciare strilli così acuti che una delle ostetriche non poté fare a meno di ridere forte. Questa qui non sarà certo una che dove la metti sta. Nessuno si unì alla risata, però. Il medico e l’altra ostetrica erano impegnati a cercare di rianimare il corpicino dell’Altra. Con scarso successo, come si è già capito.
Eppure ha vissuto, anche se solo come un’ombra. Una vita l’ha avuta, nonostante tutto, una vita molto più lunga e più felice di quella concessa a nostra madre.
Bisogna sapersi accontentare.
L’ultimo giorno della vita di mia madre mi svegliai molto presto. Un vecchio ciliegio riluceva con i suoi rami neri davanti alla finestra: era una mattina di alba grigia e pioggerella. Fuori il mondo era immerso nel silenzio. La città era immersa nel silenzio. La casa era immersa nel silenzio.
Mi piaceva.
Mi piacevano l’alba e la pioggerella e il silenzio, ma soprattutto mi piaceva svegliarmi nella mia camera. La camera in mansarda. La camera che era solo mia. Una camera con le mie pareti, il mio pavimento, la mia porta chiusa. Me l’aveva fatta mio padre due anni prima e io gli ero ancora infinitamente grata. Non importava che ne avesse ricavata anche un’altra quasi identica per Jonas all’estremità opposta della mansarda, e che per arrivarci ci si dovesse arrampicare su per una scala a pioli piuttosto instabile e infilarsi nella botola della soffitta; l’essenziale era che quella stanza appartenesse a me e solo a me, che fossi stata io a confezionare le tendine bianche e ad appenderle, io ad aver ricevuto in regalo dalla mamma una saintpaulia mezza avvizzita, io ad averla trapiantata in un altro vaso, ad averla fatta fiorire, fiorire e fiorire ancora sul davanzale. La mia camera. Le mie tendine. La mia azzurrissima saintpaulia.
Mi rannicchiai nel letto e mi tirai la trapunta rossa sulle spalle. Non erano neanche le cinque meno un quarto e non dovevo ancora alzarmi, infilarmi la vestaglia e scendere nel bagno in cantina per fare la doccia. Potevo restare a letto un pochino, ascoltare il silenzio e godermi l’insolita sensazione di aver dormito veramente bene.
In casa erano tutti immersi nel sonno, compreso mio padre. Di solito si alzava in punta di piedi poco dopo le cinque, si scolava in fretta una tazza di caffè in cucina e poi sgattaiolava nel garage grigio accanto al nostro cancello, dove si trovava la sua officina. Dormiva anche Lars, che in genere si svegliava cacciando un urlo verso le sei. E pure il nonno, che a volte veniva strappato al sonno e praticamente buttato giù dal letto proprio dall’urlo del nipote e salutava la nuova giornata con un ruggito. Porca puttana! Possibile che quel cretino di suo genero non potesse assestare al deficiente due bei ceffoni e insegnargli a tenere chiusa la boccaccia, così da poter aprire gli occhi al suono della sveglia come la gente normale? Eh?
La mamma, il papà e Lars occupavano il trilocale al piano terra, i nonni il bilocale al primo piano e io e Jonas la mansarda. Condividevamo la lavanderia e il bagno in cantina, però solo io scendevo a fare la doccia ogni mattina. Mio padre faceva il meccanico d’auto, o meglio, il meccanico in generale, visto che riparava mezzi a motore ma anche biciclette e macchine per cucire, abilità ereditate da suo padre e che gli avevano irruvidito le mani. Aveva ereditato anche metà della nostra casa in muratura e liquidato la sua parte alla sorella, e ormai ne era l’unico proprietario senza mutui né ipoteche, dalla cantina al colmo del tetto. Il nostro nonno materno veniva dalla Scania, aveva le gambe un po’ storte ed era un ex operaio tessile, trasferitosi a Norrköping per diventare delegato dell’Unione operai tessili e patriarca nella famiglia della figlia, che governava chiedendo continuamente a tutti noi (eccetto i miei genitori) se volevamo un ceffone. Non lo volevamo. La nonna, da parte sua, sosteneva a voce alta di averlo seguito per pura e semplice nostalgia della sua unica figlia e dei suoi meravigliosi nipoti, perché per il nonno non ne sarebbe valsa la pena, visto che era un bastardo avaro e cattivo. Oggi li si sarebbe forse potuti definire rifugiati economici. Il nonno, infatti, guadagnava più che bene, ma non pagava nessun affitto. A suo modo di vedere, lui e la nonna facevano la loro parte, e forse su questo non si poteva dargli torto. Nostra madre aveva tempo per essere mamma solo di Lars, e così la nonna doveva fare da mamma sia al nonno che a Jonas, mentre io e il papà facevamo da mamma a noi stessi. A me sembrava una buona divisione dei compiti, soprattutto considerando che a volte la nonna veniva colta dai sensi di colpa per avermi dimenticato e mi passava in segreto un biglietto da cinque corone o addirittura da dieci. Ormai avevo centosessantacinque corone nascoste nel sottomano della scrivania. Centosessantacinque. Non sapevo di nessun mio coetaneo che avesse da parte un capitale del genere. D’altronde nessuno della mia classe sapeva che fossi così ricca. Nemmeno Kajsa.
Kajsa era la mia migliore amica e abitava nella casa quadrifamiliare degli Olsson di fianco alla nostra. Volendo avrei potuto alzarmi dal letto, andare alla finestra e guardare dritto nell’appartamento in cui viveva con sua madre, ma preferii starmene distesa a godermi il calduccio e lasciar vagare i pensieri. Dava un senso di pace, di grande pace.
La cosa strana di Kajsa era che fosse già adulta. In effetti non aveva ancora finito di crescere e formalmente aveva ancora solo quattordici anni appena compiuti, eppure era già grande, e da un pezzo. Parlava come un’adulta, ragionava come un’adulta, si comportava come un’adulta. Forse era nata adulta. Alcuni lo pensavano. Jonas, per esempio, e la sua compagnia al completo.
«Sono sicuro che è nata con la borsetta», aveva detto una volta Staffan Sundell sghignazzando. «Certo che dev’essere stato un parto di quelli tosti…»
E così aveva conquistato i soliti spacconi. Per l’ennesima volta.
Kajsa aveva saputo della...